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Autore: margherIce46    18/07/2012    1 recensioni
Dal terzo capitolo:
“[...]Senza sapere esattamente cosa dire, si limitò a osservare con dispiacere il livello del pregiato Cabernet-Sauvignon calare molto più velocemente di quanto avrebbe voluto, poi il suo calice ancora vuoto e infine l’espressione stravolta di El.
“Ho bisogno del tuo aiuto!” esclamò infine la donna, dopo avere vuotato anche il secondo bicchiere di vino.
L’uomo si sporse verso di lei e si preparò ad ascoltare [...]”
Terza classificata al contest "You and I: di coppie, intrighi, vendette e tradimenti", indetto da LunaGinnyJackson su efp.
Genere: Erotico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti
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Capitolo nono
 
Il tre e i tanti
 
Era una giornata come le altre al Bureau.
Peter e la sua squadra stavano dando la caccia da alcune settimane a un inafferrabile rapinatore seriale, specializzato in furti di opere d’arte, che la fantasia dell’agente speciale Burke aveva soprannominato, con gusto in verità un po’ macabro, Jack The Robber.
Per carità, non si trattava certo di un sanguinario serial killer - altrimenti non sarebbero stati loro a indagare - ma di un abilissimo ladro che in comune con il temibile Jack della Londra di fine ottocento aveva un unico, ma rilevante, elemento: il desiderio di sfidare la polizia.
Infatti, come l’assassino di Whitechapel si divertiva a mandare alle forze dell’ordine lettere di scherno in cui descriveva nei dettagli le atrocità che aveva e che avrebbe commesso, così Jack The Robber amava riprendere le sue malefatte con una microcamera ad alta definizione che portava addosso e inviare i filmati agli agenti che sapeva essere sulle sue tracce.     
Così, due volte nelle ultime settimane Peter e i suoi erano stati costretti ad “ammirare” le gesta del brillante delinquente, a seguirne i movimenti in soggettiva mentre si introduceva indisturbato in gallerie d’arte e case private, dopo aver neutralizzato qualsiasi sistema d’allarme avesse trovato sulla sua strada, tramortiva il personale di sorveglianza eventualmente presente e se ne andava via col suo bottino, tranquillo come se stesse tornando da un pic-nic.
Gli investigatori sapevano che si trattava di un uomo di circa quarant’anni, alto un metro e settantacinque e di corporatura atletica; ovviamente non ne conoscevano l’aspetto, anche perché i testimoni avevano riferito che si travisava con un passamontagna, ma speravano che, guardando e riguardando i filmati, prima o poi sarebbero riusciti a cogliere un dettaglio in grado di metterli sulla pista giusta. Forse un giorno o l’altro Jack avrebbe commesso un errore e il suo esibizionismo l’avrebbe tradito.
Era stato un giorno come gli altri, al Bureau, fino al momento in cui l’agente speciale Diana Berrigan attraversò quasi di corsa tutto l’ufficio, salì precipitosamente le scale ed entrò nella stanza dove Peter stava tentando, insieme a Neal, di capire come diamine avesse fatto l’inafferrabile criminale a eludere gli allarmi l’ultima volta, andandosene indisturbato da una galleria privata di Soho con un Basquiat da due milioni di dollari sotto il braccio.
L’agente speciale era irritato, inutile nasconderlo: nonostante si stessero impegnando tutti al massimo e nonostante le preziose consulenze di Caffrey, brancolavano ancora nel buio e il pensiero che quel delinquente continuasse a prendersi gioco di loro lo mandava in bestia.
Quando Diana irruppe nel suo ufficio per annunciare che un corriere aveva appena consegnato al Bureau un nuovo video firmato Jack The Robber, perciò, Peter - prima ancora di decidere se essere furioso perché il bastardo aveva messo a segno un altro colpo, oppure speranzoso che almeno quella nuova traccia li aiutasse con le indagini - era scattato in piedi e aveva ordinato alla collega di avvisare Hughes e di chiamare a raccolta tutta la squadra in sala riunioni per visionare assieme il filmato.
Lui e Neal furono i primi a entrare nell’ampia sala e a sedersi intorno al  tavolo ovale, seguiti subito dopo dal capo e dagli altri agenti che lavoravano con loro a quel caso. Jones si attardò un attimo sulla soglia, trattenuto da una telefonata al cellulare; durò solo pochi secondi e nessuno prestò attenzione alle due parole che l’uomo pronunciò, con un’espressione indecifrabile sul volto e in tono assolutamente piano: “Tutto ok”.
“Diana” iniziò Peter, quando tutti furono al loro posto “il video è stato recapitato con le stesse modalità delle altre due volte?”.
La donna annuì.
“Si, capo” rispose la donna, posando sul tavolo il piccolo involucro di cartoncino colorato che il corriere aveva consegnato poco prima “hanno prenotato il ritiro con una telefonata in uscita da un cellulare usa e getta irrintracciabile, dando un nome falso e pagando con una carta di credito clonata…l’unica differenza è che stavolta il pacco era indirizzato personalmente a te e non alla White Collar…”.
“Sta diventando un fatto personale…” commentò Neal, fissando sul federale uno sguardo che tutti in quella stanza - tranne uno - interpretarono come carico solo di amichevole preoccupazione.
“Ok” tagliò corto l’altro “Diamo un’occhiata!”.  
 
Penombra, silenzio.
Una stanza da letto ordinata, pulita, borghese; un mazzo di tulipani colorati, appena un po’ sfioriti, nel vaso di cristallo sul comò.
D’improvviso, con un tonfo e un gridolino soffocato, un ragazzo cade pesantemente a faccia in giù sul letto; ha i polsi serrati dalle manette, ma la sua espressione è tutt’altro che preoccupata. L’uomo che lo ha spinto si allenta con un gesto la cravatta e poi si sdraia su di lui.
“Sai che potrei liberarmi di questi affari in pochi secondi vero?” ridacchia il truffatore; la sua voce tradisce l’eccitazione di sentire il corpo del compagno gravare su di lui con tutto il suo peso.
Il poliziotto annuisce e sorride.
“E so anche che non lo farai…” gli dice, allungandosi su di lui.
“Perché adori farlo così” gli mormora subito dopo all’orecchio “almeno quanto lo adoro io…”.
Peter armeggia qualche istante con la cintura dei suoi pantaloni, riuscendo non senza difficoltà ad aprirla; poi, lasciando l’altro ancora immobilizzato sotto di lui, glieli tira giù con energia insieme ai boxer. Si solleva un istante, giusto il tempo necessario per liberarsi della camicia, e poi riprende la posizione di prima.
Lo bacia a lungo, con passione, lasciandolo senza fiato: Neal sente che le sue dita si fanno strada dentro di lui dilatandolo dolorosamente, ma la sua bocca e la sua lingua rendono il tutto decisamente più sopportabile. Si abbandona a quelle carezze ancora per un po’, ma stavolta non vuole che vada come al solito.
Peter è talmente accecato dalla violenza delle sensazioni che sta provando da non rendersi conto che il truffatore è riuscito ad aprire le manette: con un gesto inaspettato lo coglie di sorpresa e lo rovescia sul letto, bloccandogli a sua volta i polsi sopra la testa.
“Allora” esclama il giovane, trionfante, a pochi centimetri della sua faccia “adesso chi è di proprietà di chi?”. 
Peter è senza dubbio il più forte, la presa di Neal non è particolarmente salda e il federale potrebbe liberarsi senza un’eccessiva fatica, eppure non ci prova neanche; almeno per il momento accetta il gioco del suo amante. Il bello del loro rapporto è anche questo: trasgredire le regole, giocare con i ruoli che entrambi ricoprono in pubblico, ribaltandoli a volte nel privato.
Neal continua il suo scherzo provocante: sopra di lui, lo bacia dietro l’orecchio, poi sul collo e poi ancora più giù.
“Hai il diritto di rimanere in silenzio…” bisbiglia, subito prima di prendergli tra le labbra un capezzolo e iniziare a tormentarlo con la lingua, strappando al poliziotto un gemito appena udibile.
“Se rinunci a questo diritto tutto ciò che dirai potrà essere usato contro di te in Tribunale…” mormora dopo qualche decina di secondi, abbassandosi lentamente  fino a raggiungere l’ombelico, che contorna con la lingua e poi penetra piano piano con movimenti allusivi, bagnandolo di saliva. E poi più giù, fino alla sottile linea di peli scuri che dall’ombelico giunge all’inguine.
 
Penombra. Silenzio.
Un ufficio come tanti, ordinato, pulito. Un tronchetto della felicità dall’aria tutt’altro che felice vegeta, sbiadito, in un angolo accanto alla porta. 
Giù in strada, oltre i vetri delle finestre, traffico, clacson impazziti e caos; dentro, il tempo sembra cristallizzato in muto sgomento.
D’improvviso, con un tonfo il fascicolo che Neal teneva tra le mani cade a terra, mentre Diana lancia un gridolino di sbigottimento e si porta le mani alla faccia, solo per un istante.
Peter Burke scatta in piedi come una furia, afferra il telecomando del proiettore e tenta disperatamente di interrompere quell’incubo, ma è evidente che chi ha preparato lo spettacolo ha fatto in modo che non fosse possibile calare il sipario tanto facilmente.
I secondi scorrono interminabili e nell’imbarazzo generale nessuno sa cosa fare, cosa dire, come muoversi, se andarsene o restare: troppo enorme ciò che hanno appena visto, troppo inaspettato e incredibile ciò che stanno continuando a vedere e a sentire.
A sentire…
Gemiti, ansiti soffocati, il cigolio ritmico della rete metallica del letto.
Neal è impietrito, sembra quasi incapace di respirare.
Hughes balza in piedi, si porta una mano al petto e lancia un grido acuto di dolore, subito prima di accasciarsi sulla sedia; è cianotico, il respiro gli muore in gola.
“Peter…Peter…” mormora, prima di chiudere gli occhi “Mio Dio, cos’hai fatto…”
 

  
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