Un’intera parete, ricoperta da un
soffice velluto rosso, ospitava il piccolo quadro di Osvaldo Paniccia, piccolo per dimensioni ma grandissimo per
quotazione. Si trattava della sala più grande, quella destinata agli esemplari
più preziosi della scultura cinese. Un enorme, quanto unico nel suo genere,
vaso Ming se ne stava appollaiato in un gracile piedistallo, proprio di fronte
agli occhi del commissario Asuka senior.
«Grazie per essere con noi.
Ci affidiamo a lei, Commissario Auricchio!», e si
inchinò leggermente, come richiede il saluto giapponese.
Il commissario Auricchio (a.k.a. Lino Banfi) era
un uomo piccolo e tarchiato, sui cinquant’anni, affetto da seri problemi di
calvizie. Vestiva in borghese, come tutti gli uomini della polizia italiana di
alto grado. Nei suoi occhi l’orgoglio di una professione rischiosa e la
stanchezza di anni e anni di caccia senza riscontri.
«Grezie. Faremo del nostro meglio per difendere il
vostro quedro.» Disse il commissario italiano,
accennando un dubbioso quanto goffo inchino.
«Ci risulta ci siano
concrete possibilità», ammise con preoccupazione l’agente della polizia
giapponese, «che Saint Tail si presenti nuovamente.
Non voglio assolutamente dubitare della moralità dei mecenati vostri connazionali»,
si schernì Asuka sr., «ma i
nostri precedenti ci chiedono di aumentare le misure di sicurezza».
«In realtè»,
replicò in accento pugliese Auricchio, «più che per
il quedro, io sono qui per un’importente
indegine dell’Interpol per catturere quella fetecchia
assoluta che ci perseguita…». Il commissario iniziò
ad ansimare pericolosamente. Dal fondo della stanza sopraggiunse di corsa un
ragazzo alto e cappellone, con la faccia spaesata. Un ragazzo che gli amanti
del cinema italiano riconosceranno come De Simone, braccio destro di Auricchio e vice-commissario.
«Commissario…
ha dimenticato le pillole!» disse sottovoce De Simone al suo capo. Un telefono
squillò. «Con permesso», Asuka sr
aprì il cellulare e si girò per rispondere.
«Brutto disgrazieto!»,
sbraitò sottovoce, ma ancora perfettamente udibile, Auricchio.
«Sarenno anche chezzi miei!
Lo sai io che ne penso dei dottori!». E, malauguratamente, si appoggiò al
piedistallo. Sì, purtroppo. A quel gracile piedistallo con quel famoso quanto
inestimabile vaso Ming, che si ruppe in mille pezzi.
Asuka sr sentì il rumore e si girò di scatto, ma Auricchio, che nel frattempo aveva tirato un calcio a De
Simone e aveva percorso quattro metri di lato a sinistra tossì con forza,
nascondendo con un guizzo da maestro il grave danno che aveva inferto allo
storia dell’arte ceramica cinese.
«Non sa davvero quanto siamo
onorati di averla qui con noi», Asuka sr si inchinò di nuovo, «lei è l’unico poliziotto al mondo
in grado di rivaleggiare con la terribile Belva Umana!».
De Simone spalancò
improvvisamente la bocca, con un’apertura angolare che non era mai riuscito a
raggiungere nemmeno dal dentista. Auricchio strinse i
punti, pensò ad un “Porca puttena maledetta” e colpì
con un pestone il pavimento, ottenendo, come unico risultato, che una scheggia
acuminata del vaso Ming gli si infilasse in una scarpa squarciandogli un piede.
«AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAHHHHHHHHHHHHHHHH»
«O Santi Numi», gridò anche Asuka sr. «il vaso Ming!».
De Simone cercò di salvare
il salvabile: «Vede… Il Commissario Auricchio non vuole che si parli di questa faccenda». «Quale
faccenda?» chiese Asuka sr.
“A questo punto meglio si accorga del veso…” pensò
disperato Auricchio, che trovò comunque la forza di
parlare. Anzi, di gridare, a suo modo.
«DE SIMONE!!! MALEDETTO STRONZONE
DISGRAZIETO!!! NON DIRE CHEZZETE! IO NON VOGLIO CHE NON SI PARLI!!!» fu
costretto Auricchio.
«Allora racconti!» intimò Asuka senior.
Nella mente del commissario
italiano l’onta subita tornò lucida. Nella sua anima il peso dell’umiliazione
di quella sera terribile, la più terribile della sua carriera, era più viva che
mai. La sera in cui la Belva Umana, il criminale più efferato del mondo, la
persona più ricercata per l’FBI, la fece franca, di nuovo, sotto il suo naso.