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Autore: Glenda    19/07/2012    1 recensioni
Questa è una storia scritta molto tempo fa, e l'affetto che ho per questo sito fa si che voglia condividerla con tutti voi. Nella Firenze degli anni novanta, Mattia, studente fuori sede, affronta il primo anno all'università di lettere. E' solo in una città che non conosce, impacciato, timoroso, ma soprattutto confuso su se stesso e sulla sua capacità di vivere la propria giovinezza pienamente, di saper veramente gioire, soffrire, buttarsi nella vita, amare. Gli serviranno incontri importanti per iniziare a capire, incontri con amici speciali: amici "della razza che non rimane a terra". Storia d'adolescenza, di formazione, d'amore e amicizia che tenta di rispondere ad un vecchio quesito: ma la vita, davvero, come diceva Pirandello, "o si vive o si scrive"?
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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IV

 

Di che cosa soffri?

Dell’irreale intatto dentro il reale devastato

 

(R. Char)

 

 

"Mi sento bene anch'io quando il sole mi scalda le mani, sono anch'io luminoso e solare come Firenze" pensavo una mattina di fine aprile, correndo per piazza Santissima Annunziata, appena uscito dall'università. Era un lunedì, ed avevo appena sostenuto il pre-colloquio di letteratura latina: il mio primo esame, il mio esame numero uno!...Non sapevo se mi stessero cambiando l'abitudine e l'esperienza, o se c'entrasse il fatto che con Filippo non litigavo quasi più, o solo se fosse la bella stagione a portare giovamento alla mia salute, ma d'improvviso non avevo più tanta paura, sentivo forte il caldo sulla faccia, non prendevo più la valeriana per dormire, e la tachicardia l'avevo riavvertita solo quel mattino, e non, come avevo immaginato, sedendomi davanti alla scrivania del professore, ma quando lui aveva scritto un trenta a chiare lettere sul suo verbale personale.

"Forse ce la posso fare, forse ce la posso fare. Anche io."

Me lo ripetevo quasi a fior di labbra, senza vergognarmi che la gente potesse sentire...e poi non c'era tanta gente...era vuota, la piazza, vuota e luminosissima.

Era il culmine di un periodo sereno, la risalita lenta e continua degli ultimi mesi, e mi sentivo parte del mondo, in quel mattino di primavera.

 

Tutto era cominciato poco dopo la malattia.

Ricordo ancora i gesti caotici delle mani di Filippo. Gesticolava spesso quando doveva esporre un progetto che lo entusiasmava.

- Creiamo il "Cambio Rotta letterario"! - aveva esclamato stringendomi insieme tutte e due le mani - Non è un'idea fantastica, eh Mattia? -

- Se mi spieghi di che si tratta - risposi, freddino - magari ti rispondo -

- Uff! Quanto sei scettico! - mi rimproverò - Peccato, perché sarò costretto a coinvolgerti con la forza...Il progetto si basa praticamente su Rino e te! -

Tirava un po' di vento, eravamo per strada.

- Anzi - disse - dovresti proprio venire a casa mia, oggi pomeriggio: chiamerò anche lui e così ne parliamo -

- Veramente, avrei lezione... -

E invece, come al solito, alle quattro e trenta ero regolarmente lì, sotto la sua porta, e quasi non osavo suonare, anche se ero, almeno quella volta, molto curioso.

Non avevo ancora avuto l'opportunità di vedere la casa di Filippo dall'interno, e mi era sempre piaciuto poter pensare le persone inserite nel loro ambiente, ma fino ad allora mi ero ben guardato dall'introdurmi o dal lasciarmi introdurre in quella dimensione estranea che di solito sbirciavo solo la sera, dalla finestra.

Invece, da quando ero guarito, all'improvviso era successo qualcosa: avevo voglia di correre, di accelerare i tempi, quasi che volessi recuperare i giorni perduti, o farmi perdonare da qualcuno i momenti di crisi, le esitazioni dell'inverno. Fu per questo che accettai subito quella grossa responsabilità: grossa lo stesso, anche se la dividevo con Rino.

L'idea di Filippo consisteva nel pubblicare un fascicoletto di poche pagine da distribuire assieme alla rivista, e la cui direzione sarebbe spettata a Rino e me. Rino vi avrebbe pubblicato i suoi racconti, io avrei recensito nuovi libri, scritto articoli sui classici della letteratura e via dicendo.

Filippo ci lasciava una grande libertà di iniziativa, salvo riservarsi una finale "revisione" sul nostro operato, per controllare che non ci lasciassimo andare a troppe "romanticherie da poeti".

- Purché non mi venga chiesto di fare letteratura impegnata! - mise le mani avanti Rino, che, nonostante lavorasse su riviste da anni, si era mostrato molto più esitante di me.

- Non ti credo capace di tanto - rispose Filippo, a tono.

Fu un pomeriggio piacevole: rimanemmo a chiacchierare fino a tardi, ma la casa non ebbi quasi modo di guardarla, dato che non ci muovemmo mai da quel salottino, se non per il breve tratto d'ingresso che da esso portava all'uscita. Probabilmente Filippo non era il tipo da portare gli ospiti in giro panoramico per le stanze, o forse non immaginava - non ricordava - di non avermi mai invitato lì. Il divano su cui ero seduto, però, era diverso dalle poltroncine dell'ufficio di redazione, e sapeva di triste. Sui braccioli la pelle era tutta consumata, ci strofinai due o tre volte la mano e me la trovai piena di briciole appiccicose. Pensai che Filippo magari ci aveva passato pomeriggi di studio, come facevo io, al liceo, su quello del salotto, quando avevo preso la fissazione di avere problemi di cervicale, e studiavo sdraiato, coi piedi sollevati appoggiati sul bracciolo, e il libro sospeso a mezz'aria finché non mi dolevano le braccia. Anche lì, quel giorno come allora, stavo scomodo: non trovavo mai la posizione, ricordai i rumori del corridoio di casa, la mamma che ciabattava per le stanze, io che mi giravo continuamente, appoggiando il capo ora da una parte ora dall'altra, le braccia sospese sempre più stanche, le occhiate continue all'orologio, il grande orologio da muro che pendeva dritto davanti a me, incoraggiante. Ne avevo anche uno al polso, ma l'altro lo amavo molto di più: aveva i numeroni fosforescenti, grossi numeri brillanti e lancette enormi che si inseguivano sul quadrante: sembrava che il tempo passasse prima, là dentro.

Trovai dell'aria di casa, delle atmosfere complici, lì. Qualcosa avvicinava quel posto a me: forse il divano, la televisione vecchio modello, il pianoforte vicino alla parete.

- Sai suonare? - provai a chiedere a Filippo.

- No - mi rispose - La casa l'hanno arredata i miei. Rino suona, ma si rifiuta di farmi sentire.-

- Non è vero - si ribellò lui, arrossendo e battendo i piedi come un bambino - Io non suono. Strimpello! -

Anche io sapevo suonare, ma Filippo lo scoprì più tardi, per caso, e da allora non sfuggii più ad un'esibizione tutte le volte - e furono, dopo quel pomeriggio, molto frequenti - che misi piede in casa sua. Io mi facevo sempre un po' pregare, ma in realtà ero contento che mi si chiedesse, quasi si trattasse d'un favore, di non rinunciare ad un'abitudine cara di cui pensavo che, una volta trasferito a Firenze, avrei dovuto per forza fare a meno.

A Filippo piaceva moltissimo l'adagio in sol minore di Albinoni, e me lo faceva suonare continuamente. Mi stupiva che potesse amare così quel motivo tanto triste - più triste del suo divano sdrucito e delle poesie di Rino - ma lui diceva sempre che ogni tanto le note davano un guizzo, come un rigurgito vitale, con un senso di ribellione dell'animo che infondeva piacere.

- "Piacer figlio d'affanno?" - lo stuzzicavo.

- No - rispondeva - e non cercare di spiegare anche la musica con la letteratura, se non sei capace -

Ma io non volevo razionalizzare: volevo solo capire dove stava di casa quel piacere che non sentivo, e come potesse abitare - e convivervi - in mezzo a tutta quella disperazione...

- Mah - bisbigliavo, frastornato, scrollando le spalle - se lo dici tu, sarà vero... -

 

Cominciammo a lavorare con un entusiasmo che non avrei mai sospettato di scoprire né in Rino né in me. Ci vedevamo spesso anche da soli, trascurando i nostri rispettivi impegni per pomeriggi interi.

Quando avvertimmo le prime avvisaglie della primavera, e si usciva coi golfini di cotone, prendemmo l'abitudine di salire verso Fiesole facendo lunghe chiacchierate. Ricordo un giorno che mi portò in un "luogo ameno" - come diceva lui - quasi sulla cima di monte Ceceri, e che per arrivarci dovemmo scarpinare per mezz'ora su una salita ripidissima. Quando giungemmo in cima ero esausto, e mi sembrò che quella vista, per quanto piacevole, non valesse una tale fatica.

Rino sedette sull'erba, estasiato, rosso sulle guance (diventavano sempre rosse, le sue guance, quando faceva qualche sforzo).

- Beh, e allora? - domandai, sdraiandomi, braccia e gambe allargate, in mezzo al prato umidiccio

- Nulla - rispose lui - Non ti sembra che qui si è più vicini a Dio? -

- mm... - sussurrai - non saprei... -

Una nuvola gonfia oscurò il sole: ero sudato, e sentii freddo. C'era uno splendido silenzio.

- ...E tu pensi... - ripresi - che Dio ci veda meglio qui che laggiù? -

Avevo voglia di essere ingenuo: era lui a farmi sentire così. Mi sembrava di essere un bambino, e Rino un bambino come me, ma più furbo.

- No - rispose - Non penso niente, io...Solo che credo di avere una religiosità profonda, e l'ammirazione è religiosità, no?... -

- Io... - chiusi gli occhi, e mi rilassai - Io non ne sono sicuro. Penso che la fede non si possa andare a cercare. Né in cima ad una montagna né in chiesa. Se la senti vuol dire che ci credi...Un po' come...l'amore... -

- E' vero - ammise - i sentimenti si sentono -

Io mi ero alzato a sedere col busto eretto, come lui, e Rino mi fece cenno di dargli la mano. Si divertiva a mettere alla prova il mio pessimo rapporto con la fisicità

- E così cosa senti? - chiese

- Che hai la mano calda - scherzai, con tono scontato

- Bravo - confermò lui, che, a differenza di Filippo, non insisteva mai - e la tua è gelida. Vestiti più pesante! -

- Non ne avrei bisogno se non conoscessi certa gente che per farsi venire l'ispirazione deve portarmi con sé "in alta montagna" -

Rino rise: per quel giorno parlammo poco o niente del "Cambio Rotta letterario".

 

La prima uscita riscosse molto successo, arrivarono diverse lettere in redazione, e mi accorsi che gli altri membri del gruppo cominciavano a nutrire per me se non stima, senz'altro simpatia. Rino ed io, poi, lavoravamo in un'intesa straordinaria. I momenti di tristezza non erano scomparsi del tutto, ma spesso ne parlavo come di un fatto normale, una piega del mio carattere che non si poteva raddrizzare, ma poteva, di tanto in tanto, essere ignorata; e così finii col conferire a quella malinconia un alone di leggerezza che non mi sembrava stonasse con slanci di spensierata allegria.

Quei giorni di vitalità ebbero i loro luoghi e i loro profumi, ed anche una musica, il canone in re maggiore di Pachelbel, che fischiettavo per la strada la mattina, sulla fermata del 17, o ascoltavo nelle cuffie, mentre attraversavo piazza SS. Annunziata: s'adattavano, musica e piazza, si fondevano in un'atmosfera che sembrava quella di un film con la propria colonna sonora. Mi sentivo al centro di una rinascita come al centro di quella piazza ariosa: lì si respirava aria pura, aria non viziata che circolava da tutte le parti, e mi sembrava di poter vedere tanto spazio intorno, anche al di là di quelle logge maestose, dietro le gradinate su cui stava sempre seduta tanta, tanta gente.

Proprio così, tremante di tensione e frenesia, con le gambe ancora un po' impacciate, ma vogliose di sgranchirsi correndo, mi trovavo lì quella mattina, ad attraversare la piazza in fretta e furia, quasi spinto da quella musica complice nelle orecchie, sentendomi dinamico e scattante, in mezzo a tanta luce.

Questo ricordo di quei giorni in modo epidermico: luce e vento, vento e luce sulla faccia e tra i capelli, un venticello di primavera che certamente non dava fastidio, perché io mi toglievo sempre la giacca, e la lanciavo, ridendo, per aria.

 

- Complimenti Mattia! - m'accolse Filippo sulla porta di casa quella stessa sera - Spero che adesso ti prenderai un po' di riposo! -.

Mi aveva invitato per "propormi un affare" - o almeno così diceva il bigliettino che aveva attaccato sulla mia cassetta delle lettere quel pomeriggio - "che faceva proprio per me": eppure aveva tutta l'aria di chi sta per lanciare un'idea che gli sembra molto bella, ma che è quasi sicuro di sentirsi ridere in faccia.

- Di' un po' - esordì - non avresti voglia di fare un bel viaggetto? -

Non lo presi sul serio e sbadigliai

- Tutto ciò che vorrei ora è una sola cosa - risposi - dormire per una settimana di fila -

- Beh - riprese lui - vorrà dire che dormirai a Torino, tanto con D'orsi si lavora poco! -.

Subito lo guardai di sotto in su con diffidenza, e cercai di capire se il nome che aveva appena pronunciato poteva appartenere a qualcuna delle nostre conoscenze comuni, ma non mi sembrò.

- Chi è D'orsi? - .

- Come...non te ne ho mai parlato? -

- Mai -.

Alberto D'orsi era un affermato giornalista torinese, amico di Filippo da almeno quattro anni: lui stesso aveva cominciato a fare pratica proprio scrivendo sulla sua rivista, un organo - mi spiegò - molto più vasto e articolato del nostro "Cambio Rotta".

- Io - disse - vado spesso a Torino per collaborare ad alcuni numeri, e anche lui è capitato diverse volte qui a Firenze. Si è sempre interessato molto del mio lavoro, e quando ha ricevuto il numero del "Cambio Rotta letterario" si è mostrato molto desideroso di parlarne di persona. Non possiamo rifiutare: è grazie a queste sue preziose attenzioni che la nostra rivista ha abbonati anche là -

- E allora vai - lo esortai, cercando di liberarmi di quella responsabilità sgradita - Vorrà vedere te -

- Veramente - insistette - Alberto aveva chiesto esplicitamente del responsabile. Ed io non mi allontano da Firenze nei giorni dell'uscita del nuovo numero. Lo sai. -

- Beh, manda Rino -

- Rino? E tu pensi che si assenterebbe dal "suo nido" tanti giorni? -

Non era molto carino nel giudicare il suo amico, e glielo feci notare: ritenevo infatti, in tutta sincerità, che Rino valesse molto più di me. Mi venne in mente più tardi che forse Filippo l'aveva chiesto prima a lui, e non me lo aveva detto solo per farmi sentire importante.

Tuttavia faceva lo stesso: comunque stessero le cose io, senza il mio "fido compare" sarei stato un vero disastro.

- No, Filippo - rifiutai - Non me la sento proprio. Non conosco la città, non ho senso dell'orientamento, mi perderei già dentro la stazione. E oltretutto sono davvero molto stanco... -

In realtà mi vergognavo a morte, mi vergognavo al solo pensiero, e, chiaramente, Filippo lo capì subito

- Bugiardo - mi freddò - questa non è stanchezza: è timidezza, timidezza della peggior specie -

Arrossii, e dovetti ammettere, rassegnato

- Stai tranquillo - disse allora lui, battendomi ripetutamente la mano sulla spalla - ti garantisco che questa sarà una cura eccezionale...una "terapia d'urto": Alberto è proprio la persona che fa per te! - e scoppiò in una larga risata, rovesciando la testa sullo schienale del divano.

In sostanza: tanto disse e tanto fece che, prima con titubanza, quasi costretto, poi con la progressiva certezza che quel viaggio fosse davvero un bene per me, mi apprestai a partire per Torino, e anzi, a forza di immaginare possibili disavventure, figuracce, smarrimenti per la città epersino disastri ferroviari, cominciai ad entusiasmarmi all'idea di quella ventata di novità che, nel bene o nel male, avrebbe dato una scrollata alla mia vita, e ad essere curioso di verificare di persona come le cose sarebbero andate realmente.

Iniziai innanzi tutto a preoccuparmi della mia presentabilità: non sapevo, ad esempio, come vestirmi, problema non insignificante, dati i vantaggi che una buona impressione porta con sé...Che tipo poteva essere l'amico di Filippo? Ovvio che non osassi chiederlo a lui: sarebbe stato come andare incontro a sfoggi di sarcasmo più che certi; per cui mi affidavo ad uno sforzo immaginativo, che, purtroppo, mi proponeva davanti invariabilmente niente più che una copia ingigantita del mio giovane direttore: distinto, elegante, di gran classe, glaciale ai primi approcci, brillante nella conversazione, e, ohimè, con qualche chilo di superbia di troppo. A sentir Filippo era "un vero, un grande intellettuale", appellativo che non gli avevo mai sentito usare neanche a proprio riguardo, il che era come dire che lo considerava superiore a sé, e questo lo faceva già apparire ai miei occhi un mostro di cultura, figuriamoci quanto severo nel valutare tutto ciò che gli circolava intorno...! Vestirsi, dunque, ci si doveva vestir bene. Me lo consigliò anche Camilla, che fu l'unica a darsi pensiero insieme a me della faccenda.

Recuperai dal fondo dell'armadio la mia unica giacca, che con quei grossi quadrettoni scozzesi aveva piuttosto l'aria di una vecchia tovaglia: l'avevo portata da casa per sfizio, convinto che, dopo l'occasione mondana per cui era stata acquistata, non ne avrei mai più fatto uso. La trovavo orrenda, ma a Camilla piaceva molto, e, come sempre, i suoi pareri in materia estetica, avevano la rara dote d'incoraggiarmi.

Lei sembrava un po' dispiaciuta della mia partenza, anche se le avevo garantito che avrei costretto Filippo ad andarla a prendere all'uscita del dancing tutte le sere. - Con quel presuntuoso - aveva rifiutato - non ci farei neppure due metri di strada. E poi non ha la bicicletta -.

Anche io ero convinto che avrei dormito sonni meno sereni, lontano da casa: ma mi illusi che quella fobia avrebbe potuto fare parte della tante altre per cui, nell'opinione di Filippo, questo viaggio prometteva sicuri benefici.

Vuotai e riempii la valigia infinite volte, indeciso su ciò che dovevo portare, e sospettoso, ogni volta, di aver dimenticato qualcosa di indispensabile per cui valesse la pena smontare tutto, pur di accertarmi d'averla con me. Quando finalmente fui in stazione, l'ultimo pensiero fu l'aver lasciato il biglietto sul tavolo del salotto, ma Filippo, che mi aveva accompagnato fin lì, me lo sventolò sotto il naso, dopo averlo estratto dalla tasca anteriore della mia valigia. - Non scordarti di vidimarlo - mi raccomandò, ed io, se non avessi compreso il senso generale del discorso, avrei forse dovuto domandargli il significato di quella parola strana, ma sicuramente comune quanto "biglietto" e "scordare" nella cerchia dei suoi amici "intellettuali". "...In che bella impresa mi vado a imbarcare!" pensai "...E dire che la colpa è tutta d'un periodo di entusiasmo!".

Salii sul vagone quasi in corsa perché indugiai a lungo sulla banchina per farmi dare da Filippo le ultime - ripetute fino alla noia - direttive. Trovai posto a sedere vicino al finestrino, sistemai la valigia e la giacca, e, mentre il treno cominciava a muoversi, sentii un brivido d'eccitazione scorrermi lungo la schiena. La stazione di Firenze all'alba, mentre s'allontanava succhiata via in fondo al binario, mi parve particolarmente bella, con tutto il suo va e vieni senza orario, e la sua gente che non conosce riposo: c'era chi andava, chi veniva, chi correva, in ritardo, al suo treno, o chi si affannava come me a far entrare il biglietto nelle apposite macchinette "obliteratrici", e c'erano i turisti stranieri, rigorosamente in pantaloni corti e scarpe da trekking, coi calzini arrotolati alle caviglie e gambe bianche e grossotte...Arrivavano ora per visitare la città, o partivano, malinconici, alla fine della vacanza? Forse, se fossi stato più vicino, su alcune delle loro facce avrei potuto vedere lo stesso rossore d’attesa che mi stava bruciando le guance.

Anche io partivo per una vacanza: vacanza dalla mia vita comune, da una routine che fino ad allora non avevo avuto modo, neanche un giorno, d'interrompere.

Amai quella stazione e quella gente, le macchinette vidimatrici, il mio treno, Firenze, chi viene e chi va. Ero davvero emozionato.

 

Durante il viaggio provai a immaginare il mio incontro con il signor D'orsi a Torino: mi avrebbe aspettato al binario, indossando un impermeabile blu e tenendo un giornale sottobraccio, in modo che io non avessi difficoltà a identificarlo. A quel pensiero ebbi un sussulto: avevo dimenticato di portare con me una copia del "Cambio Rotta", il mio segno di riconoscimento!...Ero veramente uno sbadato: ora avrei dovuto trovarlo io, e Filippo del suo aspetto fisico mi aveva detto ben poco; anzi, le sole "informazioni" che possedevo erano "uomo sulla quarantina, alto, con gli occhiali"...Si cominciava bene!

Cercai di non agitarmi: il viaggio era lungo, e cinque ore di tachicardia erano davvero faticose da sopportare. Il tentativo riuscì, se si escludono le quattro o cinque volte che dovetti ripetermi a fior di labbra la frase autoicoraggiante "non c'è di che preoccuparsi", compresa tra esse quella appena sceso dal treno, quando constatai con smarrimento che, lungo il binario, di uomini in blu col giornale non ve ne era nemmeno l'ombra.

Mi guardai meglio in giro: la stazione era affollatissima, era mezzogiorno, e per spostarsi bisognava quasi aprirsi la strada a spintoni. Cominciai ad ispezionare tutta la zona vagabondando a destra e a manca, con il peso del mio borsone trascinato con malagrazia su una spalla, alla disperata ricerca di un impermeabile blu: vidi moltissime persone alte e con gli occhiali, ma assolutamente nessun giornale. Avrei potuto attaccarmi sulla giacca un cartello con su scritto "Mattia Loira: Cambio rotta", ma scartai subito l'idea al pensiero degli sguardi curiosi di tanti sconosciuti puntati su di me, ivi compreso quello del signor D'orsi, sempre che si trovasse realmente - eventualità di cui cominciavo a dubitare - in mezzo a quella folla.

Scoraggiato dal contrattempo, girovagai ancora un po' senza meta, finchè mi trovai di fronte all'uscita principale, e decisi di mettere il naso fuori e sbirciare la città. Un traffico caotico costipava la via, in mezzo alla quale, come un isoletta affollata di gente in partenza, si ritagliava il suo spazio la pensilina dell'autobus, che raggiunsi in pochi passi, per poter ammirare da di fronte la bella facciata della stazione Porta Nuova.

Era freddo, ma c'era un gran bel sole: "Pensa un po': sono a Torino...una metropoli!"

Mi sentii di nuovo coraggioso e intraprendente. Una soluzione si sarebbe trovata, potevo sempre chiamare Filippo e farmi dare l'indirizzo, prendere un taxi, o magari "sperimentare" il tram, quell'autobus parente dei treni, con rotaie e fili, dal sapore antico, che a Firenze non esisteva più. Mi accorsi anche di avere fame, e comprai un panino che mangiai per strada, sotto il sole, seduto sul bordo di un'aiuola.

Rientrai in stazione che erano passate le una: il via vai s'era attenuato, pochi i treni fermi, e decisamente meno gente. Notai che lungo il "mio" binario passeggiava su e giù un uomo che rispondeva alla perfezione ai requisiti fisici della persona che cercavo, pur se non era affatto vestito come Filippo aveva detto.

Non osando farmi avanti presi a fissarlo; non pareva proprio un quarantenne: avrei stentato a dargli più di trent'anni, almeno a guardarlo da quella distanza; aveva un volto accattivante e disteso, grossi occhiali di tartaruga, e la fronte più geometrica che avessi mai visto, addolcita a fatica da capelli scuri pennellati di grigio, spartiti altrettanto geometricamente nel mezzo e pettinati all'indietro dalla leggera arietta di quel mattino. In complesso - pensai - nulla aveva a che vedere con la persona che avevo immaginato, fosse stato anche solo per il giubbotto sportivo che in quel mentre si era sfilato ed aveva velocemente legato alla vita...Aveva forse caldo? - mi chiesi...e pensare che io, un po' per il diverso clima, un po' per il disagio, sentivo già le punte delle dita tutte gelate!

Mi chinai per cercare in fondo alla borsa un paio di guanti, e, quando rialzai gli occhi, mi accorsi che anche lo sconosciuto mi stava guardando.

- Scusi! - domandò, trattenendo un sorriso - ma lei si chiama per caso Loira? -

Scattai in piedi, e sospirai di sollievo - Si - risposi - E lei è il signor D'orsi, suppongo -

- Proprio... - mi guardò - ...ma dove l' ha messo il giornale? -

Sorrisi, con un cenno di rassegnazione -

- E lei, l'impermeabile? -

Ci venne da ridere, e ci stringemmo la mano sempre ridendo, così - pensai - non diede peso alla mia stretta debole e non avrebbe potuto dirmi né che ero un timido, né che avevo scarsa personalità.

- Posso offrirle qualcosa? - propose mentre ci avviavamo alla sua macchina - un caffè? -

- No, meglio di no. Sono tachicardico -

- Allora una birra, un the, una cioccolata, una fetta di torta... -

Rifiutai di nuovo, per una distorta forma di cortesia.

- Insomma - si impuntò lui, afferrando la mia valigia e caricandola sul sedile di dietro - si faccia offrire qualcosa, qualunque cosa: glielo impongo! -

Alterò teatralmente la voce e mi fece sorridere

- Su, c'è un ottimo bar qui vicino. Ci arriviamo in due passi -

Attraversammo la strada sulle strisce pedonali, e per poco una macchina che correva per la città almeno agli ottanta all'ora non mi mise sotto.

- Accidenti! - esclamai - E’ impazzito? -

D'orsi sollevò le sopracciglia e arricciò la fronte: - Che vuol farci? - disse - Benvenuto a Torino! -

 

Seduti ad un tavolino davanti ad un the, quello strano personaggio chiacchierone parlò per almeno mezz' ora a velocità sostenutissima per spiegarmi perché non aveva indossato l'impermeabile "stabilito": sembrava che gli avessero dato solo quel pomeriggio per parlare, dopo averlo tenuto imbavagliato per giorni e giorni. Prima di arrivare a dirmi di aver macchiato l'impermeabile di caffè al bar, di essere dovuto tornare a casa a cambiarsi, di aver fatto tardi per il traffico e perciò di non aver trovato il tempo di comprare il giornale, mi fece in dettaglio la cronaca della propria mattinata-tipo: quando si era alzato, cosa aveva mangiato a colazione, quante parole aveva detto alla moglie, quanti scalini aveva sceso, e parla parla parla...si dimenticò anche di chiedere a me come mai non avevo in mano una copia del "Cambio Rotta".

Tanto meglio: evitai di far la figura dello sbadato.

Ma in fondo, di fronte a quell'uomo così diverso da come me lo ero figurato e da tutte le persone che avessi mai conosciuto, valevano ancora qualcosa le mie strategie comportamentali? Alberto era un capolavoro di spigliatezza e spontaneità, rideva volentieri e non per compiacenza, e si sforzava di far ridere anche me; conversare con lui, o anche solo starlo ad ascoltare era un piacere che non ricordavo di aver provato in nessun genere di relazione sociale. Al bar, in macchina, per tutta la durata del tragitto che ci condusse fino a casa sua non lasciò un secondo al silenzio: mi ricoprì di domande, dissertò un po' di tutto, del tempo, di politica, di arte e di letteratura; elogiò la bellezza di Firenze, il vernacolo e lo spirito sempre pronto dei toscani, raccontò persino barzellette e cantò canzoncine in dialetto piemontese, delle quali adduceva, volta per volta, la traduzione.

Io mi sentivo sbilanciato da tanta confidenza, non riuscivo quasi a partecipare alla conversazione, e lasciavo ben volentieri che tenesse banco lui: tuttavia fui felice che l'amico di Filippo fosse così tanto bizzarro e così poco "intellettuale" da far saltare in aria tutte le mie categorie preconcette.

 

La casa era un po' fuori città, in una viuzza linda, costeggiata da villette dall'aspetto elegante. Alberto mi portò la valigia su per i gradini dell'ingresso, e la lasciò in un angolo, vicino all'attaccapanni. Io rimasi immobile sulla soglia a guardarmi attorno, finché lui non chiuse la porta e m'invitò ad accomodarmi in salotto. Tutto era luminoso, anche gli oggetti: sembrava una stanza fatta di vetro, tanti erano i ninnoli che ricoprivano i mobili e riflettevano sulle pareti i raggi del sole che entravano dalla finestra

- sono la passione di mia moglie! - spiegò lui, vedendomi smarrito - E' bene se li goda ora, perché non oso pensare alla fine che faranno quando la bambina comincerà a camminare! - e cercò ancora di coinvolgermi a sorridere del suo commento.

Io rimanevo fermo in piedi: mi pareva di essere stato sbalzato in un’altra dimensione: era tutto diverso da Firenze, tutto diverso da come avevo immaginato. Alberto venne alle mie spalle e quasi mi spinse a sedere su una poltrona

- La vedo teso, Loira - rise, benevolo - si rilassi, si rilassi! Se la sta cavando benissimo! -

Arrossii, abbassando gli occhi

- Lei è proprio molto giovane. Quanti anni ha? -

- Quasi ventuno -

- To', ma guarda. Scizio che finalmente si sceglie un collaboratore più giovane di lui! Scommetto che "gioca al maestro" con lei, eh? -

Scherzò; poi cambiò tono

- Loira, mi è piaciuto ciò che ha scritto, davvero. Ha messo molto in gioco sé stesso nelle sue considerazioni, senza tuttavia perdere il distacco critico: e questo è più apprezzabile di quanto creda -

Era seduto davanti a me, la schiena un po' curva, le braccia poggiate sulle ginocchia. Aveva uno sguardo particolarmente dolce, ma non paterno: sembrava parlarmi da pari a pari, e mi fece sentire sopravvalutato.

Mi diede una serie di consigli per l'impostazione del lavoro, citò alcuni passi dall'articolo con cui avevo aperto il "Cambio Rotta letterario", ed elogiò il mio saggetto sulla poesia del Novecento. Non rideva più, ora: aveva una voce diversa, profonda e pacata, ma che ugualmente conservava la sua distintiva nota di affabilità e leggerezza. Finalmente non mi fu più difficile sostenere l'attenzione dei suoi occhi azzurrissimi puntati nei miei, e mi venne da pensare che dovevo avere di fronte un uomo veramente straordinario, se era riuscito in così poco tempo a smontare un'atmosfera e costruirne una del tutto nuova in cui mi sentivo perfettamente a mio agio. Credo d'essere stato in grado anche di "esprimermi bene", di dire ciò che avevo da dire senza schermi di formalità.

Poi lui sollevò il busto e si appoggiò allo schienale, sempre tenendo quello sguardo incoraggiante su di me: - "Maturità di foglie arco di lago" - citò - "altro evo mi spieghi lucente. / In una strada senza vento inoltri / la giovinezza che non trova scampo" -

Pronunciati così all'improvviso dalla sua voce intensa, quei versi sembravano quasi una battuta di dialogo, un giudizio sintetico sui miei scritti, o anche solo un commento al mio modo spaurito di presentarli...

- Il mio poeta preferito... - sussurrai, estasiato.

- Davvero? - fece lui - Sa che ci avrei scommesso? -

Poi rimanemmo un istante zitti, un istante solo, quasi per rispetto alla "sacralità" che per entrambi spettava alla poesia: non avevo mai "ascoltato" il silenzio come allora, ovvero, non mi era mai capitato di sopportare una pausa di silenzio senza provare disagio; ma sentivo chiaramente che per Alberto aveva un valore: era un'interruzione, uno stacco che lui si concedeva in mezzo al tanto parlare, forse per una sorta di tributo alle cose veramente belle.

"Ecco" pensai "Così vorrei essere. Se dovessi, se potessi rigirare come un calzino la mia vita, scarabocchiare sul mio carattere, essere nuovo, cominciare dal principio, io vorrei essere come lui...".

Aveva ragione Filippo: la frequentazione di quell'uomo, per me, sarebbe stata una cura: in poche ore già aveva conquistato la mia stima.

- Bene Loira - disse ad un tratto, alzandosi - Lei mi piace. Sono sicuro che lavoreremo benissimo, insieme -.

 

Fui ospite della famiglia D'orsi tutta la settimana: non vollero assolutamente che cercassi un albergo, nonostante le spese non fossero a mio carico personale. Filippo doveva aver previsto anche questo, perciò si era rifiutato di farmi prenotare una camera in anticipo.

La signora D'orsi mi trattò con affetto quasi materno: era una donna bellissima, di grande eleganza e di modi raffinati, ma quel suo accento straniero le dava un non so che di sbarazzino che toglieva ogni sospetto di affettazione alle troppe espressioni di cortesia che uscivano dalla sua bocca. Era molto più giovane di Alberto: lui l'aveva conosciuta in Francia, durante un lungo periodo trascorso lì per ragioni di studio, e si erano sposati quasi subito.

Erano una coppia vivace, che amava la vita di società: la loro casa era piena di gente tutte le sere, c'era sempre qualcuno invitato a cena, si trattasse di membri della redazione, di vicini, di conoscenti illustri, o, più di rado, di parenti. Mi trovai seduto allo stesso tavolo con professori universitari, studiosi, consiglieri comunali e giornalisti televisivi, ed alcuni - loro si! - erano davvero "intellettualoidi" come e peggio di Filippo, cosicché dovetti imparare a fare largo uso dell'espressione "non ho le competenze necessarie per esprimere un parere", per evitare probabili pessime figure. Tuttavia, con certi colleghi del signor D'orsi riuscii ad intavolare anche qualche piacevole conversazione e a riuscire - nonostante i miei timori - persino simpatico.

Mi piacevano quella casa aperta a tutti, la cortesia di Alberto e consorte - la stessa con cui trattavano me - lo spazio sempre lasciato, in mezzo a tante grosse parole, al sorriso, allo scherzo, al pettegolezzo banale. Ricordo che una sera - l'ultima o la penultima che mi trattenni a Torino - ebbi l'occasione di partecipare persino ad una festa (ne facevano spesso, a turno, a casa dei loro numerosi amici) organizzata alla buona in salotto. Giocammo a carte, cantammo e ballammo fino a tarda notte: o meglio, ad onor del vero Alberto suonò e cantò, ed Elodì ballò tutta la sera con ciascuno degli amici del marito, rischiando più volte, nell'euforia della danza, di urtare qualche mobile e mandare in frantumi un buon quantitativo dei suoi preziosi ninnoli. L'avrei con facilità paragonata ad uno di essi, quella sera: tutta scintillante in un abito di seta, tutta ingioiellata, fragile come una bambolina di vetro, con quella testa piccola e bionda che lei voltava ad ogni ballo verso Alberto, in richiesta di approvazione, con tanta grazia. Sembrava una ballerina vera - non fosse stato che conosceva due o tre balli a stento - e usava sempre un profumo dal sapore dolce, che quella sera si diffondeva in tutta la stanza e dava quasi alla testa. Mi chiese persino di farle almeno una volta da cavaliere, ma Alberto mi salvò con un intervento provvidenziale: - Facciamo un pezzo classico! - propose - Il signor Loira sa suonare il pianoforte -.

Voleva che accompagnassi il suo violino: tra le mille attività dell'illustre D'orsi, infatti, si potevano contare anche diversi anni di conservatorio. Accettai per ripiego, evitando le penose scuse per "rifiutarmi" a Elodì, ma certo non mi espressi al meglio delle mie possibilità. Ero troppo scombussolato, e, per tutta quella sera, sarebbe stato impossibile prestare attenzione ad altro che all'accozzaglia caotica delle mie emozioni: la festosità del salotto affollato, la tristezza della partenza, e insieme l'ansia, la fretta di essere a Firenze per raccontare, Elodì col suo profumo inebriante, e Alberto che suonava divinamente, con la testa inclinata su un lato, la sua distesa, geometrica fronte, e quelle mani così mobili e vitali...

D'un tratto, chissà perché, pensai a quella bimba di nemmeno un anno, che dormiva già da qualche ora nella camera da letto al piano di sopra, a quando sarebbe stata grandicella, avrebbe camminato e rotto tutti quei bei ninnoli, e poi, più tardi, da ragazzina, avrebbe organizzato le sue feste in quel salotto, senza Alberto, senza i suoi colleghi, senza di noi, magari con tante compagne di classe goffe e stonate, che come me non sapevano ballare, ma che ugualmente lo avrebbero fatto, senza pudore. Per un istante mi parve di vederlo: si, sarebbe andata così...ed io avrei voluto essere lì allora, bambino anch'io, senza nulla da dimostrare...Libero come Elodì che balla tra i suoi soprammobili...

 

Tra le tante attività che in quei sette giorni non mi lasciarono un minuto di respiro, ciò che ricordo con meno piacere furono proprio le sedute della redazione a cui partecipai, e la stesura di quell'articolo che Alberto - tanto pignolo sul lavoro quanto indulgente al di fuori di esso - mi fece correggere almeno cinque volte. Alla fine, però, trovai il mio nome in fondo alle colonne di una rivista importante, che sarebbe passata tra le mani degli abitanti di quella affascinante città.

Presi molti appunti, durante le riunioni, contagiato dalla fissazione del direttore per l' "organizzazione mentale del lavoro" - sic! - e costretto dalle disposizioni rigorose di Filippo (che in questo caso specifico aveva giocato a fare il maestro, era vero) in proposito. I membri dello staff erano almeno tre volte quelli del nostro: sembrava la redazione di un quotidiano, non di una rivista di varia cultura. "Cosa diceva il signor direttore?" annotai per scherzo in calce a uno dei miei fogli "Che a Torino non si lavora?".

Stavo vivendo veramente un'avventura "fuori dalla realtà": ne ebbero colpa e merito quei grandi locali in cui aveva sede l'equipe, quell'andirivieni produttivo e organizzato, Alberto e il "suo mondo" e anche Torino, che era una città d'atmosfere tutte diverse da quelle fiorentine, o almeno così era nell'impressione che di riflesso ne ricevevo. Grande che avrei potuto perdermi anche conoscendola da anni, crepuscolare, meditabonda, estranea del tutto all'ampia luminosità di Firenze, ma pervasa fin negli angoli delle strade da quell'atmosfera di fine ottocento, o tutt’al più inizio del secolo successivo, forse conferitagli dalla scacchiera dei fili dei tram sopra le teste, dai chilometri di portici che il re si era fatto costruire per le sue passeggiate invernali, o solo dalla mia visione troppo letteraria anche dei posti, che mi pareva di aver fatto un viaggio nel tempo, oltre che nello spazio (e pensare che a Firenze, di antichità ce n'erano da santificare e benedire!).

Lo confessai ad Alberto, il giorno che mi aveva accompagnato al museo risorgimentale ed ero rimasto estasiato per ore a "contemplare" gli scritti autografi dei grandi personaggi di quell'epoca.

- Io credo - mi rispose - che sia lei ad essere fuori dal tempo. E credo che il buon creatore abbia commesso un errore, e l'abbia collocata nel secolo sbagliato -

Lo disse così serio che mi fece ridere

- E di che secolo avrei dovuto essere? -

- Boh...rivoluzione francese...Italia d'inizio Ottocento...non so...un epoca di grandi ideali... -

Un'altra volta commentò il mio gilet serioso e la mia camicetta ben stirata dicendo che somigliavo a Monsù Travét: non osai chiedere "chi fosse costui", anche se a quel tempo lo ignoravo completamente. Tuttavia, Travét o giacobino o risorgimentale, che non ero un uomo di fine novecento Alberto me lo ripeté in mille altre occasioni.

 

Ecco, un ricordo bellissimo. Le fotografie scattate in piazza Castello.

D'orsi e un suo collega, uno a fianco dell'altro, entrambi in camicia bianca e pantaloni scuri - e sullo sfondo un antico tram, piccolo, di color rosso acceso, messo lì probabilmente per figura. Alberto mi stava facendo un cenno strano con le dita, credo volesse indicarmi qualcosa a proposito della macchina fotografica, che era la sua, e avevo appena imparato a usare. Sì, perché lui - e ormai non me ne stupivo più - era anche fotografo, e le immagini che comparivano spesso sulla sua rivista erano selezionate dai servizi che realizzava insieme a quel suo compagno.

Quando seppe che la fotografia era sempre stata una mia passione trascurata, lo invitò subito ad uscire con noi per una "passeggiata fotografica" per la città. Era un uomo rotondo, alto, con grossi baffi e pochi capelli, fanfarone e pacioso; portò con sé la sua attrezzatura professionale, e m'illustrò per tutto il pomeriggio le tecniche del mestiere. A me era già capitato di fare un po' di pratica, ma poi, così come per il pianoforte e tante altre attitudini sviluppate e non, per motivi che non erano chiari nemmeno a me, avevo preferito lasciar perdere. Amavo però profondamente l'album con le mie vecchie foto, affiancate ciascuna da luogo e data. Non quelle di quando ero bambino, però: soltanto quelle che avevo fatto, o che avevo voluto farmi fare, nei precisi luoghi e tempi che avevo scelto io. Era questo che amavo nell'arte del fotografare: selezionare pezzi di tempo, bloccarli, isolarli dal resto e renderli limpidamente definitivi, intoccabili, mai più scalfibili dal sospetto che non si fosse stati felici. Avevo sempre avuto il senso della fine e del tempo...

- E come mai - mi chiese Alberto - non ha sviluppato questa sua passione? -

- Forse ne ho sempre avute troppe - filosofeggiai - e per non essere mediocre ovunque bisogna scegliere - mi venne da ridere - Tanto fumo e niente arrosto, insomma! -.

- Non direi! - mi incoraggiò lui - Forse non si fida abbastanza di sé stesso, perché sono certo che potrebbe coltivarle tutte! -

Mi accorsi di aver cercato il suo complimento di proposito, con la mia manifestazione di modestia, e lo trovai vile, tuttavia non resistetti dal rincarare la dose, ma solo per restituirgli il complimento e chiamare ad un tempo in causa quella persona che era pur sempre al centro dei miei pensieri.

- Beh signor D'orsi, io non sono lei - dissi - e, per grazia o per sventura, non sono neanche Filippo -.

- Per grazia, senz'altro! - esclamò - altrimenti il "Cambio Rotta" si trasformerebbe in un ring -

- Beh - risposi a tono - guardi che non ci manca poi molto! -.

Alberto reagì con una sana risata, ma la sera, rientrando a casa, riprese il discorso seriamente, e mi domandò che genere di rapporto ci fosse tra Filippo e me. Gli parlai di un filo sempre in tensione che sembra sempre sul punto di spezzarsi e non lo fa, anzi, di un filo di "alta tensione", perché tra noi, o almeno da lui verso me, scorreva una forte energia, ed io finivo sempre col prendere la scossa.

- Sa - mi disse allora con dolcezza - Io credo che lei, per Scizio, sia un grande amico. E non si stupisca tutte le volte che le parrà di non essere accettato per se stesso, ma solo osservato e giudicato. Penso che lo faccia anche con me, e mi risparmi soltanto in virtù della mia presunta cultura: è un vizio che non si toglierà mai. Ma lei dovrebbe ritenersi fortunato a rientrare nello stretto novero di coloro per i quali al giudizio non segue mai una condanna senza appello...Creda a me: quando Scizio ha scelto l'amicizia di qualcuno, la conserva e la coltiva per sempre, con una fedeltà, una tenacia, una testardaggine, persino, che nessuna delle persone che conosco ha mai saputo dimostrare. -

Rimasi in silenzio, stupito

- Mattia - mi confidò allora lui - Io ritengo Filippo una persona meravigliosa. E' intraprendente, ottimista, brillante, ha una costanza che gli permette di ottenere quasi sempre ciò che si propone. E quando non riesce nei suoi intenti è sempre pronto a cominciare ex novo, non si abbatte mai...E in fondo, sa, dietro quell'apparente facciata di concretezza e praticità, è un inguaribile idealista, e credo sarebbe pronto a sacrificare qualsiasi cosa, per i suoi ideali... -

Non aggiunse altro, facendo in tal modo sì che il suo eroico ritratto si chiudesse con quella dichiarazione altisonante, che mi sarebbe parsa retorica in bocca a chiunque altro che non fosse lui, o a proposito di qualsivoglia altra persona, e mi lasciò zitto a contemplare la figura astratta che aveva costruito in pochi schizzi davanti a me, e che non corrispondeva affatto all'impressione che di solito Filippo dava alla gente, ma si sarebbe volentieri adattata alle immagini create della mia fantasia. Provai a lasciare libero campo a loro, per una volta, e allora il ritratto di Alberto mi parve ancora più bello. Anzi, trasferii anche loro due, quella sera, nel secolo decimonono, nella antica piazza dell'antica Torino, loro eroi del Risorgimento, io dietro, coi miei fogli in mano, a guardarli, senza trovare le parole per immortalarli lì, a futura memoria.

  
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