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Autore: __Stella Swan__    18/07/2012    1 recensioni
Il barista si bloccò davanti a me, fissandomi per qualche strano motivo. Forse per la maledetta somiglianza con le immagini della ragazza che avevano fatto vedere in televisione.
Tirai giù il cappuccio, continuando a bere la mia acqua tonica come se niente fosse. Rimassero tutti sbigottiti quando, al posto della chioma rossa che avevano descritto alla tv, videro un corto taglio corvino. Inarcai le labbra verso il barista, invitandolo a darmi altro da bere.
Meno male che avevo avuto la bella idea di cambiare un po’ il mio aspetto, prima di recarmi a Londra.
Non mi avrebbero trovata facilmente.
{Estratto dal Prologo}
Storia sospesa
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Sesto giorno: Hyde Park.


Mi svegliai piuttosto bene: fortunatamente non avevo sognato niente quella notte, in più ero stata costretta a mettere la sveglia perché entro le undici avrei dovuto liberare la camera: la permanenza in questo hotel era finita, avrei dovuto cercarne un altro.
Cercai di fare i bagagli il più velocemente possibile, siccome erano le dieci e mezza. Non sarei scesa nemmeno per la colazione, così mi sarei rintanata in un bar con internet e avrei mangiato brioche e cappuccino mentre cercavo un hotel nei dintorni.
Mi vestii e misi parrucca e lenti a contatto, così per non crear sospetti. Ancora mezza addormentata trascinai la valigia fino alla hall, dove salutai e ringraziai receptionist e concierge per l’ospitalità. Sospirai e mi guardai intorno, cercando di ricordare dove poteva essere il più vicino internet cafe. Cominciai a camminare vero Piccadilly Circus, continuando a guardarmi intorno per trovare un bar dove rintanarmi per almeno un’oretta. Il tempo non era il massimo: nuvoloni grigi coprivano il sole, l’aria era fredda e la temperatura si era decisamente abbassata durante la notte.
Mi fermai al Millies Cookies e mi sedetti ad un tavolino, tirando fuori il netbook che avevo nella valigia e aspettando che si connettesse ad internet.
Nel frattempo ordinai un Double Choc e un Hazelnut Latte. Guardai fuori dalla finestra e ripensai ad Adam: non mi aveva più scritto dopo la buonanotte. Non riuscivo a togliermi dalla testa quanto fosse maledettamente elegante con quello smoking, a teatro.
Davvero era appassionato di teatro?, mi chiesi subito. Mi scappò una piccola risata: un giovane poliziotto dello Scotland Yard, probabilmente della SO12, appassionato di drammi shakespeariani. Non poteva esistere sulla terra un ragazzo come lui.
Nell’esatto momento in cui arrivò la mia colazione il pc si attaccò alla rete, così cercai subito so Google Maps qualche hotel nei dintorni di Piccadilly Circus che non fosse uno dei due in cui ero già stata.
Cercai un cinque stelle, siccome mi andava di spendere e spandere: intanto i soldi erano di papà. Trovai il Cavendish, non lontano da Sackerville Street, e il Rocco Forte, poco più lontano, in Albemarle Street. Andai a vedere le immagini dei due hotel e optai per quest’ultimo: mi sembrava molto più lussuoso, mi pareva giusto provare anche lo sfarzo estremo ed i costi elevati per una bella permanenza a Londra.
Prima di uscire dal cafe decisi di andare in bagno e cambiare subito il mio look, così sarei arrivata all’hotel già pronta. Mi chiusi dentro a chiave e cercai un po’ tra tutta la roba: decisi di prendere una parrucca castano cioccolato coi capelli mossi e scalati, lunghi fino a metà schiena. Per le lenti ne presi un paio verde smeraldo, sperando che si mescolasse bene con le mie iridi naturali.
Il bruciore agli occhi durò qualche minuto, poi tornò tutto alla normalità: il colore degli occhi era piuttosto naturale, perciò decisi di tenere quelle. Ritirai il resto nella valigia ed uscii, puntando verso l’hotel che avevo scelto.
Camminai lungo la Piccadilly, sorpassando Sakerville, e svoltai ad Albemarle Street. Arrivai davanti alla scritta Brown’s Hotel ed entrai mentre la porta mi veniva aperta. L’interno era maledettamente lussuoso: il bancone della reception davanti a me era in legno scuro, posizionato alla fine del corridoio. Dietro c’erano una ragazza ed un ragazzo piuttosto giovani. Mi avvicinai continuando a guardarmi intorno, rendendomi conto di quanto fosse molto più bello dal vivo che da internet.
«Benvenuta al Brown’s Hotel signorina, possiamo esserle utile?», disse la donna.
Posai il bagaglio e sospirai. «Sì, vorrei prenotare una suite per tre notti, se fosse possibile», risposi.
Mi sorrise e controllò sull’agenda le camere disponibili. «Tra le suite abbiamo la Kipling, la Hellenic, la Albemarle, la Dover, la Deluxe e le classiche. Ditemi voi quale preferite, ce ne sono libere almeno una per tipo».
Avevo dato un’occhiata alle varie suite, ma non ricordavo perfettamente la differenza di tutte quante: cambiava la grandezza e qualche altro servizio. «Prendo la Hellenic». La donna sorrise e segnò il mio nome sulla suite, prenotata per tre giorni.
«Spero che gradisca la permanenza nel nostro hotel. Lasci pure le valige al concierge, le porterà in camera all’ora del check in», mi disse. Avrei dovuto aspettare ancora qualche ora, perciò avevo un po’ di tempo libero. Come al solito.
Ringraziai ed uscii dall’hotel tenendo solo la borsa, puntando a centro città.
Per quel giorno decisi di recarmi all’Hyde Park, così avrei potuto fare una passeggiata tranquilla. Non mi andava di visitare musei o altro, quindi meglio rilassarsi al parco anche se il tempo non era dei migliori. Per fortuna avevo messo le scarpe da ginnastica, così ero anche più comoda.
L’Hyde Park dall’hotel non era distante: percorsi a piedi la Piccadilly Streen fino alla fine e sbucai esattamente davanti al parco. Costeggiai l’Hilton Park del Buckingham Palace ed arrivai al Wellington Arch, svoltando a destra ed entrando nel parco. C’erano molte persone che passeggiavano, correvano, andavano in bici o semplicemente si riposavano sul prato.
Vidi la statua di Achille sulla mia destra e poco più avanti, ma decisi di seguire la strada che portava al Serpentine. Passare in mezzo agli alberi mi faceva sentire un po’ a casa: dove abitavo io ero circondata di verde, siccome il castello si trovava sulla cima di una collina che si trovava tra i boschi. C’era un bel po’ di differenza, però, tra l’Hyde Park e Braşov: per quanto il parco fosse bellissimo, la natura del mio paese era unica al mondo.
Arrivai al Serpentine e notai che l’acqua era molto più pulita del Tamigi, anche se non ci voleva molto. C’era un chiosco sul laghetto circondato da salici piangenti ed anatre che nuotavano tranquillamente sul bordo dell’acqua. Alla fine del Serpentine c’erano i Kensington Gardens e il Kensington Palace, ma non sarei andata fino lì. Magari lo avrei visitato un’altra volta.
Tornando indietro mi fermai in uno spiazzale enorme nella quale c’erano le giostre. Era pieno di bambini che correvano a destra e sinistra, musichetta allegra e banconi di dolci e schifezze di ogni genere. Appeso ad un albero c’erano persino due occhioni blu dall’aria buffa, probabilmente due enormi palloncini incastrati tra i rami in modo che non scoppiassero.
Mi avvicinai al bancone dei dolci e guardai che cosa avrei potuto comprarmi: c’erano cioccolatini, caramelle, lecca lecca e chi più ne ha più ne metta. Rimasi in coda scegliendo che cosa prendere, cercando di non esagerare: ero sempre stata piuttosto golosa, ma mio padre non mi lasciava mai comprare nulla del genere. Diceva che faceva male al sangue, che lo rendeva cattivo perché nauseante.
Ci vollero anni per capire esattamente che cosa intendesse dire.
«Scelga pure quello che vuole signorina, glielo offro io», disse una voce alle mie spalle. Raddrizzai la schiena e storsi il naso: conoscevo quell’odore alla perfezione, anche se ci trovavamo all’aria aperta in mezzo a molte persone.
Quando mi voltai vidi un ragazzo piuttosto giovane e niente male: alto una decina di centimetri più di me, capelli neri ed occhi penetranti. La pelle era lattea, gli zigomi alti e ben definiti. Mi sorrise non appena incontrò il mio sguardo e, per non dar nell’occhio, feci altrettanto.
Probabilmente non era un vampiro mandato da mio padre, ma uno che aveva voglia di succhiare un po’ di sangue da un collo caldo. Fosse stato davvero mandato a catturarmi, avrebbe cercato di intrufolarsi nella mia camera d’hotel come il ciccione, oppure mi avrebbe catturata in un angolo buio e deserto della strada.
«Oppure anche tu non accetti le caramelle dagli sconosciuti? La compriamo insieme, te la pago io, non te ne offro di mie se non ti fidi».
Era comunque un vampiro da uccidere: a Braşov ero solita uscire solo nella speranza che qualche vampiro mi adocchiasse, così avrei potuto ucciderlo. Era una tecnica che mio padre mi aveva insegnato abilmente anche se, a parole sue, “non serve nessuna tecnica per attirare un uomo verso di me”.
Sorrisi e scossi la testa, cercando di non fargli capire che avessi capito il trucco. «Certamente, allora prendo un pacchetto di caramelle miste da cinque sterline», risposi. Il vampiro tirò fuori il portafoglio e pagò subito le mie caramelle, dandomi il sacchetto con un sorriso stampato in volto.
«Non sei di Londra», mi disse cominciando a camminare al mio fianco. Teneva le mani nelle tasche del cappotto lungo fino alle ginocchia, nero corvino, lo sguardo dritto verso sé.
Ci incamminammo verso il Winter Wonderland, più o meno all’entrata dell’Hyde Park. «No sono una turista, vengo dall’est europeo», risposi. Intanto ero più che sicura che non fosse stato mandato da mio padre, era inutile nascondere la verità. Anche perché, fosse stato mandato a cercarmi, mi avrebbe riconosciuta comunque dal mio odore.

La zona in cui stavamo andando era meno affollata, anche se c’erano diverse persone che passeggiavano. All’improvviso, cambiò idea e mi prese la mano, facendomi tornare indietro verso il Serpentine. Non capii bene la sua tattica, ma non feci parola. Intanto mangiavo le caramelle, pensando al metodo più conveniente per ucciderlo: non potevo farmi vedere da qualcuno mentre lo pugnalavo, quindi avrei potuto usare la collana con la croce e colpirlo alla gola. Poi mi sarei dovuta sbarazzare del corpo, nel caso non si fosse dissolto subito.
«Io abito a Londra da diversi anni, mi sono trasferito per lavoro. Come ti chiami?».
«Mia», risposi tranquillamente. Intanto presto sarebbe morto. «E tu?».
«Mi chiamo Virgil, sono di origine rumena», e mi lanciò un sorriso. Aveva capito che anche io lo fossi, probabilmente. In quel momento mi venne il dubbio che fosse stato mandato a cercarmi, eppure non era questo il modo che usavano i vampiri di mio padre per avvicinarmi. «Allora, ti sono piaciute le caramelle?».
«Molto, ma non dovevi comprarmele».
Ridacchiò divertito, scuotendo la testa. «Figurati, è stato un piacere».
Passammo davanti ad una casetta circondata da alberi e fiori appassiti che dava proprio sul lago. La vegetazione si stava facendo più fitta e le persone erano sempre meno, forse era il luogo più adatto per attaccare. Avrei dovuto aspettare la sua prima mossa: se fosse stato lui a farlo, significava che eravamo completamente al sicuro e lontani da occhi indiscreti.
Si fermò e così feci io, abboccando volontariamente all’amo. Virgil mi fece voltare e si avvicinò col viso, studiandomi con attenzione il volto. Con il pollice della mano destra mi pulì la guancia da qualcosa che, molto probabilmente, non avevo. «Eri sporca di zucchero», mentì. Gli sorrisi come per ringraziarlo e lui fece lo stesso. «Hai un buon profumo».
Decisamente non era stato mandato da mio padre: un vampiro addestrato non avrebbe mai e poi mai detto una cosa del genere alla sua vittima. Nemmeno il ciccione aveva detto una stupidaggine così grossa, ma era andato direttamente al punto: era venuto a prendermi.
Lentamente Virgil si avvicinò al mio viso e lo lasciai fare, sfilando il tappo della croce nascosta nella tasca della giacca. Non si accorse di nulla e mi trovai a sfiorare appena le sue labbra. Il respiro era gelido e mi ricordai il freddo che avevo nei sotterranei del mio castello. Invece che baciarmi avvicinò il viso al collo, inspirando a fondo il mio odore. Strinsi la collana nella mano destra e, più velocemente che potessi, conficcai l’ago nella sua gola.
Strozzò un grido ed il suo sangue schizzò sul mio viso, mentre la sua pelle cominciava a bruciare. Il vampiro alzò gli occhi infuocati su di me e mostrò i canini ben affilati, ma ormai per lui era troppo tardi: l’acqua santa aveva cominciato a bruciarlo dall’interno, siccome avevo preso perfettamente la carotide e quel veleno aveva cominciato a circolare in tutto il suo corpo. Inoltre l’argento aiutava a non curare la sua ferita.
Virgil mi afferrò per le spalle e tentò invano di mordermi, ma lo spinsi e cadde all’indietro. L’acqua santa lo aveva immobilizzato ed io mi avvicinai, inginocchiandomi davanti a lui ed incidendo sempre con l’ago della collana una croce sulla sua fronte. Controllai che non ci fosse nessuno nelle vicinanze e trascinai Vergil fino al bordo del lago, lanciandogli un’ultima occhiata. «Hai scelto la ragazza sbagliata», mormorai. Mentre tentava di dire qualcosa lo gettai nel lago e lo vidi affondare velocemente, fino a quando non riuscii più a distinguere i suoi lineamenti.
Molto probabilmente non lo avrebbero più trovato.
Finii le caramelle e tornai indietro fino all’hotel, così avrei potuto sistemare la mia roba e sbirciare in giro. Il concierge mi aprì la porta e mi diedero le chiavi della mia stanza: numero cento ventisette, quarto piano. Presi l’ascensore, dato che la mia valigia era già in camera, e cercai la stanza.
Quando aprii la porta rimasi incantata: mi trovai nel salotto con un divano a due posti in pelle marrone, una poltrona e davanti un tavolino in vetro e legno, sulla quale c’erano alcune riviste. Dietro il divano c’erano una scrivania ed un tavolino rotondo con tre sedie bianche.
Andai alla stanza successiva e mi trovai nella camera da letto: un matrimoniale bianco con coperte a righe affiancato da una chaise longue marrone. Continuai col bagno, completamente in marmo bianco: c’era una doccia doppia, doppi servizi igienici ed una vasca enorme. Ero abituata allo sfarzo a casa mia, ma lo stile era completamente diverso e mi piaceva molto.
La valigia si trovava accanto al letto e sul cuscino c’era un volantino colorato: la sera successiva, nella Claredon Room, si sarebbe tenuta una festa in maschera pre-Halloween. Tutti gli ospiti dell’hotel erano invitati a partecipare gratuitamente, mentre gli esterni avrebbero dovuto pagare l’ingresso. La festa si sarebbe tenuta anche nella Niagara e nella Roosevelt Room, ma l’incontro principale con una band che suonava si trovava nella Claredon.
Festa in maschera. L’ultima alla quale ero andata era stato quando avevo sedici anni e non ci ero stata per più di mezz’ora perché mio padre mi aveva costretta a tornare a casa. Anzi, i suoi scagnozzi mi avevano portato via di peso, al dir la verità. Ed ero stata messa in punizione per aver lasciato il castello.
A pensarci ora mi veniva solo da ridere.
Mi preparai per la sera, dato che avevo deciso di cenare in un ristorante. Non potevo indossare lo stesso vestito che avevo utilizzato per andare a teatro, nel caso avessi incontrato inspiegabilmente Adam. Optai per quello che avevo acquistato qualche giorno prima, molto semplice: nero lungo fino alle ginocchia con le spalline che, ovviamente, avrei coperto con uno scialle o un copri spalle. Faceva troppo freddo per non mettere altro sopra.
Verso le otto di sera mi incamminai verso Piccadilly Circus. Quando arrivai al centro della piazza vidi un cartello pubblicitario del Rowley’s, a poche centinaia di metri da dove mi trovavo. Seguii la Regent Street e svoltai alla Jermyn Street: il ristorante era poco dopo l’angolo. L’ingresso era in legno scuro e con vetrate riportanti la scritta del locale.
Entrai e chiesi un tavolo singolo, mentre un cameriere mi accompagnava a sedermi. La sala quadrata, coperta di specchi su un lato e con tavoli rettangolari, principalmente da quattro posti. Stoviglie e arredamento erano semplici, a differenza del soffitto e delle decorazioni delle pareti. Sembrava un posto accogliente, ad ogni modo.
Notai subito che c’erano molte persone e la sala era piuttosto caotica, così avrei potuto intrattenermi pur essendo da sola. Ordinai un vino bianco e un filetto di salmone alla piastra con insalata e rimasi in attesa del mio piatto.
C’erano numerose coppie e questo un po’ mi rattristava: mi faceva pensare al mio primo ed unico ragazzo in Romania, un paio di anni prima. Scossi subito la testa per non farmi salire il sangue al cervello e pensai ad Adam: lo immaginai davanti a me, mentre mi fissava con quel sorriso dipinto sulle labbra mentre si offriva di versarmi il vino.
Sorrisi automaticamente al nulla, scacciando la rabbia e concentrandomi su bei pensieri, cosa alla quale non ero solita cedere. Avevo imparato che non ci sarebbe mai stata felicità per me, non fino a quando mio padre fosse stato in vita. Il che equivaleva al mai e poi mai.
Davanti a me passò una donna dal profumo così forte da far venire la nausea. Si accomodò al tavolino di fronte al mio ed ordinò immediatamente, senza nemmeno aspettare che il cameriere le porgesse il menù. Incrociò le mani sotto il mento ed alzò il suo sguardo sul mio: mi fissava in modo… strano. I suoi occhi brillavano di una strana luce, sembrava quasi… attratta da me, in qualche modo. Mi sorrise appena ed io sospirai, scuotendo debolmente la testa.
Questo era uno dei difetti che avevo preso da mio padre: la vanità, l’egocentrismo. Mi sentivo sempre al centro dell’attenzione di tutto e di tutti. Beh, alla fine i miei sospetti ogni volta si erano rivelati esatti, quindi avevo solidi fatti su cui basarmi. Mio padre ha inoltre alimentato questo mio difetto, ponendomi al centro della sua vita e dei suoi progetti.
Progetti della quale non vorrei far parte.
Dopo una ventina di minuti arrivò il mio piatto e, poco dopo, lo stesso identico ordinato dalla donna davanti a me. Il rossetto rosso era così in contrasto con la sua pelle chiara, anche se le guance erano leggermente rosate da un tocco di trucco. Gli occhi erano glaciali, lo sguardo così perverso da passare per una prostituta di alto rango. In qualche modo riuscì ad incatenarmi, era una strana sensazione.
Cercai di mangiare senza guardala, ordinando ancora una panna cotta alla vaniglia servita con more fresche ed un caffè macchiato.
Dopo circa un’oretta e mezza uscii dal locale, pagando il tutto al tavolo e lasciando la mancia di dieci sterline al cameriere. A Londra era buon uso lasciar la mancia, in qualsiasi locale.
Il cielo era cupo e soffiava l’aria, ma le strade erano affollate e perfettamente illuminate. Seguii la via ed andati verso il Saint James Square, così avrei potuto fare due passi in quel piccolo parco. Beh, confronto all’Hyde Park la maggior parte erano minuscoli. Sentii qualcuno camminare con il mio stesso passo dietro di me. Un paio di tacchi: una donna.
Quando mi voltai vidi quella seduta al tavolo davanti a me avvicinarsi con un sorriso malizioso dipinto in volto. Mi bloccai e rimasi a fissarla, fino a quando non si trovò a pochi metri da me. «Scusami, non volevo spaventarti», si scusò con voce dolce. Ora che sentivo meglio il suo odore non avevo dubbi: era una vampira.
Scossi la testa e mi strinsi nelle spalle. «Non ti preoccupare. Hai bisogno di qualcosa?», chiesi. In quel momento mi accorsi che non c’era nessuno intorno a noi, né per strada né nel parco.
Si avvicinò ancora, cominciando a farmi mancar l’aria. «Ho bisogno di te», sussurrò in modo malizioso. Fece per sfiorarmi il viso con la mano, ma feci un paio di passi indietro. Mi guardò confusa e delusa, ma non me la sarei bevuta.
«Mi dispiace, ma ho altri… gusti». La sentii ridere e la sua voce mi ricordò il suono delle campane. Quanto sapevano essere incantevoli, i vampiri?
«Non ti va di divertirti un po’? Possiamo andare da un mio amico, se è la tua prima volta: tratta le donne come se fossero dei diamanti. Sarà più che felice vederci arrivare insieme e potrà metterti a tuo agio. Hai mai fatto un ménage-a-trois?».
Mi afferrò la mano e mi bloccò contro un albero. Era troppo forte, non riuscivo a respingerla e, specialmente, non volevo farle capire che sapevo cosa fosse. La vicinanza delle sue labbra alle mie mi metteva parecchio a disagio, non mi ero mai trovata in una situazione del genere. «Sono per il fedele rapporto di coppia, non per le scopate di gruppo», fiatai.
La donna rise ancora sul mio collo, facendomi rabbrividire. «Piccola Mia, non sai cosa ti perdi». La sua voce ora era da gatta morta. Con i denti afferrò il mio labbro inferiore, aprendo una piccola ferita e leccando subito via il sangue. «Mmh, hai un buon sapore. Chissà com’è il resto».
Inarcai le labbra e sbuffai ironica. «Anche un tuo simile avrebbe voluto dir lo stesso oggi. Un certo Virgil, lo conoscevi?».
I suoi occhi si fecero subito di fuoco e cercò di tirarmi un pugno in pieno volto, ma riuscii a schivarla e a liberarmi dalla sua presa. Si acquattò in posizione d’attacco, puntando alla mia gola. «Brutta puttana, pagherai per averlo ucciso!», urlò.
«Chi era, il tuo ragazzo?», continuai a stuzzicarla. Dal suo sguardo capii di aver centrato il bersaglio: beh, niente male doversi occupare di una coppia di vampiri in un solo giorno. «Sapeva di queste tue idee perverse con le donne? O ti piaccio così tanto da essere l’unica eccezione?». Cominciai a camminare su e giù, in tondo, e lei fece lo stesso. Stava per perdere la pazienza, lo si leggeva dallo sguardo. «Anche al tuo lui sarebbe piaciuto tanto portarmi a letto, ma non penso che tu fossi compresa nel giro».
Avevo sfiorato il limite.
La vampira si lanciò contro di me, ma la schivai abilmente. Presi in mano la collana con la croce e subito scoppiò a ridere, mettendosi addirittura la mano sulla pancia. «Pensi davvero che tu riesca ad uccidermi con una croce? Tesoro, hai letto troppi libri riguardo a noi». Si avvicinò velocemente e la trovai a pochi centimetri di distanza, di nuovo troppo vicina alle mie labbra. Mi schiacciò contro un albero ed inspirò a fondo il mio profumo.
«Probabilmente, ma mio padre mi ha insegnato il minimo indispensabile». Aprii il cappuccio della croce e la infilzai nella gola, esattamente come avevo fatto con Virgil. La vampira aprì la bocca, nella quale ristagnava già del sangue, e si portò una mano sul punto in cui l’avevo ferita. Le disegnai la croce sulla gola e mi allontanai, mentre cadeva in ginocchio ed imprecava. «Non posso ucciderti con una croce, ma un mix di argento ed acqua santa può essere letale per un vampiro».
La vampira cadde sulla schiena e cominciò a mancarle il fiato, fino a quando non esalò l’ultimo respiro e le si chiusero gli occhi. Presi il suo corpo e lo buttai in mezzo a dei cespugli, sperando che si incenerisse in fretta. O almeno, prima che la polizia potesse scoprirla.
Ritornai sui miei passi fino all’hotel, dove avrei potuto dormire serenamente in mezzo a quelle coperte così soffici. Mi svestii e feci una doccia veloce, senza nemmeno godermi l’acqua calda sulla mia pelle.
Due vampiri mi avevano attaccato in una giornata. Non che non fossi abituata, ma non a Londra. Beh, poteva essere stata una coincidenza: la vampira era venuta a vendicarsi per avergli ucciso il compagno. Mi aveva adocchiata da subito, probabilmente aveva visto mentre uccidevo Virgil. A quel punto mi chiedevo perché non fosse intervenuta subito.
Meglio non pensarci.
Mi coricai sul letto e controllai le notizie alla tv: niente che mi riguardasse, per fortuna.
Diedi ancora un’occhiata al cellulare, ma non c’era nessun messaggio.
  
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