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Autore: BaschVR    19/07/2012    0 recensioni
C’è un quadro, o forse è semplicemente una foto sbiadita, nel corridoio che porta all’ufficio di Scarlet.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Cissnei, Cloud Strife, Scarlet, Tseng
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Crisis Core
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Ombre
 






C’è un quadro, o forse è semplicemente una foto sbiadita, nel corridoio che porta all’ufficio di Scarlet. Si sorprende ad osservarlo per la prima volta, un po’ per noia, un po’ per lieve curiosità, mentre preme distrattamente il dorso della mano contro il mento. E’ un dipinto di piccole dimensioni, antico forse, perché gli angoli della cornice di legno sono leggermente consumati dal tempo, ma c’è qualcosa, nel soggetto ritratto, che l’attrae e la spinge ad avvicinarsi sempre di più.

Improvvisamente si accorge che la prima impressione l’ha ingannata, e si rende conto che quelle che ha scambiato per dense pennellate sono in realtà le ombre di un gioco di chiaroscuri che domina quella che riconosce essere una foto. Un sorriso le increspa leggermente gli angoli del volto, mentre con una mano percorre la scia delle ombre che tingono l’erba d’ebano. Lentamente, tracciando con le dita la sagoma dei fusti nodosi di alcuni alberi, riconosce nella figura una foresta stilizzata, probabilmente avvolta nella fitta bruma notturna che precede l’aurora. I colori sono scuri, grevi, dai contorni poco definiti; sembra una foto scattata quasi per caso, sbadatamente, e orfana del suo creatore: probabilmente, insoddisfatto del risultato ottenuto, ha preferito sbarazzarsene, buttandola via, lontano dai suoi occhi. Riesce quasi a vederla, quella fotografia consunta e logora, sul marciapiede grondante di pioggia di una città semisconosciuta: abbandonata, derisa, calpestata senza ritegno da ignoti senza nome né volto. Quasi senza accorgersene, lievemente, sospira.
Il corridoio è deserto, silenzioso, immerso nella quieta notte di una città che non dorme mai davvero. Abbandona lo sguardo dalla fotografia, di controvoglia, e si ripromette di tornare ad osservarla in un secondo momento, di giorno, quando la luce – ed il suo umore – saranno differenti.





Nel momento in cui lo sente ridere, si risveglia dal torpore che ha annebbiato i suoi pensieri. Camminano insieme per i vicoli caliginosi della Midgar notturna, e conversano, di tanto in tanto, perché Zack è sempre stato un gran chiacchierone.
Camminano fianco a fianco, alla stessa andatura, gli occhi puntati verso il grigio intenso dell’oscurità davanti a loro.
Il ragazzo incrocia le mani dietro la testa, con un gran sorriso spavaldo che gli illumina il volto; il tono della sua voce è allegro, spensierato, incurante della missione che stanno svolgendo per conto della ShinRa: e a Cissnei, dopotutto, quel tono piace. Le ricorda l’azzurro indefinito del mare, il fragore ritmico delle onde che s’infrangono leggere sulla battigia, e il soave canto dei gabbiani che solcano il cielo: la sua voce è blu, così come i suoi occhi.
Gli chiede il perché stia ridendo, e lui risponde che non sempre ci vuole un motivo per fare determinate cose. E’ una risposta un po’ generica e vaga, ma a Cissnei va bene così, perché conosce Zack e sa che gli piace vivere sul momento, nel mondo concreto e pulsante di vita, e non in quello delle idee e delle illusioni.
Ascolta il fragore della sua risata e lo compara di nuovo al ritmo implacabile delle onde. Gli angoli della bocca le si increspano leggermente, come se un ghigno leggero volesse far da eco al rumore del mare: ma si accontenta soltanto di osservare, lieta, senza avere particolari pretese da quella vita che, probabilmente, le ha già dato tutto quello di cui ha bisogno.
In quel momento qualcuno chiama a gran voce il suo nome, interrompendo la trama intricata dei suoi pensieri. Sospira pesantemente, sconfortata, mentre la fitta nebbia del vicolo scivola via dalla sua mente, confondendosi con il grigio delle pareti dell’edificio ShinRa.
“Che fai, dormi?” esclama Reno, avvicinandosi e prendendo posto nel sedile vuoto accanto a lei.
Cissnei decide di non rispondere. Non è di malumore, ma ha un insolito e persistente mal di testa e non è interessata a condividerlo con il resto del mondo. Il ragazzo le rimane un po’ accanto, decidendo di rispettare il suo innaturale silenzio; poi, senza che lei non gli abbia chiesto nulla, le cinge dolcemente le spalle con un braccio. Sul viso le affiora un sorriso amaro, nonostante cerchi di nasconderlo agli occhi dell’altro: sa già che, se gli chiedesse il perché di quel gesto, lui risponderebbe che non sempre ci vuole un motivo per fare determinate cose.





Alcuni giorni dopo, ancora una volta, ripercorre a grandi passi il corridoio che porta all’ufficio di Scarlet. Quasi senza che se ne renda conto, lascia che la sua attenzione venga catturata nuovamente dal contrasto cromatico della logora fotografia appesa alla parete: e già da subito, nella sua mente, non c’è posto per null’altro che non sia l’intenso chiaroscuro della selva color seppia.
Il suo umore, in verità, non è cambiato molto rispetto ai giorni precedenti; qualche giorno prima si è detta, immersa nei suoi pensieri, che sarebbe tornata solo quando avrebbe avuto una prospettiva diversa delle cose, ma ovviamente non è riuscita a mantenere neppure quella piccola, stupida promessa. E’ di nuovo lì, ad osservare assorta le pronunciate pieghe argentee della vecchia e consunta fotografia, presa come non mai, mentre fuori dall’edificio la pioggia imperversa e spazza via le pene e i peccati della grande città.
“Ti piace?” le chiede all’improvviso un uomo, o forse è un ragazzino un po’ troppo cresciuto, che si trova a passare per quei corridoi. Cissnei si volta a guardarlo, i pensieri ancora rivolti alle tiepide zolle di terra avvolte nell’ombra della foto, senza rispondergli in modo definito.
L’uomo le dice di chiamarsi Ben, poi le pone nuovamente quella domanda; e, per un momento, le sue membra sono percorse dal dubbio e dalla confusione, e la sua voce è incredibilmente incrinata, mentre si ritrova a biascicare una risposta negativa che la investe con la forza di un vigoroso soffio di vento.
No, quella fotografia lacerata in più punti non le piace per nulla: dopotutto, se l’avesse apprezzata davvero, non ne sarebbe stata così attratta.





A Ben piace parlare, e probabilmente a lei piace sentire il suono della sua voce. E’ un gradevole diversivo contro la noia che, come la pioggia, picchia forte sulle vetrate dell’edificio ShinRa e sui suoi pensieri, annebbiandoli. Le ha già detto qual è il suo ruolo nell’azienda, ma gran parte delle sue parole si è già perso nel fiume impetuoso di vacuità che senza posa si anima dalla sua bocca. Si limita soltanto ad ascoltarlo, a volte senza nemmeno avere idea di che cosa stia dicendo, mentre il formicolio della sua voce si confonde con lo scroscio pulsante del temporale. Non ha alcun interesse nel cogliere stralci di conversazioni di vite che non le appartengono: tuttavia, saltuariamente, si ritrova ad annuire alle sue parole, chiedendosi perché Ben abbia deciso di condividere una fetta della propria esistenza con lei, in quello sterile giorno di pioggia, con una sconosciuta che probamente non vedrà mai più. E’ una condizione strana, quella degli uomini, si ritrova a pensare, ma non ha il coraggio di dirlo ad alta voce. Sono pensatori rivoluzionari, eppure hanno ancora paura di rimanere da soli. Probabilmente è per questo che Ben ha deciso di parlare con lei, quel giorno.
Si chiede se ha paura di rimanere da sola, e, per un momento, in preda all’illusione, si dice che no, non ha questo timore perché, in un certo senso, sola lo è sempre stata. Ma poi, mentre i suoi occhi si perdono nell’inquietante oscurità che si inframmezza tra i centenari alberi della fotografia, è costretta ad ammettere che la solitudine è, soprattutto in quel preciso istante, il problema più grande che si vede costretta ad affrontare.





Intravede i suoi lunghi capelli neri dall’alto della scalinata principale della ShinRa. “Tseng!” esclama di colpo, lasciando scivolare la mano lungo la sottile balaustra delle scale. L’uomo si volta, confuso, ma poi la riconosce e le fa un debole segnale di saluto con la mano, appena accennato, che la invita a raggiungerlo.
Scende le scale, lentamente, mentre la sua mano accompagna ancora il grigio opaco del corrimano di metallo. L’ingresso è rumoroso e affollato, ma nessun suono giunge alle sue orecchie se non il ritmico rumore dei suoi leggeri passi sul marmo dell’ingresso.
“Facciamo un giro.” Propone Tseng, serio, non appena è abbastanza vicina da poter sentire la sua voce. Non c’è traccia di sorriso nel suo volto.
Annuendo appena, comincia a seguirlo fuori dalle alte mura dell’edificio ShinRa. Ed è nell’esatto momento in cui, quasi senza volerlo, incrocia lo sguardo con quello serio e imperscrutabile dell’uomo, che capisce nervosamente che qualcosa è andato terribilmente storto.





Tseng le cammina accanto, noncurante della pioggia, mentre la furia di un violento temporale si abbatte sulla grande e oscura metropoli, piegandola sotto la sua ferrea ed implacabile volontà.
I loro passi infrangono leggeri le perlacee pozzanghere di pioggia: ed il misero specchio d’acqua si piega impetuoso come preda della corrente. Camminano lungo il marciapiede grigio, mentre la pioggia imperversa sull’asfalto come un torrente scosceso nella stagione estiva: e la pioggia filtra attraverso i sottili canali di scolo giù, verso i bassifondi, in un mondo che la gente del piatto ha ormai imparato ad ignorare.
Cissnei sospira, abbandonando con lo sguardo la corrente impetuosa delle strade solcate dalla pioggia. I suoi occhi tornano di nuovo su Tseng, imperturbabile, che la guida senza una meta precisa lungo le strade della grande città, girovagando a vuoto immerso nei suoi pensieri: e, confusa, si chiede del perché l’uomo le abbia chiesto di seguirlo. Lo sguardo che si sono scambiati pochi minuti prima, tuttavia, le ha già detto più di quanto l’altro non creda: e all’interno del suo cuore, probabilmente, magari ha già capito che quell’oscura passeggiata sotto la pioggia scrosciante riguarda Zack, ed il suo destino – per il momento, ma forse ancora per poco – ignoto.




C’è stato un tempo in cui tante cose erano differenti. Ricordi evanescenti, che si sfaldano sotto il diluvio crescente, come le fugaci gocce di pioggia che si frantumano lungo il selciato dei marciapiedi grigi di Midgar. Sono tante, le sue memorie felici, tante come le stelle nelle tiepide notte estive: brillano e risplendono nella volta celeste, felici e straordinarie.
In quel momento, sono tante quelle gocce di pioggia che le oscurano le visuale: e in un attimo, senza nessun preavviso, i suoi pensieri sono già scivolati verso tempi più sereni, quando, in una notte ormai lontana nel tempo e nello spazio, ha osservato pensierosa lo straordinario pallore confuso di una luna piena che riluceva sul mare.
Se si concentra, riesce ancora a sentire la tiepida brezza che viene dall’ovest accarezzarle la pelle, dolcemente: probabilmente, è questa la cosa che ricorda di più di quella notte.
Eppure, a volte, nella solitudine che è la sua vita di adesso, se si concentra attentamente riesce ancora a percepire la sua presenza, accanto a lei, seduta sulla sabbia sottile e bianca che fa da contorno ai flutti del mare, e che le sorride, dolcemente; e non è raro che intere ore scivolino via cercando di afferrare la sua voce che, lentamente, se ne va lontano, come sottili spire di vento tra le dita.
Sono tanti i suoi ricordi piacevoli, tanti da riempire un bellissimo cielo stellato.





Ma poi, con l’autunno, è venuta l’attesa. L’ombra confusa di giorni ricolmi di noia si è abbattuta su di lei e sulla sua realtà, nel momento in cui lui se n’è andato. E la città, con il suo contrasto di luci ed ombre infinito, s’è tinta del grigio seppia che per lei è la sua lontananza. E gli intensi colori delle montagne e del mare, e dell’infinita steppa cavalcata dalle ombre notturne dei grilli e delle cicale, s’è come disfatta e arenata lontano, in un luogo inviolabile da parte delle sue memorie.
Giorno dopo giorno, i suoi ricordi sono diventati evanescenti, sottili come i migliaia di fili d’erba delle colline che a est circondano Midgar: e così come quelli muoiono con il giungere dell’inverno, così la sua anima, con l’approssimarsi della stagione fredda, respira il gelido vento della sua assenza.
Spesso nasconde la sua infelicità dietro al sorriso materno che l’ha così spesso contraddistinta in passato: ma la verità è che qualcosa, rispetto al passato, è desolatamente cambiato. E non importa come Reno e gli altri possano cercare di far apparire la cosa, la realtà è che Zack non è più tornato, dopo quel ridicolo e al tempo stesso straordinario evento che è stato l’incidente di Nibelheim.





Con la mente, in un attimo è di nuovo sotto il funesto diluvio abbattutosi su Midgar. Scaccia lontano i numerosi pensieri che le hanno invaso prepotentemente la mente, scrollando forte la testa: l’aria attorno a lei è gelida, e numerose sferzate di vento la colpiscono brutalmente, risvegliando i suoi sensi.
Getta uno sguardo indecifrabile a Tseng, ancora accanto a lei, con la stessa espressione seria e imperturbabile che non è mai riuscita a comprendere del tutto. E infine, mentre all’orizzonte le grigie nubi cariche di pioggia si addensano sempre di più e la forza del vento aumenta d’intensità, Tseng si risveglia dal torpore che l’ha ghermito fin da quando sono usciti dall’Edificio ShinRa, e i suoi occhi incontrano le vetrine fiocamente illuminate di un pub dimesso all’angolo tra un vicolo e un altro. “Lì dentro potremo parlare indisturbati,” esclama, senza abbandonare l’espressione grave che, per tutto il tragitto, ha reso più arido e spaventoso il suo viso.




 
Si siedono ad un tavolo un po’ traballante, in disparte rispetto agli altri, che dista soltanto pochi centimetri dalla grande vetrata opaca. Tseng ordina da bere per entrambi, mentre lei osserva distrattamente la pioggia che, trainata dal vento, batte senza posa sul vetro, disegnando piccoli cerchi evanescenti che scorrono lungo la fredda parete  trasparente.
Ancora una volta, l’uomo accanto a lei è restio alla parola: probabilmente, anche se non riesce a vederlo, al suo interno è in corso un grande conflitto interiore. Non vuole forzarlo a parlare, se ritiene che non sia necessario: tuttavia, quella sgradevole sensazione che prova dal momento in cui l’ha incontrato s’è annidata nel suo stomaco, e la tormenta continuamente senza un attimo di tregua.
Si ritrova a pregare affinché Tseng la liberi da questo tormento, ritrovandosi a fissarlo ardentemente negli occhi.
Nel momento in cui anche lui, quasi colto alla sprovvista, incontra il suo sguardo, un lampo di determinazione gli illumina il volto: le sua mani si chiudono attorno alla superficie fredda del bicchiere, che porta alle labbra in un movimento che sa quasi di abitudine; poi, nel momento in cui, stancamente, fa tintinnare il vetro contro il tavolo, decide che è venuto il momento, finalmente, di parlare.
La sua voce ha lo stesso freddo e distaccato tono apatico di sempre; il suo sguardo è fermo, dritto sui suoi occhi, quasi come se stesse studiando ogni sua minima reazione. Le storia che le racconta è strana e articolata: si sviluppa nell’arco di numerosi anni, fino a concludersi qualche giorno prima, alle porte della città di Midgar, nel luogo da dove sono giunte le nubi che hanno fatto da presagio al livido e impetuoso temporale. E’ una storia di disonore, di lealtà macchiata, di sangue versato sulla ruvida pietra del deserto: una storia che Cissnei ascolta incredula, ad occhi sbarrati, e che frantuma ogni speranza che, tra i tiepidi raggi di sole che raramente sfiorano il piatto, ha coltivato quasi di nascosto, celata dietro i suoi continui sbalzi di umore.
Si alza in piedi, la voce strozzata in gola: distingue solo i contorni dell’esile figura di Tseng, composta nella sua sedia, che la guarda con un’espressione di biasimo appena accennata sul pallido volto: perché lui gliel’ha già detto, all’inizio di questa storia, l’ha già avvertita su quello che sarebbe potuto capitare; e lei, illusa, ha preferito semplicemente non starlo a sentire.





Corre, sotto la pioggia, sfidando a testa alta la furia della tempesta che si abbatte sulla città; e le gocce di pioggia che scorrono sulla sua pelle impetuosi, e i gelidi soffi del vento che le sferzano il volto, e la spessa nebbia che le oscura il cammino, vogliono soltanto dissuaderla dal suo viaggio, dalla sua personale ricerca della verità assoluta sulle vicende inerenti alla morte di Zack Fair. Perché le parole di Tseng, così calme, placide, imperturbabili come la superficie dell’acqua stagnante, non possono essere reali: non ne hanno semplicemente la parvenza, e il loro aspetto è denso quanto i sottili fili di fumo che fuoriescono dai camini delle case.
La verità deve essere un’altra, ed ha intenzione di scoprirla risalendo alla fonte che ha spacciato la notizia come reale: e, se allunga lo sguardo verso l’orizzonte, nonostante la fitta nebbia che ricopre ogni cosa, riesce già a vedere il profilo che si staglia all’orizzonte di quello che è stato il suo punto di partenza.
Tiene a bada i propri sentimenti, trattenendo il fiume di lacrime che sente di dover versare: è ancora presto per abbandonare le proprie speranze, per lasciare andare l’ultima possibilità che ha di venire illuminata, ancora una volta, dal suo spensierato sorriso.





Attraversa a grandi passi l’ingresso principale dell’Edificio ShinRa, presa dalla determinazione. Chiede del presidente, a gran voce, sbattendo i pugni sul banco informazioni, mentre sente la rabbia montare all’interno di lei: è un sentimento che non le si addice – l’ha provato raramente, in passato -, e che la dilania, e la distrugge, e la rende vulnerabile e indifesa agli attacchi degli altri.
Prima ancora che riesca ad accorgersene, la linea di difesa che ha eretto attorno a sé erompe con la potenza del mare in tempesta. Si inginocchia, singhiozzando, troppo sconvolta per riuscire a pensare lucidamente, mentre il peso del mondo si inoltra, come un macigno, dentro di lei. Improvvisamente, capisce che anche le deboli speranze che ha lasciato fiorire, attaccate alle radici di possibili menzogne, sono in realtà soltanto delle fredde illusioni. E anche se ancora stenta a crederlo, capisce che Zack se n’è andato, e che lei non potrà mai più sentire il caldo suono della sua voce, sempre più distante ogni giorno che passa.





Scorrono lentamente, i periodi tra una mansione e l’altra, tanto da perdersi nell’infinita noia ed apatia che colora il cielo delle sue vacue giornate. A volte passano settimane prima che le venga assegnato un nuovo incarico: tuttavia, è sempre felice di poter partecipare ad una nuova missione, e di potersi allontanare, seppur per breve tempo, da quella città così piena di ricordi brutali che la inseguono anche nel vicolo più lontano della sudicia periferia.
Trascorrono giorni, settimane, ed infine mesi: ed i viali della città si tingono degli ardenti colori autunnali, mentre il vento, gelido come gli zefiri delle grandi vallate di montagna, si insinua sbuffando lungo le vie della grande Midgar. In una delle tante lunghe mattinate che precedono l’arrivo di Novembre, misura a grandi passi il viale principale della città, gettando uno sguardo privo d’interesse alle grandi costruzioni grigie che circondano la strada.
Si ritrova ad osservare l’austera fontana al centro del Settore 8, ormai usurata dal tempo e dalla ruggine. Midgar è cambiata parecchio, negli ultimi anni, s’è annichilita sotto la spinta della sua stessa potenza, come se qualcosa, nel suo antico splendore, si fosse lacerato fin dalle fondamenta della città. La ShinRa ha perso qualcosa, tra l’intenso scorrere delle stagioni, è il suo lento declino s’è abbattuto, con l’intensità di un maremoto, sulla città e sui suoi abitanti.
La sente sprofondare, la grande metropoli, proprio sotto i suoi piedi: l’eco della rivolta s’insinua anche tra gli impiegati stessi della ShinRa, ghermendoli con le promesse di vite migliori e di nuove prospettive. Quanto a lei, non ha mai pensato di lasciare la ShinRa: è tutto ciò che ha sempre desiderato, il luogo sicuro dove tornare, il porto stabile che rappresenta la sua casa.
Eppure, ora che lui non è più lì, persino stare alla ShinRa è, in qualche modo, diverso. Qualcosa si è rotto in maniera irreparabile, e non tornerà mai più come prima: e mentre persino le serate passate in compagnia dei colleghi di lavoro appaiono vuote e inutili, comincia a chiedersi se, effettivamente, continuare a lavorare per la ShinRa sia ciò che vuole davvero.





La tela dei suoi pensieri s’interrompe di colpo, quando, senza rendersene conto, lascia che i suoi passi la conducano lontano, lungo le strette arterie della periferia. Si stringe nel suo lungo cappotto invernale, per coprire la divisa da Turk ed anche perché, in fondo, le strade di Midgar sono ormai pervase dal gelido vento dell’imminente stagione fredda. Ed è qui che, all’improvviso, alzando gli occhi, incontra, con lo sguardo, un’esile figura lontana che si perde nella bruma sottile che avvolge la città e impedisce di vedere l’orizzonte. La osserva, incerta, continuando ad avanzare ritmicamente lungo le isolate vie della periferia, finché, finalmente, non si ritrova a pochi metri di distanza da essa: ed è solo a quel punto che spalanca gli occhi dalla sorpresa, mentre un’espressione incredula le si dipinge lentamente sul volto: è passato parecchio tempo, è vero, tuttavia è certa di avere davanti quello che, mesi prima, è stato il compagno di fuga di Zack Fair.





Rimane ferma per un attimo, incapace di formulare un pensiero articolato: attonita, lascia che lo sguardo del ragazzo si posi su di lei, solo per un attimo, mentre lo osserva camminare indisturbato lungo il marciapiede immerso nella sottile nebbia che, in quel periodo, la mattina, avvolge i suoi nodi lungo le strade della città. I suoi occhi lo seguono mentre si allontana oltre le sue spalle, finché non lo vedono voltare l’angolo e dileguarsi nell’immenso labirinto di strade della periferia di Midgar.
Subito, risvegliandosi dal torpore che l’ha assalita, torna sui suoi passi, velocemente, lasciandosi trasportare dall’istinto attraverso la nebbia. Corre velocemente, e ritorna all’incrocio che ha attraversato poco prima: ma il ragazzo è già sparito oltre le articolate strade che i suoi occhi non riescono a vedere. Oltrepassa un vicolo sporco e pieno di fumi chimici provenienti dai tubi di scarico del retro di alcuni locali: nella sua testa, un tumulto di pensieri si articola senza posa, come trainati dal vento, tuttavia non è in grado di afferrarne nemmeno uno: perché tutta la sua concentrazione, in quel momento, è rivolta al ragazzo biondo che è lì, da qualche parte, nella grande scacchiera di vicoli e strade che è la città di Midgar: e se la ShinRa ha mentito sulla sua morte, allora forse non tutto è ancora perduto, e anche quella stessa speranza che lei ha lasciato andare, a poco a poco, in quegli ultimi mesi inerti, non è ancora da abbandonare del tutto. Perché la prova dell’inganno della compagnia, senza possibilità di dubbio, le è appena passata davanti, ed ora si nasconde soltanto tra le decine di strade grigie della periferia che la circonda.
E poi, uscendo dal vicolo, finalmente lo rincontra, davanti a lei, mentre con lo sguardo chino e immerso nei suoi pensieri attraversa il viale che porta al settore 8. Lo ferma, all’improvviso, bloccandogli saldamente il braccio: e quello si volta, lentamente, lanciandole un’espressione confusa e stringendo una mano attorno all’impugnatura della grande spada a una mano e mezza, pronto ad utilizzarla in caso di pericolo. La sua stretta attorno all’elsa, tuttavia, ben presto si fa meno serrata, quando la osserva attentamente negli occhi. Probabilmente, capisce che non è intenzionata a fargli del male.
Quanto a lei, osserva per la prima volta la grande spada che il ragazzo porta alle sue spalle, domandando a se stessa perché non l’abbia notata prima.
Perché la lama di quella spada – così lucente, spessa, e meravigliosa – la riconoscerebbe dappertutto, così come colui che, un tempo, è stato solito portarla legata alle proprie spalle.





Fa un sorriso forzato, a mo’ di scusa, rispondendo allo sguardo confuso e disorientato del ragazzo davanti a lei.
“Mi dispiace, ti ho preso alla sprovvista.” Sente la propria voce un po’ rauca, diversa da come la ricordava: probabilmente la utilizza in maniera troppo discontinua e irregolare, tanto da dimenticarsene addirittura il suono. Eppure, è anche questo il segno dell’apatia che la morte di Zack Fair ha creato in lei: ma ora che il suo compagno di fuga è lì davanti, mentre la osserva attentamente con i suoi luminosi occhi azzurri, non può fare a meno di notare che la sua voce, finalmente, torna a velarsi di quel sottile tono di speranza che ha il sapore dell’aria salmastra del litorale di Costa del Sol.
“Sei un Soldier?” gli chiede, all’improvviso, notando per la prima volta gli abiti con cui è vestito. Il mosaico che corrisponde al ragazzo, nella sua mente, si costituisce di nuovi elementi ad ogni nuovo sguardo che gli rivolge, e che la incuriosiscono e la spingono, ogni secondo che passa, a volerne sapere di più, disperatamente.
Il ragazzo soppesa la risposta da darle, chiedendosi se debba fidarsi o meno di lei: sbuffa leggermente, gettando uno sguardo di sfuggita alla direzione verso la quale si dirigeva prima che il suo cammino fosse interrotto. Poi, alla fine, decide di rispondere, con poche parole prive di entusiasmo.
“Lo ero.”
Per la prima volta dopo tanto tempo, Cissnei sorride. La verità che conosce lei si discosta un po’ da quella che di lì a poco le racconterà l’altro, ma ciò non le importa particolarmente: dopotutto, le basta soltanto sapere che non è ancora ora di lasciar andare i suoi sogni, e che essi potrebbero tornare, così come il canto dei gabbiani dopo la tempesta, con più forza ed energia di prima.
Cominciano a discutere, camminando uno accanto all’altra; il ragazzo le dice di chiamarsi Cloud Strife, di avere 21 anni e di essere stato un Soldier di prima classe per conto della ShinRa; quanto alla spada, da quello che dice, non ricorda in che modo ne sia venuto in possesso, tuttavia ha come la sensazione di averla da sempre con sé.
Alcune parti dei suoi ricordi sono confusi, come passi sulla sabbia erosi dal vento e dalle onde in tempesta; e riguardo a Zack, Cloud non ne ricorda nemmeno il nome, come se la sua esistenza sia stata solo un effimero sogno da cui lei non si è ancora svegliata; tuttavia, Cissnei sa che non è così. E la presenza stessa di Cloud lì davanti a lei, e della Buster Sword legata alle sue spalle, è già di per sé la prova inconfutabile che qualcosa, sull’incidente di Nibelheim e le sue ripercussioni sulla ShinRa, è stato imperdonabilmente omesso dalla compagnia.





Dopo tanto tempo, si ritrova ancora una volta nel corridoio che porta all’ufficio di Scarlet, davanti alla consunta fotografia che tante volte ha ammirato nei mesi passati. In effetti, è da un po’ che non si ferma più come prima a riflettere, davanti ad essa, forse perché, recentemente, ha ritenuto che non ci fosse più nulla per cui potesse valere la pena di perdersi nei propri pensieri. Ma adesso è di nuovo lì, in piedi, ad osservare le logore pieghe che fanno della fotografia un oggetto così perfettamente fuori luogo in un posto del genere.
Sorride, perché sa che ciò che si è preposta di fare è la cosa giusta; poi, con un respiro profondo, facendosi coraggio, passa oltre la cornice di legno invecchiato della fotografia e, senza alcun segno di titubanza, bussa forte alla porta che dà all’ufficio della Direttrice Scarlet.
All’interno, la calda voce della donna la invita ad entrare. Probabilmente, l’hanno già avvertita del suo arrivo dall’ingresso.
Il suono degli stivali sul marmo dell’ufficio della donna è ritmico, cadenzato, lievemente amplificato dalla presenza di una sottile eco all’interno della stanza. Lentamente, si avvicina alla lucida scrivania di Scarlet. La donna le dà le spalle, col viso rivolto verso la grande vetrata che mostra la maestosa armoniosità della Midgar notturna: e per un attimo anche il suo sguardo viene attratto dalle migliaia di luci abbaglianti della città, prima di focalizzarsi nuovamente sulla figura in piedi davanti a lei.
Lentamente, Scarlet si volta verso di lei, mentre il suo lungo vestito rosso ondeggia leggermente sotto la sua debole spinta. Tiene in mano un piccolo bicchiere semivuoto di gin, sorridendo beffardamente: e in un attimo Cissnei capisce, da quella grottesca smorfia che si è dipinta sul viso della donna, che persino lei ha capito perché ha chiesto di vederla.
La donna le si avvicina, lentamente, guardandola negli occhi come a sfidarla a parlare per prima e ad esporre i motivi di quell’incontro: tuttavia poi è lei che comincia la discussione, all’improvviso, senza lasciare che il sorriso canzonatore che ha sul volto scivoli via.
“Scommetto che si tratta del Soldier morto. Tseng me ne aveva parlato, qualche settimana fa.” Il tono della sua voce è derisorio, tuttavia Cissnei non si scompone, limitandosi a guardarla negli occhi senza fare una parola. “Non è forse così?”
Gli angoli della bocca di Cissnei si incurvano leggermente verso l’alto, quando decide di rispondere alla donna. Lentamente, con tono calmo, le espone la verità a cui è giunta in quello stesso giorno, negli oscuri vicoli immersi nella nebbia della periferia della città: e ad ogni parola che fuoriesce dalle sue labbra, si sente più sicura, e viva, e certa di essere nel giusto.
Quando finisce di parlare, osserva la donna riprendere il bicchierino di gin in mano, senza fare alcun commento riguardo alle sue insinuazioni. Il ghiaccio semisciolto nel liquore tintinna leggermente, a contatto con il vetro.
La osserva sorseggiare distrattamente il liquido incolore, con lo sguardo rivolto nuovamente verso la complessa eleganza delle strade di Midgar. Ma poi, proprio nel momento in cui si ritrova a pensare di aver vinto il loro duello verbale già alla prima stoccata, capisce che c’è qualcosa, nella figura di Scarlet, che non ha considerato. Perché adesso che la donna ha posato nuovamente il bicchiere di gin sul tavolo, sorride nuovamente. E stavolta non è più un altezzoso risolino di scherno: sul suo volto è dipinto il gelido ghigno della vittoria.
A quanto pare, però, Scarlet non ha alcuna intenzione di rispondere a tono alle sue accuse. Incrociando le braccia, si avvicina nuovamente alla sua scrivania, senza che quell’orrido sorriso scivoli via dalle sue labbra: poi, aprendo uno dei cassetti di mogano scuro, afferra con le unghie dipinte di rosso una busta ocra di notevole spessore.
“Credo che troverai particolarmente interessante il contenuto di questa”, sussurra soddisfatta, mentre gliela porge con entrambe le mani, impaziente.





Solo nel momento in cui tiene la busta davanti a sé si accorge di come le tremino le mani, quasi convulsamente: sa perfettamente che il piano di Scarlet consiste proprio in questo, tuttavia non riesce a non provare quella profonda inquietudine che l’assale d’improvviso, come una nave in balia della onde in tempesta.
Le sue mani, con fatica, riescono infine ad aprire la busta ocra: e, osservando all’interno, riesce a contare soltanto una decina di fotografie a colori. Alza lo sguardo sulla donna di fronte a lei che ancora sorride, incapace di trattenere il ghigno che sfoggia apertamente sulle labbra e che la incita silenziosamente a guardare il soggetto delle foto.
Deglutendo, Cissnei preleva le fotografie dalla busta, che cade a terra con un leggero tonfo, dimenticata; perché nell’istante in cui ha guardato la prima foto, il suo sguardo è stato immediatamente catturato, così come la sua attenzione.
La fotografia ritrae un bosco, forse, o magari solo un semplice angolo di terra coperto di vegetazione sperduto tra le montagne antistanti Midgar. Con una mano, improvvisamente, traccia il confine tra la flebile luce originata dal flash e le ombre sottili degli alberi, avvolte da una sottile bruma che le rende evanescenti. Non ha più alcun dubbio, adesso: la foto che tiene in mano e quella appesa nella cornice nel corridoio sono state scattate nel medesimo luogo, tra le colline nebbiose e ondulate ricoperte di nodosi alberi secolari: e se da un lato si chiede il perché Scarlet le stia mostrando quelle foto, dall’altro, seppur in maniera piuttosto singolare, si sente felice, appagata, in un certo senso quasi commossa, come nell’osservare qualcosa che ha creduto fosse andato perduto e che invece è ancora lì, accanto a lei, tra le folte radici macchiate d’ombra della fotografia.
Eppure, c’è qualcosa che non va, lo sente. Passa in rassegna velocemente la seconda, la terza e la quarta foto, senza capire perché Scarlet le abbia dato quella busta. Poi, d’un tratto, mentre il sorriso della donna esplode in una fragorosa risata, prendendo in mano la quinta foto della pila, improvvisamente comprende tutto. E in un breve e folle attimo di cognizione, tutte le teorie che ha febbrilmente concepito lungo il corridoio che porta all’ufficio di Scarlet, si sfaldano disarmonicamente nel turbine confuso dei suoi pensieri. Perché la quinta foto della pila non è più solo una cornice paesaggistica avvolta nella tiepida nebbia del mattino: al contrario, è un primo piano sinistro e ben definito, immerso nella luce dorata del flash dell’obiettivo: e se le radici degli alberi sono ancora, in parte, immerse nell’oscurità, stavolta il letto di foglie secche è perfettamente visibile. E lì, tra le foglie aride e scure, c’è una figura pallida, gonfia, leggermente piegata in maniera sconnessa e innaturale; la pelle lucida ed esangue è ricoperta di ferite grigie e mai curate, su cui ancora brilla lo sporco sangue incrostato. Ma ciò che la atterrisce di più, e che la spinge ad abbandonare la presa sulla fotografia che cade a terra, con la faccia rivolta verso il pavimento, sono gli occhi: quegli occhi spenti e velati che la fissano inespressivi, e che nel momento stesso in cui li ha visti, quasi di sfuggita, le sono rimasti impressi, come marchiati a fuoco, all’interno della mente.
Non riesce a respirare ed è costretta a piegarsi in due, nella ricerca disperata di aria a pieni polmoni: e Scarlet la guarda dall’alto, soddisfatta di aver vinto ancora una volta il duello verbale con una mossa a sorpresa e decisamente ad effetto.
Annaspa, tossendo angosciosamente, mentre sente un conato di vomito salirle lungo il petto: lo reprime, con le lacrime agli occhi, incapace di riuscire a credere a ciò che ha appena visto, nonostante la verità sia lì, davanti ai suoi occhi, sbattutale in fronte senza alcun ritegno dalla donna che la osserva dall’alto. E nel momento in cui riesce a risollevare lo sguardo, ansante, capisce che ha già perso, e che il contrattacco ben calibrato di Scarlet ha distrutto in maniera inesorabile le sue difese.





“Fin dal momento in cui abbiamo deciso di eliminare Zack Fair, sapevamo che avremmo dovuto cancellare anche ogni traccia di cattiva condotta.” Il tono di Scarlet è freddo e spiccio, ora che la risata di scherno è sparita dal suo volto: osserva Cissnei con una vena di disgusto, reprimendo una smorfia sdegnata che tuttavia non riesce del tutto ad estirpare dal suo volto contratto. “In altre parole, una volta resici conto della sua fuga, il presidente, Reeve, Hojo ed io ci siamo resi conto che la cosa migliore per entrambe le parti era l’eliminazione del soggetto in questione.”
La ascolta senza capire davvero il senso delle sue parole, che le appare confuso, astratto, privo di ogni possibile connessione con quella che è la vita reale attorno a lei; perché lo shock di perderlo un’altra volta, a poche ore da quella rinnovata speranza che le ha infuso l’incontro con Cloud, è ancora più doloroso e straziante di quanto non riesca ad immaginare. La sente ammettere ancora, con assoluta e immodesta onestà, che è lei la causa della morte di Zack, e che è stata lei ad ordinare ai Turk incaricati di occultare il cadavere di scattare quelle foto, come prova del buon esito della missione.
Ad ogni sottile affondo della donna, tuttavia, il rancore di Cissnei si fa più forte e al tempo stesso intollerabile, con ondate di rabbia che la attraversano come il vento tra le braci ardenti; e prima ancora di rendersi conto di ciò che sta per fare, la sua mano è già scivolata lungo il metallo vermiglio e lucente del suo Shuriken, e la sua arma – vibrando sotto il sottile e lucido scintillio della luce della lampada – è già all’altezza del collo della donna, che in un attimo muta la sua espressione in una maschera di terrore; ma è troppo tardi, e prima ancora che abbia la possibilità di parlare un’ultima volta, mentre il sangue le screzia di rosso i vestiti ed erompe sul pavimento con l’intensità di un fiume in piena, i suoi occhi sono spenti e vitrei come quelli di Zack nella foto.





Con la schiena poggiata alla parete, si lascia scivolare verso terra. I suoi occhi non riescono a staccarsi da quelli della donna, così vuoti, freddi, diversi da appena pochi istanti prima. Con la vista appannata, lancia uno sguardo veloce alla ferita mortale che ha inflitto a Scarlet: è bastato solo un colpo ben assestato per recidere quasi di netto il collo della donna, stroncando la sua vita; eppure, avrebbe giurato che la vita umana fosse qualcosa di più sottile e al tempo stesso inalterabile.
E’ confusa, instabile, solo leggermente consapevole di non essere più in sé: e mentre si guarda le mani intrise fino all’osso del sangue della donna, cerca di isolare i suoi pensieri, e di capire quale sarà la sua prossima mossa. Ora che sa che Zack non c’è più, tutto le appare vuoto, grigio, gelato nella sua mancanza di emotività: ed anche quell’omicidio a sangue freddo, inspirato da una breve follia, in un certo senso le sembra vagamente accettabile.
Lentamente, con gli abiti e il volto macchiati di sangue, si dirige fuori dall’ufficio, lasciando che lo Shuriken macchiato di rosso goccioli sul bianco e lustrato pavimento di marmo; forse dovrebbe dedicare più attenzione a dettagli del genere, ma sa già che il marmo, seppur con un po’ di fatica, tornerà a splendere di nuovo, magari alla tiepida luce del mattino che prima o poi illuminerà la stanza, a differenza della sua coscienza che è ormai irrecuperabile.





Richiudendo la porta alle sue spalle, lascia sulla maniglia dorata tracce delle sue impronte digitali macchiate di sangue. Senza prestare troppa attenzione alla cosa, continua a camminare in linea retta, osservando i propri stivali tingere il pavimento di un rosso intenso quanto i tramonti sul mare a Costa del Sol. Cammina per il lungo corridoio che porta all’ufficio di Scarlet, come ha fatto tante altre volte in passato: e, come ogni volta in cui il suo sguardo s’è posato sulla parete, i suoi occhi si indirizzano, ancora una volta, sul piccolo riquadro appeso alla parete che contiene la fotografia che è stata isolata dalle altre all’interno della busta. Come la prima volta, si dilunga per parecchio tempo ad osservare incantata le forme poco nitide dei fusti degli alberi, cercando di cogliere con lo sguardo il punto esatto che separa la timida luce dalle ombre che, incontrastate, dominano ogni punto di fuga dell’immagine. Vuole ripromettersi, così come ha fatto la prima volta, che tornerà ad ammirarlo ancora, quando si sentirà meglio, ma il suo cuore sa già che probabilmente questa è l’ultima volta in cui si troverà al cospetto della tomba di Zack. E mentre una morsa gelida gli attanaglia improvvisamente il cuore, e le lacrime, per la prima volta in quel terribile e straordinario giorno, scorrono copiose sul suo volto, decide di salutare per sempre quella che è e che probabilmente sarà in eterno la sua famiglia. Dice addio alle serate passate in compagnia dei suoi amici, e alle centinaia di missioni che ha svolto per conto dei potenti che vivono in quelle mura; e poi, a tutti coloro con cui è venuta a contatto in tutti questi anni, e a Tseng, e a Rude, e a Reno; e saluta anche Scarlet, dentro di sé, con un sorriso appena accennato, poiché il loro è stato un duello leale e ben orchestrato, come si conviene a due donne della loro levatura, e perché sa che, un giorno, probabilmente, si rincontreranno di nuovo, se esiste un inferno che le accoglierà; ed infine, poco dopo, mentre attraversa con il volto rigato di lacrime i grandi cancelli della città, saluta Midgar, e le sue strade, e i suoi grandi palazzi, e le migliaia di vite e di intrighi che contribuiscono, ogni giorno che passa, a tessere senza sosta la sua affascinante e meravigliosa storia.

FINE



Via, giusto per far sapere che non sono morto. X°D
L’altro giorno curiosavo un po’ tra le cartelle del mio pc e mi sono imbattuto in questa fic, di cui non ricordavo assolutamente nulla. L’avevo scritta per un contest mai andato in porto che si è svolto all’incirca due anni fa e che magari qualcuno della sezione ancora ricorda: bisognava – e non era così semplice, a dirla tutta – ricavare una fic da una serie di citazioni, immagini o lyrics assegnate assolutamente in maniera random, ma il contest dopo un po’ è scivolato nel dimenticatoio e credo di averla riposta nell’attesa che venisse ripreso. Boh, non so, ormai credo importi poco, è passato così tanto tempo. X°D Mi ha fatto un po’ d’impressione rileggerla, anche perché col senno di poi la trovo un po’ acerba in certi punti, ma che posso dire, avevo 16 anni, ero un po’ idiota e… boh, no, nulla, solo questo. Spero comunque che vi sia piaciuta.
Ps: se per caso vi fosse qualche folle che ancora attende il nuovo capitolo di After Crisis: Selfless, beh, sappiate che sta per arrivare. Spero. No, tranquilli, sta per arrivare e basta, conto di aggiornare per il 28 Luglio o comunque al massimo qualche giorno dopo. A presto, dunque!
   
 
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