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Autore: sleepingwithghosts    20/07/2012    3 recensioni
Avevo voglia di fumare. Non avevo voglia di alzarmi.
Sospirai, e chiudendo gli occhi sentii i passi delicati di mamma avvicinarsi, il suo bacio umido sulla fronte, le sue mani sulle mie costole, il peso del lenzuolo e di una coperta a schiacciarmi sul materasso, la porta chiudersi.
Ero sola, di nuovo, con la mia pelle sottile, una voglia di nicotina indescrivibile e tanto freddo, persino dentro il cervello svuotato dall’alcol. Attorno e dentro me freddo, solo tanto freddo.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Your heart is an empty room.

 

 

Trattenendo il respiro, mi alzai velocemente dal letto bloccando qualsiasi urlo volesse uscirmi dalla bocca per il dolore intenso che quel minimo movimento mi aveva provocato. Le gambe, comunque, non ressero il mio peso facendomi cadere sul pavimento. Boccheggiai, e un lamento scappò più forte del previsto dalle labbra.

Dovevo rimanere in silenzio, non si sarebbe dovuto muovere un granello di polvere. Dovevo rimanere immobile nel mio dolore. Zitta, immobile, una statua.

Lentamente appoggiai la tempia destra al pavimento, e chiusi gli occhi mordendomi il labbro inferiore come sempre, rannicchiandomi su me stessa come sempre.

La cosa che mi mancava di più al mondo, a pensarci bene, era un abbraccio. Non ricordavo nemmeno l’ultima volta che qualcuno mi aveva stretto facendomi pensare che mi volesse bene. Solitamente, quindi, avevo l’abitudine di abbracciarmi da sola. Incrociavo le braccia al petto, e stringevo forte finchè la sensazione di benessere scompariva, poi mi voltavo spostandomi dall’altra parte del letto, e cercavo di dormire quelle quattro ore sufficienti a non farmi addormentare sul banco di scuola il giorno dopo.

A volte lo facevo anche mentre camminavo in mezzo alla gente. Così, dopo una folata d’aria fredda, dopo essere inciampata su una buca poco profonda che non avevo notato, guardando l’acqua scura del fiume scorrermi sotto i piedi, mi abbracciavo per sentirmi meno sola, più protetta. Per tornare piccola e pensare che il sole era una palla gialla che potevo disegnare con gli occhi tondi e neri perché a papà facevano sorridere, o perché potevo ricordare quando il mio vicino di casa quel giorno si era presentato in camera mia mentre mi stavo sporcando la faccia con i trucchi di mamma e mi aveva baciato la guancia perché era innamorato di me.

Ora non potevo nemmeno abbracciarmi, o mi sarei fatta ancora più male.

Avevo una voglia incredibile di urlare fino a dovermi fermare per riprendere fiato. Avevo voglia di tirare le freccette al muro perché comunque non sarei mai riuscita a lanciarle nel centro esatto del cerchio. Avevo voglia di avvicinarmi alla radio e mettere la stazione in cui passavano la canzone più brutta che avessi mai sentito, alzare il volume al massimo e ballare anche se non ero proprio mai stata brava, a ballare. Avevo voglia di mettermi un paio di calze e guardarmi allo specchio senza farmi ribrezzo da sola. Avevo anche voglia di fare l’amore con qualcuno che mi amava, perché io quella sensazione non l’avevo mai provata, anche se come voleva lui ero diventata la regina di quel gioco.

Era stato facile imparare le mosse, come nel gioco degli scacchi. Ma qui era tutto più veloce, doloroso, piacevole, distruttivo. Avevo imparato in fretta a stare zitta mentre lui mi stendeva sul letto di mia madre, mentre mi toglieva i vestiti che mia madre lavava ogni giorno, mentre mi spostava i capelli perché “hai gli occhi di tua mamma e voglio vederli mentre giochiamo”, mentre mi tappava la bocca quando, inevitabilemente, gridavo. Avevo imparato in fretta a raccogliere i vestiti dal suo comodino, appallotolarli, gettarli fra i panni sporchi, e lavare via con il bagnoschiuma alla vaniglia qualsiasi traccia di lui su di me.

Ripetevo lo stesso rituale ogni volta che accadeva, come quando impari una poesia a memoria e senza volerlo, quando ti svegli la mattina sei lì che ne ripeti le parole mentalmente.

Sospirai e mi misi a sedere. Chissà dov’era Seth, avrei dovuto aspettare il suo ritorno per riuscire a tornare fra le coperte del suo letto.

Non sapevo che ore erano, le tende facevano entrare poca luce che non avrei saputo dire se erano raggi di sole o la luce pallida della luna. Non sapevo quanto tempo avevo dormito, se Seth era andato a scuola essendo sicuro che mi sarei svegliata quando ormai lui era rientrato, o se sapeva che mi sarei svegliata e se ne fosse andato via comunque perché avermi prestato il suo letto era tutto quello che poteva fare per me. Non sapevo quanto sarei potuta rimanere da lui, se i suoi genitori mi avrebbero buttato fuori da casa loro e dove sarei andata dopo. Non sapevo se sarei mai guarita da quelle brutte ferite e se prima o poi avrei potuto mettere qualcosa sotto i denti, qualcosa che assomigliava a cibo delizioso come una pizza.

Non seppi proprio niente fino a quando Seth non apparse nella mia visuale con un vassoio in mano e due occhiaie da far invidia a un panda. Esitò dieci secondi guardandosi attorno. «Che cosa ci fai lì per terra?».

«Sono caduta», risposi con voce roca. Mi sentivo abbastanza stupida, in effetti.

«Come hai fatto a cadere?».

Gli lanciai un’occhiataccia. «Ti prego non chiedermelo».

Seth ridacchiò e si sedette affianco a me mettendomi il vassoio con il cibo sulle gambe. «Non pensavo ti saresti svegliata proprio adesso, ma avevo fame. Scusa».

Non capivo. «Per cosa ti scusi?».

«Quando ti sei svegliata non c’ero, hai cercato di alzarti ma sei caduta. Avrei dovuto aiutarti io a scendere dal letto, scusa».

Addentai il panino. «Non è colpa tua se le mie gambe sono ridotte in queste condizioni, non devi scusarti. E il panino è buono, grazie».

Rimase in silenzio mentre mangiavo guardando davanti a sé, poi si voltò verso di me. «Vorrei spaccare la faccia a quel bastardo che ti ha ridotto così», disse con un tono aggressivo che non si adiceva per niente al suo viso d’angelo.

«Non farlo».

Sbuffò. «Non posso farlo fino a che non mi dici chi è».

«Non te lo dirò mai, allora, discorso chiuso».

«Chiunque sia stato ti ha quasi ucciso Evie, vorrai vendicarti almeno un po’».

Lo guardai e gli appoggiai una mano sulla guancia, poi sorrisi. «Lascia perdere, per favore Seth».

«Mi fa schifo vederti così».

Mi sentii come se fossi stata trafitta. Come ero stupida a pensare di piacere a quel ragazzo, quanto ero stupida. Abbassai la mano e la incrociai in grembo con l’altra, posandoci lo sguardo sopra. In tutti quegli anni non avevo imparato ancora che per me c’erano solo male e dolore? Evidentemente la speranza è davvero l’ultima a morire.

Sentii una sua mano prendermi il viso e farmi voltare verso di lui. «Sai che non era quello che intendevo dire». Rimasi lì a guardarlo, ancora una volta non sapendo che cosa dire. «Sei letteralmente distrutta, ti hanno picchiato a sangue. E va bene se non vuoi dirmi chi è stato, va bene se non vuoi dirmi perché l’hanno fatto, ma ti prego, dimmi qualcosa perché vederti così mi sta torturando».

Sorrisi, circa. «Non è niente che si possa risolvere, è così e basta. Questi lividi passeranno, e se non passeranno andrò dal medico, dirò che sono caduta dal motorino di un mio amico. Ma poi starò bene, quindi non ti preoccupare, starò bene».

Seth si alzò in piedi e strinse i pugni. Non lo avevo mai visto con un’espressione così cattiva in volto. «Non starai mai bene, lo capisci? Non so quale sia la tua storia, a quanto pare non ti fidi abbastanza di me per raccontarmela. Non so perché fumi, bevi, ti droghi, perché sei ridotta in questo modo, ma se la tua vita non cambia tu non starai mai bene. Devi fare qualcosa, e devi farlo tu».

«Sono stanca di lottare, ci ho provato per troppo tempo perdendo tutte le battaglie. Sono stanca, stanca che non ti immagini. E hai ragione, non starò mai bene, ma io non voglio più far niente. Sto quasi bene quando sto male, perché mi sento normale. Vivo nel dolore, mi sento a mio agio nel dolore. Sono dolore».

«Tu sei bellissima, mettitelo in testa. Non c’è niente di sbagliato in te».

Mi portai le mani alla testa: stavo impazzendo. Doveva starsene zitto. «Smettila, ti prego».

«No».

«No cosa? È la mia vita, smettila».

«Devi darmi la possibilità di aiutarti».

«Non voglio essere aiutata».

«Quando ieri sei arrivata davanti alla mia porta, mi sembra avessi bisogno di aiuto, mi sbaglio?».

Sbuffai. «Vaffanculo Seth». Quello sarebbe stato il momento in cui mi sarei alzata e me ne sarei andata dalla sua stanza imbronciata e con le palle girate, e invece non potevo muovermi, inchiudata al pavimento com’ero a causa di quei maledetti dolori ovunque.

«Parlami», disse guardandomi, scrutandomi dentro. Non potevo parlare, sarebbe cambiato tutto, sarei crollata e non potevo. Dovevo rimanere me stessa. «Parlami, perché io ci tengo a te e non sopporto di vederti in questo stato». Zitta, rimani zitta Evie. «Lo ammazzerei di botte. Non è umano fare una cosa del genere a una ragazza».

Ha detto che ci tiene a te. – urlai mentalmente un ‘taci’ alla vocina nella mia testa.

La sua faccia, repentinamente, diventò pallida, come se avesse visto un fantasma, o un cadavere aprire gli occhi. Non ne capivo il motivo, non avevo parlato, nessuno aveva parlato dopo di lui, ne si era mosso. Niente era apparentemente cambiato. «Che cosa succede?», chiesi allarmata e curiosa.

Seth cercò di emettere un suono, ma non uscì nulla dalla sua bocca. Chiuse gli occhi e prese un respiro profondo. Poi li riaprì. Gli era appena saltato in mente qualcosa, ne ero certa. Qualcosa di brutto, che non riusciva a tollerare. Non riuscivo a capire che cosa, in ogni caso. Non leggi ancora nella mente, scema, disse la mia amica. Appuntai mentalmente di murarla viva da qualche parte, in modo da non doverla più sentire.

Poi, finalmente, parlò. «Ti ha stuprata, non è vero?».

Lo guardai negli occhi, la faccia impassibile. Poi, improvvisamente, urlai. Urlai con tutto il fiato che avevo in corpo, ignorando il dolore impossibile da sopportare alle costole, alla pancia, alla gola, ai polmoni. Urlai, forte. Un urlo lungo, senza senso, prolungato, stanco.

Non stavo lottando, non mi stavo risvegliando, non stavo bene ora che ero riuscita a emetterlo. Era un urlo di dolore, dolore fisico, psicologico. Era il mio ritratto fatto a suono. Era un urlo che chiedeva aiuto anche se fino a cinque minuti prima sostenevo che di aiuto non ne volevo. Era un urlo che sostituiva tutti gli urli che non avevo mai emesso perché la sua mano mi tappava la bocca. Un urlo che sembrava una morte, non una rinascita.

Ero io espulsa da me stessa, troppo stanca per continuare a mantenere il segreto. Troppo stanca per non fare qualsiasi cosa se non guardare gli occhi di Seth e sputare fuori tutta la verità. «Mio padre abusa di me da quando avevo dieci anni, ecco qual è la mia storia». Lo ansimai. Ansimai il riassunto della mia storia in modo triste. Mi ero arresa da tanto tempo, stavo male da tanto tempo. Non ero più me stessa, in realtà non ero più nulla. Mi ero annullata, mi aveva annullata.

Non uscirono lacrime, neanche una quando pronunciai quelle parole. Non sentivo niente se non i nostri respiri, a dirla tutta. Il mio accelerato dopo l’urlo, il suo pesante, incredulo.

Seth si portò una mano alla bocca, e dalla mia, invece, uscì una risata isterica. Stavo impazzendo, e non c’era una cura per tutto quello che avevo passato. Non ci sarebbe mai stata una cura alla mia triste, inutile, stanca esistenza. L’avrei ricordato per tutta la mia misera viva, e niente, nessuna cosa bella l’avrebbe mai cancellato. Niente e nessuno.

Risi, la gola mi face male per ore dopo quella risata che si traformò lentamente in un lamento, un pianto senza lacrime, in qualcosa che la mia mente chiamò disperazione. Ero disperata. Ero disperazione concentrata.

Lui rimase fermo a guardarmi per un tempo indicibile, a elaborare quello che avevo appena detto, e quando si risvegliò dal trance fece qualcosa che sembrava un sorriso. Un sorriso cattivo «Lo ammazzo».

Rimasi immobile, un po’ perché avrei tanto voluto che lo facesse, un po’ perché sapevo che stavo morendo dalla paura. Non conoscevo la persona davanti a me, mi spaventava. Allungai un braccio, sospirando per il dolore, e rimasi in attesa. Lui mi guardava, continuava a guardarmi gli occhi, a vederci il mio male. Continuava a farlo e io lo lasciavo fare, perché doveva capire che l’unica cosa che volevo era che se ne stesse con quei pantaloni del pigiamacalati sui fianchi alla perfezione, che mi sorridesse, uno dei suoi sorrisi gentili e che mi mentisse spudoratamente dicendomi che quella sera saremmo andati a mangiare un dolce alla panna. Volevo che capisse che a me piaceva il Seth buono, perché nella mia vita non c’era mai stato nessuno buono con me. Ne mio padre, ne quei ragazzi che mi scopavano in un cesso, neppure mia madre, che se mi voleva bene era solo perché io gli servivo.

Volevo che capisse, e non so se lo fece, sicuramente non del dolce alla panna, ma mi si avvicinò lentamente e dopo avermi presa in braccio come si fa con un bambino che si è addormentato in macchina al ritorno di un lungo viaggio, mi riposò fra le coperte del suo letto.

Mi spostò i capelli con una mano, posandola poi sulla mia guancia. «Dimmi che cosa devo fare».

«Puoi rimanere con me se vuoi».

Mi strofinò il labbro inferiore con il pollice. «Non riesco a resisterti».

«Innamorati di me. Fammi sentire che cosa si prova a essere amati, cosa vuol dire camminare per strada tenendosi per mano, trascorrere una giornata a giocare a scarabeo invece di andare a scuola, andare al mare senza costume e fare il bagno nudi, bere un frappè con la stessa cannuccia».

Mi guardò come solo Seth mi guardava, con quel misto di pena, odio, frustrazione e forse anche amore. «Ho promesso che non mi sarei innamorato di te».

Sorrisi, sorrisi davvero dopo due giorni, ignorando il male alle guance. «Meno male. Ora però resta con me».

 

 

 

Vorrei solo scusarmi con voi perché sono mesi che non aggiorno, e con molta probabilità a causa di ciò nessuno leggerà questo capitolo, ma non importa. Fatevi sentire, se vi va. Aloah, spledide personcine **

  
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