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Autore: Ryo13    23/07/2012    7 recensioni
Erin Knight ha un solo obiettivo nella sua vita: da quando ha perso lo zio Klaus, ucciso dall'uomo che amava, non vive che per trovare colui il quale possiede il potere complementare al suo, ovvero quello di manovrare il tempo. Tuttavia la sua missione è ostacolata da Samuel Lex — adesso capo dei ribelli e conosciuto col nome di 'Falco' — e dai capi dell'esercito reale che la osteggiano, minacciando la sua carica di Luogotenente. Unica donna in un mondo di uomini e senza alleati, sarà costretta a forgiare nuove alleanze in luoghi inaspettati...
❈❈❈Storia in revisione ❈❈❈
Genere: Azione, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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NOTE:
Ciao a tutti! Eccomi qui, in ritardo ma viva!
❀ 
Purtroppo ho avuto una settimana impegnatissima con un lavoretto e non ho avuto molto tempo per scrivere. In compenso, eccovi pronto un capitolo che, spero, troverete emozionante! ❀ Sapevate già che è arrivato il momento per Erin di conoscere il famigerato Cavaliere e quindi ecco a voi il loro primo incontro. Per farmi perdonare (ma anche perché la storia lo richiedeva *w* ) questo è un capitolo molto più lungo di quelli precedenti ❀ 
Non pensavo di prendere tanto spazio, ma è successo U.U e spero che per tutti sia motivo di gioia anziché di noia eheh  
Ringrazio tutte le persone che commentano, in particolare, in questo spazio, Bullet che si è aggiunta da poco a questo gruppo di persone e che ha commentato tutti i capitoli fin ora usciti. Spero che trovi anche questo bello e stimolante! ❀ 
Grazie inoltre a Aelle Amazon , chemondosarebbesenzanutella e Artemis Black e a tutti coloro che seguono la storia!
Baci, Rita 





Capitolo 07 - Chevalier

 

Un colpo alla porta mi fece sobbalzare e quasi cadere dal letto. «Svegliati, Violet!» 

Osservai l'ambiente, leggermente disorientata, prima di ricordare quello che era successo il giorno prima. 

La voce insistente di Calis mi ricordò di rispondere. «Allora, ragazzina, ti svegli? Guarda che butto giù la porta», minacciò.

«Provaci e sei un uomo morto, Cal!», gracchiai, schiarendomi la gola.

Mi misi seduta afferrando i vestiti ammucchiati sulla poltrona e mi preparai in tutta fretta. 

«Finalmente! Che dormigliona che sei... Vieni con me, ti laverai la faccia e poi potremmo fare colazione.»

«Che ore sono?»

«Le otto.»

Lo seguii lungo il breve corridoio e poi fuori, dove erano state sistemate delle bacinelle piene d’acqua.

«Ecco, puoi usare quella laggiù», disse indicando quella a sinistra. L’acqua fresca mi diede la forza di mettere in moto il cervello, schiarendomi le idee.

«Perché le bacinelle sono qua fuori?»

«Vasil non le vuole dentro. Dice che fanno bagnato per terra.»

Scoppiai a ridere figurandomi quell’uomo enorme alle prese con una piccola bacinella: non doveva essere capace di usarne una senza combinare un disastro attorno. 

Quando tornammo dentro, trovai il tavolo della cucina ricolmo di ogni prelibatezza.

«Non pensavo ve la passaste così bene al mattino. Avete vivande degne della colazione di un re», mi complimentai.

«Sappiamo come trattare i nostri ospiti d’onore, Violet.»

Ringraziai prendendo posto sulla prima sedia, indecisa da dove cominciare. La frutta era fresca e di aspetto invitante: presi una pesca, godendo del suo succo dolce.

Non ci furono chiacchiere, consumammo con appetito tutto quello che ci capitava a tiro. Solo quando ci raggiunse Vasil, vestito con un ricco abito di seta di colore blu scuro, decisi di aprire di nuovo bocca… per parlare.

«Come mai così elegante? Vai da qualche parte?»

L’espressione astiosa non mi sorprese particolarmente: al mattino era sempre intrattabile; o meglio, più intrattabile che nel resto della giornata.

«Abbiamo il colloquio con Stenton. Te ne sei già dimenticata?!», sbraitò spazientito.

«No che non l’ho dimenticato, ma lui ne è già stato informato?»

«Certo. Ho mandato un valletto questa mattina presto. Ha accettato di riceverci. Anzi, ci aspetta tra meno di un’ora, quindi sarà meglio che ti sbrighi.»

«Ci aspetta? Tu vieni con me?», chiesi sorpresa.

«Anche Calis, se è per questo. Perché? C’è qualcosa che non va?»

Agitai le mani confusamente, mettendo un ordine alle idee. «Pensavo dovessimo tenere nascosto il collegamento tra di noi, Vasil. Se mi accompagni al colloquio e poi successivamente dovessi sfidarlo per il suo Campione, non capirà tutto?»

«Credevo che questo non fosse un problema per te! Hai detto che tanto non avrebbe potuto tirarsi indietro in ogni caso.»

«L’ho detto, è vero, ma non sarebbe comunque prudente farci vedere insieme. Se non gli forniamo troppi indizi, si dibatterà nel dubbio che si tratti solo di un caso, prima di capire che lo abbiamo raggirato. Così temo che possa prendere misure preventive: una cosa è che un tizio qualunque tenti di comprare il suo Campione, un’altra pensare che sia il suo rivale a volerlo acquistare.»

«Hai ragione», ammise di malavoglia dopo qualche attimo di riflessione. «Ora come facciamo? Ho mandato un valletto a mio nome, ormai si aspetterà che sia io a presentarmi all’incontro.»

Forse non era impossibile trovare una soluzione.

«Diremo che sono una tua conoscenza e che ti ho chiesto aiuto per ottenere un colloquio privato. Lasceremo intendere che tu non conosca le mie intenzioni ma ti sei solo offerto di fare da tramite.»

Con un borbottio esasperato si disse d’accordo. Era evidente che avrebbe preferito partecipare più attivamente.

Quando ci alzammo da tavola, Vasil mi fermò arpionandomi per un braccio. «Non è il caso che tu vada conciata così», sbottò.

«Perché? Cos’ho che non va?»

Guardando i miei vestiti li trovai normali e anonimi: non indossavo nulla che potesse farmi riconoscere.

«Stenton è un avido, cerimonioso bastardo. Se non trasudi ricchezza sarà impossibile convincerlo a venderti il Cavaliere», spiegò. «Tratta tutti come se fossero degli imbroglioni e non si fida della parola, né tantomeno dell’onore di nessuno. Perciò se non fai mostra che sei in grado di pagare non ti prenderà sul serio.»

Archiviai nella mente quella preziosa informazione. Il vecchio mi scortò nelle camere da letto dove aveva fatto preparare una ricca veste di seta color oro, perfetta per il mio incarnato abbronzato.

«È bellissima. Dove l’hai trovata?», chiesi esaminando ammirata il taglio del vestito che era tutto sommato semplice.

«Apparteneva a Magnolia. Era uno dei suoi abiti da cerimonia, lo indossava per le occasioni speciali.»

«Mi fai onore permettendomi di indossarlo», gli dissi sopportando il peso del suo sguardo.

Vasil alzò le mani, cancellando le mie parole, e non si prese nemmeno la briga di rispondere, come se il suo gesto non avesse poi grande importanza. Ma non era così: doveva essere difficile usare le cose che erano appartenute alla moglie. Dopotutto, l’aveva amata infinitamente. Solo con lei i suoi modi burberi cadevano e, raramente, avevo potuto scorgere, in sua presenza, un uomo del tutto diverso dall’apparenza. Dopo la sua dipartita era diventato perennemente scontroso, meno disposto allo scherzo.

Ringraziai Vasil, il quale abbandonò presto la stanza, e procedetti a cambiarmi con l’aiuto di un’ancella, la quale si occupò anche di sistemarmi i capelli, intrecciandoli e raccogliendoli sul capo.

Quando tutto fu pronto, mi incamminai sulla strada, scortata dal messaggero di Vasil.

ꕥꕥꕥ

 

Anche se l’arena del Surdesangr sorgeva in una zona pericolosa e limitrofa, i Signori del Sangue alloggiavano nei pressi. Qui i controlli, sporadici, erano sufficienti a mantenere un certo grado di controllo.

Arrivammo alle porte di un’imponente residenza costruita in pietra e marmo, molto sfarzosa in contrasto con lo squallore circostante: del resto i Signori del Sangue erano tra i pochi che fossero abbastanza ricchi da mantenere un tenore di vita così alto. Vasil era l’unico a possedere una residenza modesta: anche nei tempi d’oro aveva sempre avuto gusti semplici e spartani.

Fummo ricevuti da un servitore il quale annunciò la nostra visita facendoci accomodare in una sala che sembrava fatta apposta per incontri ufficiali. Nel fondo vi era una sorta di scranno in pietra lavorata sorretta da statue di grottesche figure di animali; al centro stava un tavolo rettangolare con lunghe sedie di legno pregiato e sul lato spiccava un grande camino, perfetto per le stagioni più rigide.

L’ingresso del nostro ospite venne annunciato una decina di minuti più tardi dallo stesso servitore che ci aveva scortati.

«Il Signore del Sangue dell’arena del Surdesangr, Stenton Faredon, è lieto di accogliervi, signora.» 

Con un movimento studiato della mano, si spostò lateralmente lasciandomi scorgere la figura alta e scarna di Stenton che avanzava come un re. Aveva occhi piccoli e calcolatori, freddi, di un color tortora spento; il naso aquilino penzolava affilato sulla bocca tirata in una linea dura e sdegnosa. Gli zigomi, prominenti, spiccavano sul volto scheletrico, al punto da dubitare che egli avesse di che nutrirsi a dispetto del fasto esibito: o non mangiava per evitare inutili sperperi, oppure semplicemente il cibo non era di suo gradimento. A ogni modo, quale che fosse la ragione per il suo aspetto malsano e nervoso, risposi prontamente ai suoi saluti.

«Salve a voi, Faredon. Sono venuta per proporvi un accordo, come vi avranno certamente detto. Vasil e io ci conosciamo da molto tempo e mi ha usato la cortesia di predisporre questo incontro a suo nome: affinché accondiscendeste a prestare ascolto alle mie parole.»

«Dunque sarebbe per questo motivo che stamane l’incontro è stato chiesto dal suo valletto?»

«Esatto, signore.»

«Ma egli non vi ha accompagnata», puntualizzò seccato.

«Non occorrerà la sua presenza per la trattativa che intendo proporvi.»

«Trattativa?», ripeté soppesando il termine, come sospettando un intrigo. «E di che si tratta precisamente?»

Sorrisi con sicurezza. «Non volete invitarmi a sedere prima?»

La sua espressione, già arcigna, si incupì ancora di più.

Seguì un lungo attimo di silenzio durante il quale mi studiò con insistenza, forse aspettando che confessassi che avevo intenzione di derubarlo – se di tempo o di denaro, non doveva fare per lui una grande differenza.

«Certo, perché non accomodarci?» disse infine, muovendosi verso il tavolo. 

Si avvicinò alla prima sedia scostandola: mi ci adagiai elegantemente attendendo che prendesse posto di fronte a me. 

Con un cenno della mano, congedò il proprio servitore e quello di Vasil.

«Allora, signora…»

«Knight», lo soccorsi.

«…Knight. Parlavate di una proposta. Sono disposto ad ascoltarvi dal momento che siete ricorsa all’aiuto del vecchio Vasil per introdurvi alla mia presenza», continuò con aria poco indulgente. «Ma ho altri impegni che mi attengono, non perdiamo altro tempo in chiacchiere, se non vi dispiace.»

«Non vi ruberò più del tempo necessario, signore, credetemi. Sono qui perché voglio acquistare il vostro Campione, il famoso Cavaliere.»

Le mie parole, dirette e concise, lo fecero sussultare e sgranare gli occhi. 

L’accenno alla sua più consistente attuale fonte di guadagno lo aveva messo immediatamente sulla difensiva eppure, al contempo, pareva averlo divertito.

«Voi vorreste comprare il Cavaliere?» ripeté divertito. «E cosa se ne farebbe di lui una signora, di grazia?» Poi, come a ripensarci, agitò la mano nervosamente, cancellando l’ultima domanda. «Lasciate perdere, non importa. Evitiamo di indugiare oltre: è evidente che non comprendete il valore che riveste per me il suddetto Campione. E dubito, in ogni caso, che disponiate di abbastanza denaro da indurmi in tentazione. Ora, se non vi dispiace, ho altro da fare.»

Fece per alzarsi ma non glielo permisi.

«E io dubito, signor Faredon, che voi possiate anche solo immaginare di quanto denaro disponga. Non volete nemmeno sentire quello che ho da dire?»

Forse fu l’accenno alla presunta ricchezza, forse la mia aria arrogante, ma mi restituì uno sguardo perplesso.

«Di quanto si parla, esattamente?»

«State forse ammettendo che con la somma adeguata sareste disposto a cederlo?» approfittai della breccia.

«Diciamo solo che... il denaro canta e gli uomini muoiono, se questo risponde alla vostra domanda.»

Gli rivolsi un sorriso compiaciuto.

«Ma anche quell’uomo è denaro, al momento, e non voglio perderlo per una somma che potrei guadagnare facilmente tramite le scommesse.»

Tentai di valutare se la resistenza che opponeva fosse solo formale, per prepararmi a una richiesta di denaro esorbitante.

«Eppure, tra soli altri tre anni il vostro Campione otterrà l’affrancamento. Non vi converrebbe darlo via, guadagnando il più possibile prima che scada quel tempo? Anche se ammetto che ha ottime capacità, c’è sempre l’alto tasso di mortalità delle arene da considerare: sarebbe prudente correre ai ripari finché possibile, no?»

«Non avete tutti i torti», replicò poco convinto.

«Esatto. Nell’uno o nell’altro caso, che muoia o che si affranchi allo scadere dei cinque anni, vi servirà a ben poco tenerlo al vostro servizio.»

«E voi? Quanto siete disposta a pagare per averlo?»

«Cinquanta monete d’oro» risposi. Tacqui lasciando che il desiderio di denaro facesse presa in lui.

«Sono molte per un solo uomo.»

«È il prezzo che sono disposta a pagare.»

«E dove si trova questo denaro?»

Sorrisi sarcasticamente. «Sarei sciocca a rivelarvelo. Ovviamente non li ho portati con me, al momento.»

«Come faccio a sapere che non si tratta di una bufala?» mormorò nervoso.

«Avrete il vostro denaro, e io il mio Campione», lo rassicurai.

«E cosa ne farete?»

«Poco fa avete affermato che non vi importava saperlo.» 

Scrollò le spalle sbuffando stizzito. «Ho cambiato idea! Devo vederci meglio in tutta questa faccenda!»

Non si trattava di un quesito pericoloso, ma ponderai comunque le parole.

«Voglio che combatta per me come guardia del corpo» dissi.

Stenton sgranò gli occhi accigliandosi, non sembrava contento della mia risposta.

«Una guardia del corpo? Per voi, signora? E la paghereste tanto?» domandò a raffica. «Voi volete prendermi in giro! Non si è mai sentito che si paghino cinquanta corone per una guardia del corpo. Mi state nascondendo qualcosa, ne sono certo! Perché proprio lui? Perché il mio Cavaliere? Ne potreste avere a bizzeffe di guardie del corpo con tutto quel denaro!»

Aspettai che si placasse riflettendo sulla spiegazione più opportuna da fornire.

«Mi serve un uomo praticamente imbattibile e…» iniziai, ma venni bruscamente interrotta dal mio ospite.

«È assurdo! Nessun uomo è imbattibile. Non cercate di rifilarmi storielle!» sbraitò.

«Non sarà imbattibile, ma sapete bene che è molto forte. Non avrebbe resistito tanto a lungo al Surdesangr altrimenti. Sapete benissimo che la media di resistenza di un Campione solitamente è di un anno. Molti muoiono per i colpi di spada durante il combattimento, il resto per le ferite riportate: spesso, persino se lievi, si rivelano letali in un ambiente così sporco, senza avere a disposizione un guaritore.»

«Sì, certo... e come pensate di tenerlo sotto controllo un uomo del genere?»

«Credo di poterci riuscire.»

«Oh, non siatene tanto sicura. È furbo, intelligente! Eluderebbe con facilità tutti i vostri sistemi di controllo. Non si farebbe mai rinchiudere e mettere sottochiave come un cane bastonato. È combattivo e sa essere crudele: non lasciatevi illudere dalla fama del suo soprannome. Risparmia delle vite, certo, ma solo quando sottrarle non gli è di alcuna utilità. Non commettete l’errore di credere che sia tanto cavaliere da non tagliarvi la gola nel sonno pur di fuggire della sua schiavitù!»

Lo fissai soppesando con attenzione il suo avvertimento: non mi ero certa fatta l’idea che fosse un tipo facile con cui trattare, tuttavia, forse questo Cavaliere non era così buono di cuore come si supponeva. E se la sua misericordia, durante le lotte nell’arena, nascesse dalla semplice pigrizia? Che non si volesse prendere il disturbo di tagliere gole oltre il necessario? Era possibile. Ma per me cosa significava questa nuova prospettiva? Era saggio continuare a insistere per comperare un uomo che non avrei saputo tenere sotto controllo? Ma c'era sempre la possibilità che quello di Stento fosse solo un espediente per farmi desistere dal mio proposito. Nel dubbio,decisi di domandargli: «Se lo ritenete così pericoloso come dite, come fate a mantenerlo mansueto?».

Distolse in fretta lo sguardo dal mio e questo, più delle parole successive, mi fece comprendere che nascondeva qualcosa.

«Io ho il mio sistema. Un sistema che voi non potete usare.»

«Ah, sì? Come mai?» insistetti con apparente placidità.

Egli mi fulminò con lo sguardo e sbottò: «Non vi riguarda! Non sono tenuto a rivelarvi i metodi che uso con i miei schiavi o i miei Campioni. Ora fareste meglio ad andarvene».

Si alzò con uno scatto dalla sedia, indicando con un cenno imperioso l'uscita.

Pur alzandomi, mi rifiutai di farmi condurre alla porta in questo modo.

«Dunque non volete più contrattare con me? Eppure sembravate meglio disposto qualche istante fa. Cosa vi ha fatto cambiare idea? Forse la mia ultima domanda?»

Sussultò colpito dalle mie supposizioni, ma si affrettò a negare ogni cosa.

«Non siate sciocca, vi sto facendo un favore! Non potete avere quell’uomo, è fuori dalla vostra portata. Non vi resta che cercare qualcun altro per farvi proteggere!»

«Che sia alla mia portata o meno, purché voi abbiate il vostro compenso, la cosa non dovrebbe riguardarvi, signore» gli feci notare infervorata. Dovevo capire quale fosse questo metodo che usava sullo schiavo.

«E inoltre, voi avete trovato un modo per farvi ubbidire. Magari potrei trovare anche io un sistema efficace» aggiunsi, sollevando allusiva un sopracciglio. Speravo in tal modo di indurlo a parlare.

Colse il messaggio e replicò: «Portarselo a letto non sarebbe una buona idea. Vi mettereste in una posizione di svantaggio e poi lui non ne sarebbe minimamente tentato, agguanterebbe solamente l’occasione per svignarsela».

«Non mi reputate tanto bella da tentarlo?» chiesi impettita.

«Voi tentereste qualunque uomo, ma lui è fatto di ben altra pasta. Credetemi, ho già provato con quel sistema e ho capito che non è di alcuna efficacia.»

Gli aveva offerto delle donne? Possibile che...?

«Nemmeno gli uomini gli interessano, se è per questo», chiarii alla mia occhiata sorpresa.

«Se non si è lasciato corrompere dalle donne, allora come avete fatto a impedirgli di evadere?»

«Vi ho detto che non sono affari vostri. Sappiate solo che io posso controllarlo e voi no!»

Quasi mi spinse verso la porta, perdendo il poco controllo che gli era rimasto. Evidentemente l’argomento scottava parecchio e, forse, iniziavo a capire di cosa potesse trattarsi.

«Non c’è stata contrattazione…» sussurrai, seguendo un pensiero che mi aveva colpito e che mi era stato suggerito da quanto aveva detto.

«Come dite, prego?» domandò Stenton, sempre più spazientito.

«Avete detto che lo controllate, ma non ha accettato qualunque cosa gli abbiate offerto in cambio della sua ubbidienza, comprese le donne e il denaro. Dunque dovete essere passato a maniere più forti… a un ricatto forse.»

Trasalì e digrignò i denti. «Non vi permetto di fare certe supposizioni! Avete detto abbastanza, ora andatevene e non tornate più!»

Chiamò i suoi servitori e mi intimò, ancora una volta, di andarmene di mia spontanea volontà, prima che ordinasse ai suoi uomini di trascinarmi fuori con la forza.

Non mi rimaneva che attuare il piano B. Mi sarebbe costato più fatica, ma almeno avrei risparmiato un sacco di denaro.

Mi allontanai con grazia dall’abitazione del Signore del Sangue, dopo un cortese saluto all’interessato, la mente già piena di piani per l’immediato avvenire.

Dopo le accuse di Stenton, il bisogno di conoscere di persona il Cavaliere si era fatto più pressante.

Tornai alla casa di Vasil, dove informai lui e il nipote dell'esito della contrattazione. Anche loro, come me, si insospettirono e giudicarono saggio capire qualcosa di più sullo schiavo prima di intervenire in qualsiasi modo.

Mi cambiai in fretta, restituendo con gratitudine il bel vestito al vecchio Vasil e indossando nuovamente una veste anonima, che ben si prestava a quanto stavo per fare.

ꕥꕥꕥ

 

Solitamente le celle degli schiavi dei Signori del Sangue non erano mai molto distanti dalle loro abitazioni, per una questione di contenimento e controllo. Trovare, dunque, la struttura che apparteneva a Stenton non fu affatto difficile. Impiegai più tempo per capire, invece, dove fosse stato alloggiato il suo Campione.

Certo, in quanto Campione dell’arena gli toccava di diritto una sistemazione diversa, più comoda e privata, rispetto agli altri schiavi, ma in genere si trattava solo di una stanza un po’ meglio arredata, ma posta comunque all’interno della struttura di prigionia. Fu una sorpresa, pertanto, scoprire che si trovava proprio in casa di Stenton, all’interno dell’imponente palazzo.

Ero intenta a scrutare le entrate e a contare il numero delle guardie per pianificare un modo meno rischioso possibile per introdurmi all’interno e avere finalmente il mio incontro con l’uomo.

Solo quando mi convinsi che non avrei potuto essere più preparata di com’ero – non senza perdere ulteriormente tempo – entrai in azione.

Sfruttai una finestra incustodita di un'ala poco trafficata per entrare. Guardandomi attorno capii subito di trovarmi nella zona dedicata alla servitù.

Questa parte della casa era a dir poco fatiscente: erano scomparsi gli splendori, i marmi e i begli arazzi alle pareti; al contrario, tutto era cupo poiché la luce filtrava a fatica dalle strette finestre persino in pieno giorno.

Esplorai silenziosamente gli ambienti, tentando di indovinare quale direzione imboccare per raggiungere la cella.

A un certo punto, un rumore di passi affrettati mi costrinse a stringermi alla parete, in cerca di riparo ma non c’era nemmeno una statua o una pianta che mi nascondesse alla vista e la porta più vicina rimaneva comunque troppo lontana.

Non ebbi altra scelta che rallentare il tempo per potermela svignare: superai un servo che trasportava delle lenzuola senza che i suoi sensi potessero registrare la mia presenza, né tantomeno il mio movimento. 

Superato il pericolo, trattenni il tempo in modo da potermi muovere indisturbata. Correndo ammantata da una scia di colore violetto, arrivai davanti a un paio di guardie ferme davanti a una porta di legno massiccio: non potevano che essere lì dentro per tenere sotto controllo uno schiavo-gladiatore pericoloso e particolarmente furbo, a detta del suo padrone.

Silenziose come statue di cera, gli uomini non mi fermarono quando provai ad aprire la porta, che tuttavia trovai chiusa.

«Maledizione», biascicai. Ma nemmeno quello si rivelò un contrattempo degno di questo nome: la chiave era appesa alle brache di una delle guardie. L’unico problema sarebbe stato piuttosto trovare un modo di non farsi scoprire: a un certo punto, per parlare con lo schiavo, avrei dovuto ripristinare lo scorrere del tempo, ma sarebbe bastato un attimo per accorgersi che la porta era aperta o la chiave scomparsa.

Tentennai per qualche secondo ma dovevo agire in fretta, soprattutto dovevo conservare le energie per i momenti veramente critici. 

Aprii la serratura e lasciai la chiave al suo posto. All’interno vi era uno stretto corridoio senza porte eccetto quella in fondo all’imboccatura.

Anche qui non c’era nulla ad abbellire l’ambiente. Nonostante la stanza sfarzosa dove ero stata accolta da Stenton qualche ora prima, che suggeriva l’idea che il padrone fosse un uomo ricco disposto a spendere somme considerevoli per l’arredamento, la verità era che tutta l’abitazione ostentava miseria, allo stesso modo dell’aspetto emaciato del proprietario: i bei marmi del prospetto e della sala ricevimenti erano solo una facciata volta a ingannare chi non vi abitasse.

Stenton era un avaro per nulla disposto a spendere più dello stretto necessario. Si era sforzato di rendere le apparenze degne del suo nome, ma non si era preoccupato di far vivere dignitosamente la servitù che si occupava della dimora. Corrucciata, proseguii verso il fondo, ripristinando lo scorrere del tempo.

Sentii delle voci sommesse: la porta era socchiusa e trattenni il respiro cercando di ascoltare.

«…stare qua.»

«Certo che puoi» esclamò con voce soffocata un uomo. Era intransigente. «Vedrai che non ti scoprirà nessuno, Rob. Penserò a tutto io.»

«No, Chev. Riportami indietro, adesso!»

«Shh! Farai venire le guardie» lo ammonì la stessa voce, sempre più impaziente.

Non ebbi il tempo di pensare a cosa era meglio fare che la mia mano sfiorò accidentalmente la porta, provocandone lo scricchiolio.

Un ansito soffocato, rumore di passi e lo spostamento di una sedia.

«Chi va là?» domandarono dall’interno della stanza.

Rimasi immobile, maledicendo la mia sbadataggine. Ma tanto valeva entrare a questo punto.

Quando aprii la porta intravidi la figura di un ragazzo adagiato sul letto, il Cavaliere, in piedi, stava rigido nell’atto di far da scudo al compagno.

Dopo essermi assicurata con una lunga occhiata che l’omone non avesse intenzione di aggredirmi immediatamente, cercai di vedere meglio l’altro schiavo: aveva capelli rossicci, sporchi e scarmigliati, lunghi fino alle spalle; un fisico piuttosto esile e chiaramente danneggiato: sulla pelle chiara del torace spiccavano delle bende intrise di sangue. Le macchie erano così fresche che parevano allargarsi sul lino a vista d’occhio.

Il Cavaliere scivolò di lato, ostacolando ulteriormente il mio esame.

«Chi diavolo saresti?» ringhiò, il volto contratto in un’espressione feroce: non esattamente quella di un ‘cavaliere’.

«Allora?»

Quando fissai i suoi occhi rimasi interdetta: erano carichi di rabbia, simili al cielo in tempesta o dell’azzurro intenso e vivido durante le piogge estive. I capelli, lunghi oltre le scapole e legati a una treccia di fortuna, erano più chiari di quanto ricordassi. I suoi lineamenti erano di incredibile bellezza, nonostante fosse sporco e incrostato di polvere, sudore e sangue.

Osservai tutti i dettagli che mi erano sfuggiti durante gli incontri all’arena: l’altezza, l’imponenza, la severità dell’espressione, persino le occhiaie di stanchezza. Aveva una cicatrice che gli sfregiava parte del volto: iniziava in una linea quasi impercettibile dalla mandibola destra e proseguiva trasversalmente lungo il collo, fino alla spalla, dove era più larga e irregolare.

Avendo il petto scoperto, erano visibili anche altri segni di lotte.

Avvertii un formicolio di calore tra i seni e deglutii. Distogliendo per un momento lo sguardo, cercai di ritrovare la concentrazione e soprattutto la voce. Ma non ne ebbi il tempo perché una mano mi afferrò per la gola, attirandomi oltre la soglia e inchiodandomi alla parete.

«Sei una delle puttane di Stenton? Pessimo momento. Non avresti dovuto essere qui», sussurrò vicino al mio orecchio, la mano serrata senza pietà. Neanche volendo avrei potuto emettere suono.

Cominciavo a soffrire per la mancanza d’aria quindi abbandonai il corpo a peso morto, sollevando le gambe per colpirlo agli stinchi. 

Gli strappai un gemito di dolore. 

L’attacco risultò così inaspettato che per un momento allentò la presa: con una torsione del braccio e una pressione sul gomito, quindi, riuscii a liberarmi. Sfruttai gli ultimi istanti della sua sorpresa per impugnare infine una sottile lama che gli puntai alla gola.

Credendomi una donna di facili costumi mi aveva catalogata in fretta, commettendo uno sbaglio.

Mi compiacqui del suo stupore: gli rivolsi un sorrisino che ebbe l’effetto di aggravargli l’espressione già cupa.

«Vuoi dirmi chi diavolo sei?», ripeté ostinato e minaccioso.

«Se non mi avessi attaccata te lo avrei detto senza tanti strapazzi, Cavaliere.»

«Credevo ti avesse mandato Stenton.»

«Per sedurti? Tranquillo, mi ha già scoraggiata dal farlo.»

Si accigliò, ma mantenne le braccia apparentemente rilassate lungo i fianchi.

«Te lo ripeto: chi sei e che cosa vuoi? Se non ti ha mandata Stenton, quali sono le tue intenzioni?»

Schioccando la lingua abbassai un po’ la lama, senza metterla via. Non ancora.

«Credi sia possibile parlare civilmente, senza aggressioni?»

«Dipende da quello che intendi fare» rispose con cautela, muovendosi impercettibilmente in direzione del compagno ferito.

«Non ho intenzione di denunciarlo, se è quello che ti preoccupa», lo tranquillizzai. «In effetti, mi sono intrufolata qui di nascosto. Se c’è qualcuno a rischio di denuncia, quella sono io.»

Apparentemente convinto, alzò le braccia in segno di resa e fece un passo indietro, lasciandomi spazio.

«Accomodati pure e parla», disse indicando una sedia vicino al letto.

«Sto bene così, grazie.» 

I due uomini mi fissarono senza proferire parola. Il Cavaliere doveva essersi stancato di pormi sempre la stessa domanda: decisi di presentarmi senza ulteriore indugio.

«Mi chiamo Erin Knight»

«Knight, davvero?» proruppe inaspettatamente il ragazzo.

«Sì, mi conosci?»

Scosse la testa. «Pensavo solo che fosse divertente.»

«Che cosa?» chiesi confusa.

Sorrise con una smorfia. «’Knight’ come lui», spiegò indicando l’amico, «il ‘Cavaliere’.»

Risi, partecipe del suo divertimento. «Sì, beh, una bella coincidenza», commentai.

«Bando alla ciance», sbottò l’altro, per nulla divertito dal gioco di parole. Quindi tornai seria.

«Cosa sei venuta a fare?»

Sospirando mi preparai a una lunga spiegazione. «Sono un soldato, vivo al Palazzo delle Guardie.»

«E cosa vuole da me una guardia reale?»

«Desidero che entri al mio servizio.»

«Come dici, prego?»

«Ti parlerò chiaramente, Cavaliere: ho un’offerta per te. Entra al mio servizio, combatti per me e io ti ridarò la tua libertà. Ho una missione da portare a termine ma mi serve l’aiuto di persone valide.»

«E perché ti rivolgi a me, uno schiavo? Se fai davvero parte delle guardie, perché non ti fai aiutare da loro? Puoi chiedere aiuto al tuo luogotenente, no? Perché recarti in un posto così malfamato e pericoloso solo per cercare aiuto?»

«Si sono rifiutati tutti. In effetti, io sono un luogotenente, ma non ho più uomini sotto il mio comando.»

«Mi prendi in giro? Un luogotenente senza sottoposti? Siete una così cattiva guida da averli condotti tutti alla morte, per caso?» mi schernì.

«È una lunga storia. I miei uomini sono tutti vivi ma mi sono stati tolti come punizione per una decisione apparentemente azzardata che ho preso», spiegai senza lasciami toccare dal suo sarcasmo. «Come dicevo, c’è una missione che devo assolutamente portare a termine e mi serve aiuto. Il mio Comandante mi ha concesso di riunire sotto il mio comando tutti gli uomini che si fossero prestati spontaneamente. Purtroppo nessuno si è fatto avanti, per cui eccomi qui.»

«E tu hai pensato a me?»

Alzò un sopracciglio in maniera molto significativa.

«L’ho fatto, dopo averti visto combattere ieri all’arena.»

«Perché io? Perché non il Toro? È molto forte…» 

«Sì, lo è ed è anche feroce, crudele e incontrollabile. No, nessuno di quelli che ho visto ieri andrebbe bene se non, forse, tu.»

«Di nuovo, perché?» insistette.

«Per la tua fama: il fatto che, quando puoi, risparmi delle vite anziché massacrare chiunque indistintamente. Non voglio una bestia al mio servizio. E perché sei forte, ma non è solo questo: la tua tecnica di combattimento con la spada è raffinata, – non sei certo nato schiavo, poco ma sicuro – sei agile e furbo, paziente… aspetti il momento più opportuno per colpire il nemico senza avere fretta; e sei preciso: ogni colpo inferto indebolisce efficacemente l’avversario eppure hai fatto in modo che nessuna ferita risultasse mortale o deturpante… devo continuare?»

«Non è necessario. Mi sorprende il fatto che tu abbia notato tutto questo in un solo pomeriggio… oppure sei venuta altre volte a vedermi?»

«No, solo ieri, ma sono rimasta a lungo.»

Il ragazzo, nel frattempo, giaceva dimenticato sul letto, ascoltando con stupore il discorso. Si fece coraggio, durante una pausa e domandò: «Ma come hai fatto a entrare?».

Entrambi ci voltammo a fissarlo. Poi il Cavaliere tornò a trafiggermi col suo sguardo di ghiaccio. «È vero! Come hai fatto?»

Eccolo di nuovo diffidente. 

«Come hai eluso la sorveglianza delle guardie?»

«Ho i miei sistemi», risposi evasiva.

«Che sarebbero?»

Scossi il capo. «Non è il momento di parlare di questo ora. Non c’è tempo.»

«E di cosa vorresti parlare? Come avrai notato sono uno schiavo, non posso semplicemente seguirti.»

Sbuffai, divertita dalla recita e accennando al ragazzo. «Ah, no? E lui come è arrivato qui?»

Si ammutolì, fissando il giovane come se lo vedesse per la prima volta.

«Non sono una stupida. È palese che nessuno è al corrente della sua presenza in questa cella. Mi sono domandata come, dunque, fosse entrato. E ho dedotto che debba esserci un modo che nessuno, a parte voi, conosce. Non ho forse ragione?»

Il silenzio fu una risposta più che sufficiente.

«Anche se posso entrare e uscire da qui senza essere visto, non potrei comunque seguirti, io…» si interruppe, stringendo i denti.

«Capisco. Stenton ti tiene in pugno in qualche modo. In effetti, è quello che ho sospettato già questa mattina, durante il colloquio con lui.»

«Avete avuto un colloquio col mio padrone?» ripeté sorpreso.

«Sì. Gli ho offerto del denaro per cederti a me, ma non ha voluto saperne.»

Decisi di raccontargli a grandi linee i punti salienti dell’incontro.

Dopo un momento disse: «Non capisco perché avete deciso di venire. Non potete comprarmi e io non posso fuggire. Stenton me la farebbe pagare».

«Ho in mente di vincerti, Cavaliere» annunciai.

«Tu... COSA?»

«Ti vincerò con una Sfida», spiegai sbrigativa. «Prima diventerò il Campione di un Signore del Sangue e dopo sfiderò il tuo padrone.»

«Ma per farlo devi prima battere me», constatò. «Sempre ammesso che arrivi viva alla fine di una simile impresa. Sei una donna: per quanto abile col pugnale, non puoi esserlo al punto da battere tutti quegli uomini e tutti in una volta.»

Sbuffò, le labbra tese in un sorriso amaro, e mi guardò come se fossi completamente pazza. 

«Questa chiacchierata è stata divertente, ora però farai meglio ad andare via: come vedi devo occuparmi delle sue ferite» indicò col pollice il ragazzo, Rob, e mi voltò le spalle ignorandomi.

«La minaccia di Stenton ti darebbe ancora problemi se ti vincessi durante una Sfida?» domandai, ignorando a mia volta le sue parole, come se non le avesse mai dette.

«Tu sei matta», borbottò. 

Si inginocchiò vicino al letto cominciando a sciogliere le bende di fortuna del ferito. Studiò la ferita e sospirò. Poi prese una camicia che giaceva sulla sedia e cominciò a strapparla in strisce per ottenere nuove fasciature.

«Rispondimi», ordinai con un tono fermo.

Mi lanciò una breve occhiata da sopra la spalla. Forse era la stanchezza e la preoccupazione, ma decise di rispondermi, probabilmente sperando che me ne andassi non appena si fosse esaurito il mio interesse. 

«Sì, ne avrei comunque, suppongo. Il padrone non è un tipo che molla.»

«Allora devi dirmi con che cosa ti ricatta.»

Nessuno parlò per quelli che parvero minuti. Il Cavaliere sostituì con attenzione e cura le bende al ragazzo: i brevi e soffocati lamenti di Rob erano l’unica cosa a spezzare il silenzio.

«Chev…» sussurrò Rob infine, posando una mano sul braccio dell’uomo. «Forse è meglio che tu glielo dica…», suggerì, «…non mi sembra una cattiva persona.»

Il Cavaliere tornò a guardarmi, soppesandomi. Poi scrollò le spalle e si decise a vuotare il sacco: «Stenton tiene prigioniero un ragazzino. Minaccia di ucciderlo se dovessi disubbidire ai suoi ordini o scappare».

«È qualcuno di importante per te.»

Lui non sentì il bisogno di rispondere: era ovvio che fosse così.

«Dove lo tiene?»

«Non lo so. Ogni tanto me lo mostra per provarmi che è vivo e che sta bene per evitare che io diventi… irrequieto.»

Annuii. «Capisco.»

«Ora mostrami come si esce da qui senza passare dalla porta sorvegliata, per cortesia.»

«Perché? Non puoi andartene da dove sei venuta?»

«Diciamo solo che è più rischioso. Inoltre ho deciso di portare il ragazzo con me.»

«Che cosa?!» esclamarono all’unisono i due uomini. «Perché mai?!»

«Qui non può stare, lo scoprirebbero con facilità e chissà che fine farebbe. In ogni caso non può ricevere le adeguate cure se rimane in questo posto.»

Mi guardai attorno schifata, commentando: «Mi sa che non hai fatto un buon affare a diventare Campione di Stenton».

Lui sbuffò ma non mi contraddisse. 

«Non puoi portarlo con te.»

«Sì che posso. Che motivo ha di stare qua, col rischio di morire di infezione?»

«Che motivo ha di venire con te, visto che non ti conosciamo?»

«Oh, andiamo... Direi che almeno su questo puoi fidarti!»

«Io non mi fido di nessuno.»

«Beh, mi sa che sarai costretto a farlo, in questo caso! Ho visto la sua ferita: è molto grave e morirà se non verrà curato subito.»

L’aria si saturò della sua energia nervosa. Fu di nuovo Rob a intervenire.

«Chev, va tutto bene. Ha ragione, forse è meglio che vada. Sarebbe meglio fidarci, non ha nulla da guadagnare nel sequestrare uno schiavo come me.»

Dalla voce che tremava leggermente si percepiva tutta la sua stanchezza. Fino a quel momento aveva lottato duramente per rimanere lucido, per non dare a vedere quanto soffrisse, mettendosi a scherzare per giunta. 

Ci aveva lasciato spazio per parlare, ma ora che le sue energie si erano esaurite sudava copiosamente ed era mortalmente pallido.

Anche l’uomo notò il suo mutamento e decise di non ribattere.

«D’accordo» borbottò arrendendosi.

Si diresse verso l’unica finestra. «Ecco l’uscita.»

Allungò una mano e con uno strattone staccò prima una e poi due barre: erano state scardinate e tenute per apparenza e nessuno si era premurato di fare controlli periodici.

Sorrisi della stupidità di Stenton e della sue guardie, nonché nel malfunzionamento del suo sistema di ‘sicurezza’. Su una cosa aveva avuto ragione quell’uomo: il Cavaliere, in effetti, avrebbe potuto andarsene quando avesse voluto.

«Grandioso», mi complimentai.

«È stato solo un colpo di fortuna trovare il ferro arrugginito.»

Aiutammo il ragazzo a mettersi in piedi e a scavalcare la finestra.

Il Cavaliere fece una smorfia. «Non dovrebbe muoversi tanto. Lo avevo appena trascinato qua ed è sempre più debole. Quanto dista il luogo dove intendi portarlo?»

«Non molto» risposi. Poi aggiunsi: «Chi è lui per te?».

«Un amico», disse dopo un momento. «Anche lui fa parte degli schiavi di Stenton, ieri è stato ferito. Le celle comuni sono il posto peggiore dove sperare di guarire, così l’ho portato con me per evitare che morisse. Pensavo di poterlo tenere nascosto fino a che non si fosse rimesso.»

«Non devi più preoccupartene. Con me è in buone mani.»

«Sarà meglio. Altrimenti sappi che verrò a cercarti e ti taglierò la gola.»

«Puoi provarci, ma non garantisco che ne usciresti tutto intero... Chev.»

Sussultò di sorpresa sentendo il suo nomignolo sulle mie labbra. «Non mi chiamare così», disse seccato.

«Perché? È permesso solo ai tuoi amici? Allora dovrò farlo anche io visto che presto saremo inseparabili», ironizzai.

Borbottò qualcosa simile a un’imprecazione e al fatto che fossi del tutto fuori di testa.

Mi aiutò a trasportare il malato per gran parte della strada e ci lasciò solo quando insistetti che ero perfettamente in grado di condurlo da sola. Non era sicuro che si aggirasse a lungo fuori dalle mura della sua prigione: c’era sempre la possibilità che qualcuno andasse a controllarlo e non lo trovasse.

Al momento di separarci ribadii che non si preoccupasse per la salute del ragazzo.

«Quando verrà il momento, non combattermi sul serio. In fondo puntiamo entrambi a ottenere la tua libertà.»

«Ancora con quel tuo assurdo piano. È impossibile quello che proponi. Stenton ucciderebbe Finn e non posso permetterlo!»

«Finn è il nome del ragazzo che ti sta tanto a cuore?»

Davanti al suo persistente silenzio, misi da parte quella particolare questione.

«Te lo ripeto: lascia che faccia tutto io. Presto non avrà più nulla con cui minacciarti e sarai mio.»

«E se non volessi esserlo? Se volessi solo avere la mia libertà? Dopotutto mi stai solo proponendo di passare da un padrone all’altro.»

«Non la metterei proprio così, Chev. Io non ti rinchiuderei mai in una stanza maleodorante e non ti farei combattere come una bestia. Ho solo bisogno di aiuto per cercare una persona.»

«Sembrerebbe una cosa semplice ma qualcosa mi dice che non è affatto così.»

«Non lo è infatti, ma ti spiegherò tutto a tempo debito. Ora vai, prima che qualcuno ti scopra. A Rob ci penso io.»

Titubò, indeciso sul da farsi. Poi disse: «Erin, non so cosa tu abbia in mente e decisamente non mi fido di te, ma qualunque cosa tu scelga di fare non coinvolgere il ragazzo e non fare uccidere Finn. Stenton è paranoico: se dovesse intuire qualcosa o pensare che siamo in combutta lo toglierebbe di mezzo senza pensarci due volte, e a quel punto dovrei pareggiare i conti».

«Sì, sì… la tua minaccia di morte, come dimenticarla?»

«Parlo sul serio.»

«Anche io.»

Dopo una lunga occhiata di intesa, ci separammo.

Per fortuna non eravamo lontani dall’abitazione di Vasil perché Rob, dopo qualche centinaio di metri, svenne e non avevo modo di trasportarlo. Corsi a chiedere aiuto a due servi del vecchio Signore, i quali mi aiutarono a portarlo dentro casa. 

Vasil era assente, così raccontai dell’incontro con lo schiavo a Calis che si disse sorpreso di tutto ciò che avevo appreso. 

Ero stanca, sudata e affamata, ma ero anche felice dell’impressione positiva che avevo avuto dell’uomo che volevo prendere al mio servizio. 

Il ricatto di Stenton avrebbe ritardato di qualche giorno i miei piani: sarebbe stato necessario scoprire dove fosse tenuto Finn e poi liberarlo per vanificare la minaccia del padrone. 

Una certa eccitazione mi pervase al pensiero che sarei presto entrata in azione.

 
 
   
 
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