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Autore: Arwis     04/02/2007    8 recensioni
Solo cento passi ti separavano dalla sua porta, eppure non hai mai avuto il coraggio di bussare...
Genere: Romantico, Triste, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Rieccomi qui...

Come al solito più mi riprometto di aggiornare in fretta, più sono sommersa

di cose da fare e meno tempo ho per scrivere...

Comunque alla fine eccomi qui con questo nuovo capitolo, l'ultimo dei flash back...

Grazie a tutti voi che leggete quello che scrivo!

E commentate, mi raccomando!


___Arwis___


*°*Artigli d'acciaio*°*



-Quanti?-

-Dodici.-

-E' la madre?-

-No.-

-Di chi sono figli?-

-Orfani.-


Lo scriba alzò gli occhi dal foglio e con due dita lunghe e ossute, quasi degli artigli, ti osservò da capo a piedi.

Vestita come una donna di paese, i capelli tirati su in una coda di cavallo e gli occhi di ghiaccio, sembravi un'accozzaglia di elementi nobili e plebei.


-Dodici orfani? Converrà con me che non è qualcosa che si vede ogni giorno.-

-Neanche le loro capacità lo sono.-

-Le ricordo, signora, che l'accademia dell'arma imperiale non è un colleggio dove lasciare pargoli scomodi.-

-E io ho l'ardire di insistere. - rispondesti allora tu, sorridendo acuta come una faina, addolcendo quegli occhi che avrebbero fatto cadere ai tuoi piedi tutti e tre i regni celati. - Sono sicura che accettando la loro iscrizione renderà un servigio non indifferente e Sua Maestà. -


Lo scriba si accomodò meglio sulla sedia e sistemò ancora una volta gli occhialini. Quasi un tic, osservasti.

Era nervoso. O eccitato. O entrambi.

Gli uomini in quello stato erano facili da piegare al proprio volere.


-Sa come funziona, qui?-

-So che addestrate combattenti per l'impero.-

-Sa che per i tre anni dell'addestramento i suoi...ragazzi non potranno mettere piede fuori di qui? E sa che non possono cambiare idea fino al giorno in cui verranno ricoperti delle loro cariche militari?-

-So che saranno in grado di sopportare l'allenamento meglio di chiunque altro.-


Lo scriba si schiarì di nuovo la gola e afferrò meglio la penna.

Tu non riuscisti a trattenerti dal sorridere ancora. Avevi vinto.

Avevi vinto, ma mai nessuna vittoria sarebbe parsa a qualcuno più penosa della tua.

Avevi vinto la possibilità di restare da sola, la possibilità di essere indipendente e di lasciarti alle spalle l'unico passato che davvero aveva significato qualcosa per te.

Sembrava quasi una maledizione.

Ogni volta che la felicità inondava il tuo cuore, eri costretta a dimenticare.

E non sapevi che sarebbe stato così tante, tante altre volte.


-Nomi, signorina!-


Ti riscuotesti dai tuoi pensieri e iniziasti ad elencare i nomi dei tuoi compagni. Dei tuoi fratelli. Dei tuoi figli.

Sembrava quasi un macabro appello, come quelli che facevano i giudici in piazza prima delle esecuzioni.

Ogni nome, sapevi, significava due cose. Un futuro per loro e il non rispettare la promessa fatta a Gudush.


La mattina dopo, i dodici ragazzi erano già davanti ai portoni dell'accademia.

Nessuno di loro, neanche uno, piangeva.

Ti fissavano con i loro occhi traditi, impauriti.

Pieni di risentimento per essere costretti ad affrontare un cambiamento inaspettato e soprattutto indesiderato.

Facesti finta di nulla, mentre sistemavi le sacche con i pochi averi di ognuno sulle loro spalle.

Li guardasti andare via, mentre nessuno di loro si voltava a salutarti per l'ultima volta.

Nessuno.

Tranne Eralo.

I suoi occhi baluginarono in un'espressione a metà tra la rabbia e il dolore.

Un'espressione piena di aspettative tradite, di promesse infrante.

Tienimi con te” chiedevano quegli occhi “Almeno io. Sai che sono abbastanza in gamba per stare con te, aiutarti. Tienimi con te”.

Tu però scacciasti quella voce dalla testa, mentre i portoni dell'accademia si chiudevano.

Il nome di Eralo era stato il primo che avevi dettato allo scriba dell'esercito.

Rigonfia della sensazione di sollievo di chi sa che ormai tutto è stato compiuto, volgesti le spalle al grande edificio, per tornare alla caverna. Per prendere le tue cose e per andare via di li.

Per andare a vivere in quella casa che avevi trovato, per vivere tranquilla, almeno durante il giorno.

Per essere, prima che il sole tramontasse, da quel momento in poi, non il sicario nero ma solo Rigel.


Ogni cosa, nella caverna, era al suo posto.

Era solo un po' più spoglia, un po' più silenziosa, ma tutto era come i ragazzi l'avevano lasciato.

Il giaciglio di Gudush era ancora lì, in un angolo. Ma lui non sarebbe mai tornato a riposarvi.

E neppure tu.

Poche cose, infilasti nella sacca. Un vestito normalissimo che, oltre a quello che avevi indosso, ti aveva donato il tuo maestro, qualche boccetta di veleno per armi e un paio di pugnali diversi.

Frecce, guanti e gli artigli di ferro, l'unica arma che non avevi ancora usato.

Osservandone il metallo lucido, ricordasti una cosa.

Gli abiti che indossavi quando eri arrivata, tanto tempo prima.

Dove erano? Dove li aveva nascosti Gudush?

Si trattava di rivedere solo una volta degli oggetti appartenenti a due vite prima.

L'istinto ti portò all'angolo dove erano le cose di Gudush.

Nulla.

Sollevasti la paglia del materasso e un paio di insetti-forbice sgusciarono via, inaspriti da quell'affronto alla loro tranquillità.

Sotto quel mucchio di paglia marcia, c'era un'asse mobile, inserita nella pietra.

La sollevasti.

Come credevi, sotto c'era un sacco nero.

Era pesante e freddo.

Lo uscisti dal suo giaciglio e lo apristi.

Il metallo degli elfi rilucette ancora una volta, colpendo occhi e anima.

I ricordi si riversarono nella tua mente, amari, antichi.

Erano così diversi, i tuoi desideri, all'epoca.

Erano così diversi da essere quasi irriconoscibili.

Prendesti l'armatura e uscisti dalla caverna grande, coprendone l'entrata con una pietra pesante, sfinendoti per farla rotolare da un'angolo fino a li.

Della casa degli allievi di Gudush non sarebbe rimasta che la piccola caverna che faceva da entrata, nascosta dalle edere.

Abbandonasti in un angolo l'armatura e uscisti, sicura che quelle erbe che coprivano l'ingresso, ti avrebbero accolta ogni volta che ne avresti avuto bisogno, come le braccia di una madre.

Sentivi il cuore stranamente leggero.

La tua vita era quasi distrutta, non ti era rimasto nulla.

Tuttavia avevi il cuore leggero, mentre ti avviavi verso la tua nuova casa, in periferia della città ma sempre più centrale della caverna.

Quella casa che avevi preso in affitto da quella vecchia signora del mercato.

Quella casa piena di muffe, piccola, che cadeva a pezzi, che contrastava terribilmente con le ville dei governanti che abitavano lì intorno.

Quando apristi la porta, quell'odore di muffa e di chiuso ti parve aria fresca e corresti a spalancare anche la finestra, perchè entrasse la luce.

Se ti alzavi sulle punte dei piedi, potevi vedere anche la casa di Marfik. A soli cento passi.

Cosa avrebbe detto, Gudush?

Che lui era morto e tu avevi già dimenticato il dolore?

Che ti comportavi non come una professionista ma come una ragazzina innamorata?

Che eri un'egoista, dimentica delle tue radici?

Tuttavia il dolore non era stato dimenticato, giaceva lì in un angolo, pronto ad esplodere appena possibile.

Forse avrebbe solo sorriso, scuotendo la testa in segno di disapprovazione, lasciandoti libera di fare ciò che credevi meglio per te.


-E lei qui che ci fa, signorina? Questa casa è abbandonata da tempo e non è certo il posto adatto ad una come lei. -


Trasalisti, udendo quella voce, e ti voltasti di scatto.

Era tutto così prevedibile, ormai... Tu eri diventata prevedibile, la tua vita era diventata prevedibile ed era prevedibile che lui sarebbe arrivato.

Eri così in gamba a far arrivare anonime informazioni a chi intendevi... non per nulla sei il sicario nero.


-No, Signore. Cosa ci fa lei se permette. Questa da oggi è la mia casa. -

-Potrebbe permettersi di meglio, sa?-

-Le altre zone della città non sono di mio interesse.-

-E cosa la porta ad essere interessata proprio a questa zona, Signora?-


Marfik era anche acuto, a quanto pareva. O forse dimenticava che anche se in quel momento eri solo una bella donna, poche ore dopo i vestiti di pelle da lavoro avrebbero fasciato stretto il tuo seno e ti avrebbero trasformata in una macchina da omicidio?


-Si vede bene la città, da qui. -


Marfik si era avvicinato e si era poggiato alla finestra, accanto a te.


-Posso invitarla da me, questa sera?-


Tu scoppiasti a ridere e lui alzò un sopracciglio.

La tua risata era cristallina e pura come quella degli elfi, eppure forte come quella del più rozzo degli uomini.

Asciugasti due lacrime dagli angoli degli occhi, e recuperato un po' di contegno fissasti lo sguardo beffardo nel suo.


-Stasera ho dei lavori da sbrigare, sa?-

-E che razza di lavori sono più importanti di una cena di lavoro con il consigliere Marfik?-

-Quei lavori che il consigliere Marfik stesso mi ha affidato.-

-E allora esegua quei lavori e poi venga da me per il pagamento.-

-Odorerò di sangue e la pelle nera stringerà stretti i miei muscoli, fino a farmi sembrare un'ombra.-

-Non serve essere belle, per ritirare un pagamento.-

-allora, Signore, a stanotte.-


Marfik sorrise e mise due dita davanti alle sue labbra, per poi poggiarle sulle tue.

Si riavvolse nel mantello e uscì dalla camera.

Tu chiudesti la porta dietro la sua schiena e iniziasti a disporre tutte le armi sul tavolo al centro della piccola sala.

Se il consigliere sperava in uno sconto, sbagliava di grosso.


Poche ore dopo infilasti i pantaloni di pelle e li allacciasti stretti sui fianchi.

Infilasti il corpetto nero con gli inserti di acciaio in corrispondenza degli organi vitali e stringesti forte anche quello, fino a che non diventò lui stesso parte del tuo corpo.

Legasti due maniche svasate alle spalline e infilasti in testa la ladresca.

Poi prendesti in mano le srmi che avresti usato.

Il veleno nelle logge del cinturone, un paio di coltelli e alle dita gli artigli di acciaio.

L'unica arma di cui ancora non avevai avuto esperienza.

Era il primo lavoro da quando Gudush era morto.

Lo avresti onorato con un'esecuzione perfetta.

Come una danzatrice.

La vittima non soffrì neppure. Due artigli si infilarono nel suo cuore e due fiotti di sangue bagnarono le coperte.

Estraesti il metallo dal suo corpo e, come facevi sempre, pulisti le armi sulle coperte.

Tu uccidevi nel sonno, come la morte che scende dal cielo. Eppure sapevi anche combattere, come la morte portata dagli uomini.

La morte e tu, Rigel, siete molto simili. Non dimenticarlo mai. Mai.

Era ora di riscuotere il tuo pagamento.

Con un balzo uscisti dalla finestra e corresti più veloce che potevi, mischiandoti alle ombre delle case e volando sui tetti come una nuvola che porta tempesta, non rompendo neppure, con l'ombra del tuo corpo, l'armonia della luce della luna.

Arrivasti finalmente davanti alla casa di Marfik.

I muri erano candidi e la finestra della sua stanza, a cui avevi rivolto più volte lo sguardo passandovi vicino, era spalancata, con le tende fruscianti che, sospinte dal vento, ti invitavano ad entrare.

Lui ti stava aspettando.

Eppure tu fosti silenziosa perchè, quando ti vide stagliata contro il cielo sulla balaustra del balcone, Marfik trasalì.

Sorridesti a quella sue espressione sorpresa ed entrasti nel buio della sua stanza.


-Hai compiuto il lavoro?-


Mostrasti gli artigli ancora leggermente sporchi di sangue.


-Ti avevo detto che sarei stata intrisa dell'odore del sangue, quando sarei arrivata.-


Marfik annuì e si avvicinò a te. Fece qualcosa che non ti saresti mai aspettata. Ti abbracciò e fece in modo che tu potessi affondare la tua testa nel suo petto.


-Cosa ti ho fatto fare? Sapevo che eri la migliore, ma in fondo sei solo una ragazza...una donna...hai avuto paura?-


Ti divincolasti.


-Tu hai paura quando parli alle masse? No, è il tuo lavoro. Così io non ho bisogno di pietà, per il mio.-

-Sei così decisa... Ma qual'è il tuo vero nome?-


Tentennasti.

Il nome è qualcosa di privato, che un assassino non rivela mani...eppure l'ora del lavoro era trascorsa. Ora eri solo una donna.


-Rigel. Mi chiamo Rigel.-


E quel nome era un assenso, e lui ti liberò dei tuoi abiti di pelle che opprimevano la donna che eri.

Tu non avevi mai saputo che sapore aveva un bacio e ti parve il sapore più dolce che mai avessi assaggiato, più dolce dei cibi degli elfi, più dolce dell'acqua per chi è perso nel deserto.

Tra quelle coperte morbide, fosti solo Rigel e non il sicario nero.

In quel momento l'assassino era lui che, lentamente, ti stava uccidendo.

Ti stava uccidendo perchè era già promesso a una donna e tu lo sapevi bene.

E quella donna, era la figlia dell'imperatore.


La mattina dopo, quando il sole sorse, non avevi voglia di ri-indossare i tuoi abiti.

Lui dormiva ancora accanto a te e tu, controvoglia, infilasti quei vestiti neri che quasi stavi odiando, ripromettendoti di tenerti lontana da lui, ora che sapevi quanto poteva essere pericoloso.

Lontana, almeno di cento passi.

  
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