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Autore: Castiga Akirashi    25/07/2012    4 recensioni
{Rating più alto in alcuni capitoli}
Può una bestia redimersi?
Può smettere di uccidere?
Il Demone Rosso ha seminato distruzione, paura e morte per anni.
Ora è sparita.
È morta? È nell’ombra che aspetta una preda?
Nessuno lo sa…
Aurea Aralia è una studiosa Pokémon conosciuta in tutta Isshu.
Stimata e rispettata, passa il suo tempo a esplorare il mondo dei Pokémon ed a aiutare i giovani allenatori che le vengono affidati.
La sua vita cambierà, quando incontrerà una ragazza.
Ragazza o… Demone?
Genere: Avventura, Fantasy, Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, N, Nuovo personaggio
Note: OOC | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Videogioco
Capitoli:
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Castiga si diresse verso Azzurropoli, una volta che si fu ripresa del tutto dallo shock. Dopotutto era nella sua regione natale che non vedeva da parecchio, e che, doveva ammetterlo, un pochino le era mancata. Un giro turistico ci stava; bastava non farsi notare troppo ed essere paziente come aveva imparato a Isshu. Accadde, però, l’impensabile: due nere figure incappucciate le balzarono davanti e una ordinò, con un tono che voleva essere minaccioso: «Dacci tutti i tuoi Pokémon e i tuoi soldi o sarà peggio per te!»
Lei li fissò con un sopracciglio inarcato: vestiti di nero, una R rossa sul petto, occhi coperti dal cappello e sopra un cappuccio, tentativi di spaventare un po’ scadenti... Loro non persero tempo, notando la mancanza di reazioni, ma soprattutto di paura, e uno dei due uomini fece per afferrarla ad un braccio e costringerla ad ubbidire. Athena si seccò nel giro di mezzo secondo, si scansò, evitando di farsi mettere le mani addosso da quel tizio ed estrasse il pugnale. Prendendolo per il collo della giacca, gli puntò la lama alla gola e ringhiò: «Voi due dovreste essere alla base a fare flessioni, razza di Reclute scarse. Chi vi ha insegnato ad aggredire i superiori?»
I due si bloccarono, fissando quella lama inorriditi. Era unica al mondo, tutti lo sapevano. Talmente particolare e talmente temuta che nessuno si sarebbe sognato di replicarla e mostrarla in giro.
«Te.. te.. te.. nente…» mormorò terrorizzato il tizio che lei stava minacciando, abbassando gli occhi in segno di rispetto e dando un calcio all'indietro all'altra Recluta per costringerlo a fare altrettanto.
Castiga socchiuse gli occhi minacciosa, lasciò andare la sua vittima ma non rinfoderò la lama, e i due saltarono sull’attenti, per farle capire che riconoscevano la sua autorità ed erano ai suoi completi ordini.
Giusto per non fare la bella statuina, restando in silenzio e venendo ucciso per questo, la recluta che aveva parlato prima, osò ancora ed esclamò: «Chiediamo perdono S-signora! N-non volevamo attaccarvi! N-non vi avevamo riconosciuta!»
Ma lei non prestava più attenzione a loro, e pensava, decisamente perplessa da quella situazione: “Due Reclute… che strano. Non mi convince questa storia. Il team dovrebbe essere sciolto.”
Rinfoderando il pugnale, decise di vederci chiaro; così, incrociò le braccia al petto e chiese: «Cosa ci fate in giro, Reclute?»
«Il Tenente Archer ci ha mandati in missione, Signora!» esclamò sempre la stessa recluta, probabilmente di grado più anziano, sollevato nel vedere che ora non era più armata: «È uscito di prigione sei mesi fa con i fratelli!»
«Cosa?» ripeté lei, sempre più perplessa: «Sono usciti con solo tre anni?»
«Sissignora, signora!»
La ragazza sospirò, poi borbottò: «Devo parlare con mio fratello. Andate ad avvisarlo che arrivo. Solita base?»
«Casinò di Azzurropoli, signora!»
«Taci, imbecille! Vuoi far scoprire tutto?!» sbottò, seccata, lanciandogli un'occhiataccia; va bene che ormai la conoscevano tutti, ma era meglio non far sapere che c’era ancora movimento.
I due si pietrificarono all’istante, aspettandosi probabilmente una punizione tremendamente dolorosa e poi mattatoio. Ma Athena era troppo cambiata: aveva imparato a trattenersi e lei stessa si rendeva conto di quanto fosse diversa da allora. Cercando di avere ancora un minimo di cipiglio, ordinò: «Sparite, Reclute!»
I due se ne andarono di corsa, increduli di tanta fortuna, mentre lei, mandato Zekrom tra le nuvole per non destare sospetti, si diresse con Maru ad Azzurropoli, una delle più grandi città di Kanto. Il nome derivava dal fatto che tutte le case avevano il tetto blu e una casa in particolare era interamente di quel colore. Si chiamava appunto Villazzurra.
I due giunsero al Casinò ed entrarono. Athena arrivò al cartello che copriva il bottone segreto, atto a rivelare le scale nascoste che conducevano a una delle basi del Team Rocket, e si guardò intorno perplessa. Nessuna guardia. Strano. Premuto il bottone, scese la scalinata appena comparsa. La botola le si chiuse alle spalle e lei proseguì. Non c’era nessuno di guardia, alcuna presenza. Niente di niente. In fondo alle scale, però, apparve una figura. Un ragazzo alto, con i capelli azzurrini e lo sguardo di ghiaccio, vestito con un completo bianco elegante e una R rossa sul petto, a destra.
Le brillarono gli occhi dalla contentezza, lo avrebbe riconosciuto tra mille: era Archer, il suo fratellone adottivo e primo tenente del Team Rocket. Ma lui era strano: non era amichevole come suo solito e sembrava piuttosto minaccioso. Lei lo fissò perplessa, senza muoversi, per capire cosa avesse, e fece per parlare, ma lui la fissò senza battere ciglio e ordinò, glaciale: «Chiunque tu sia, vattene con le buone. O sarò costretto ad usare la forza.»
Mezza sconvolta dalla durezza della sua voce, Athena obbiettò: «Archer, ma che ti prende?»
«Vattene, ho detto.» ripeté lui, senza ascoltare le sue parole ed estraendo una sfera.
Lei cercò ancora di opporsi, ma lui perse la pazienza ed esclamò: «Vai, Houndoom. Aiutami a buttarla fuori.»
Il cane infernale uscì ululando dalla sfera, pronto alla lotta, ma si bloccò, annusando l’aria. Sentiva un odore familiare, ma non riusciva a capire di chi fosse. Archer, anche se lievemente perplesso da quella titubanza, non si lasciò incantare e ordinò al Pokémon di attaccare. Dato il grande affetto che li univa, il Pokémon non se lo fece ripetere due volte e ubbidì, attaccando la ragazza. Cominciando a correre, il suo corpo si coprì di fuoco, potente nel suo Nitrocarica, ma Maru si mise in mezzo senza un ordine e rispose all'offensiva con l'Acquagetto. Houndoom, fermato nel suo attacco, ritornò verso il suo allenatore e amico, pronto a ricominciare. Archer non risparmiò un colpo, mentre lei si tratteneva, per rispetto verso il fratello e il suo fedele Pokémon. Ma quando Houndoom ferì Maru, lei decise di fare sul serio. Nessuno poteva fare del male al suo migliore amico. Così, borbottò: «Archer finiscila di fare l’idiota! Maru usa Acquapatto!»
Una colonna d’acqua si materializzò dal terreno e si abbatté su Houndoom che andò KO e su Archer che finì a terra. Lui fece per tirare fuori un’altra Pokéball, per ricominciare lo scontro, ma Athena si avvicinò e gli bloccò la mano a terra con un piede. Fissandolo irata per quella lotta senza senso, esclamò: «Finiscila, fratello! Non voglio combattere ancora contro di te!»
Lui la guardò con un odio e un disprezzo mai visti, rispondendo: «Tu non sei lei... Athena è morta! Sei solo un impostore! E nessuno può permettersi di farle un tale affronto!» gridò, cercando di alzarsi, ma lei, schiacciandogli il polso a terra, lo costrinse all'immobilità dal dolore. Colpita dall’affermazione e da quanto realmente lui le volesse bene, ribatté seccata: «Cos’è... non riconosci nemmeno tua sorella adesso?! Guardami, Archer! È impossibile fingere così bene!»
Lui titubò. Come Houndoom, anche lui, appena l’aveva vista, non aveva fatto a meno di pensare che fosse lei. Ma lui aveva sentito quelle parole, quell’uomo vantarsi di averla uccisa... come poteva essere davvero lei? Essere uscita addirittura dalla tomba?
Cercando di restare ancora glaciale e sprezzante, nonostante i dubbi, lui borbottò: «Verifichiamo subito se sei lei... qual’era la particolarità di Fiammata? Rispondi!»
Lei lo guardò accigliata e poi rispose, con voce tremante al ricordo del suo vecchio amico: «E-era un Charizard mezzo cieco. Senza occhio sinistro e aveva una cicatrice su quello destro. Combatteva meglio a occhi chiusi. L’ho allenato personalmente, contro gli ordini del capo, a combattere nel buio più totale per affinare gli altri sensi, visto che ci vedeva poco.»
Archer restò un momento immobile. Nessuno lo sapeva. Nessuno sapeva della vera natura della benda sull’occhio destro di Fiammata. Nessuno sapeva perché non usasse mai il Lanciafiamme in lotta ma solo per monito, per spaventare. Tranne lei. Con le lacrime agli occhi che non riuscì in alcun modo a trattenere, mormorò: «S-solo... solo lei può saperlo... sorellina. Sei viva. Veramente...»
Athena gli sorrise, con gli occhi a loro volta lucidi, e spostò il piede per permettergli di alzarsi. Tutto sommato doveva ammettere di essere contenta di rivederlo; così, chiese, per sdrammatizzare: «Ti ci è voluto un po’, eh?»
Lui si alzò in piedi, tornando a superarla perché più alto, ma le sorrise a sua volta, davvero felice di vederla viva e vegeta; pensoso, commentò: «Allora, quelle due Reclute non mentivano.»
«No.» rispose lei, fattasi perplessa, non avendo nemmeno pensato alla possibile incredulità dei fratelli a una notizia così sconvolgente: «Cosa gli hai fatto?»
Lui alzò le spalle con noncuranza e rispose: «Pensavo mi stessero prendendo in giro. Così gli ho sbattuti sotto la frusta di Maxus.»
Senza parole, lei ripeté: «Di Maxus?! Ma sei impazzito? Non sa controllarsi! Li ucciderà!»
«E allora?» rispose lui, ma Athena non perse tempo e partì di corsa. Ricordava la base a memoria, corridoio dopo corridoio. Ogni angolo. Doveva aiutarli. Una volta non le sarebbe importato nulla di quei due, ma ora no. Aurea le aveva insegnato la pietà e la bontà, almeno in teoria visto che lei non se le sentiva dentro, ma era decisa a mantenere le promesse fatte tanto tempo prima alla donna. E comunque, era anche un po’ colpa sua. Lei li aveva rimandati indietro e lei doveva aiutarli.
«Maxus!» urlò entrando nella sala delle punizioni e delle torture, facendo sbattere la porta di acciaio con violenza contro la parete: «Posa subito quella frusta!»
Maxus e Milas erano davanti a lei girati di schiena, in un lago di sangue; Maxus era voltato verso di lei, con la frusta a mezz’aria. Entrambi la guardarono come se fosse un fantasma. Maxus, però, si riprese ben presto dalla sorpresa e diede ancora un colpo di frusta. Si stava divertendo e voleva metterle paura. Evidentemente, non aveva riconosciuto la sorella nemmeno lui; pensava a una finzione, a un impostore. Athena si infuriò, quell'arroganza non era permessa, e sibilò: «Te lo ripeto l’ultima volta, Maxus. Non farmi arrabbiare. Posa quella frusta... subito.»
Lui la guardò ghignando con aria di sfida, come se pensasse che erano tutte parole al vento e niente di fatto, e Athena ordinò, quasi ringhiando e stringendo il pugnale nascosto sotto la maglia, trattenendo la voglia di lanciarglielo dritto in mezzo agli occhi: «Maru... Idrocannone!»
Il getto d’acqua, potente come se fosse stato sparato da un idrante, centrò Maxus che finì contro il muro dietro di lui. Archer entrò di corsa nella stanza e le disse: «Athena calmati!» posandole una mano sulla spalla. Gli altri due fratelli si resero così finalmente conto che era davvero lei. Il maggiore lo aveva confermato, non poteva essere una finzione.
«A-athena?» mormorò Maxus, ancora mezzo sconvolto e sotto, sotto terrorizzato, rialzandosi dolorante dopo il volo fatto. La sorella arrabbiata non era mai stata consigliabile vicina, soprattutto a così pochi metri di distanza.
«Tu non dovresti nemmeno toccarla una frusta.» sibilò lei, fissandolo con uno sguardo rosso d’ira.
Cercando di ignorarlo e di conseguenza lasciarlo vivere, andò a sentire il battito delle due Reclute. Erano due ragazzi, ancora giovani. Prima non se n’era accorta perché avevano il volto nascosto. Avranno avuto a occhio e croce diciotto uno e ventidue anni l’altro. Ed erano vivi. Aveva fermato Maxus in tempo. Fece un impercettibile sospiro di sollievo, ma Maxus si avvicinò, convinto di poter andare avanti a fare ciò che stava facendo. La sorella adorava le torture, quindi forse lo avrebbe perfino aiutato a fare più male con meno danno, come sapeva fare lei. Athena lo guardò con uno sguardo che non lasciava trasparire intenzioni amichevoli, e, prima che lui potesse aprire bocca, sbottò: «Sparisci, Maxus.»
Lui non si fece spaventare, conosceva il suo carattere scontroso, e ribatté: «Ma Athena, mi stavo divertendo!»
«Attento a quello che dici. O ci finisci tu qui. È una promessa.» ringhiò solo lei.
Lo spaventò abbastanza da farlo arretrare e uscire. Era stupido, ma non così tanto da mettersi contro di lei di sua spontanea volontà. Archer e Milas lo seguirono, perplessi dal comportamento della sorella, lasciandola sola con i due ragazzi. Lei finalmente poté calmarsi, non avendo più nessuno tra i piedi, ma le cadde l’occhio sul suo Samurott. Maru era sbigottito. Non aveva mai visto tanta violenza. Athena lo accarezzò, cercando di trasmettergli un po’ di calma. Lei era abituata a spettacoli ben peggiori, ma il povero Pokémon non aveva mai visto il Demone, né tantomeno i suoi lavoretti.
«Adesso aiutiamo questi due poveretti, Maru.» disse, dandogli un buffetto dolce e avvicinandosi ai corpi senza conoscenza; tentò di slegare le corde, ma erano molto strette: quei nodi che più ti agiti e cerchi di liberarti, più si stringono. Alla fine, facendosi aiutare dal corno di Maru, riuscì a spezzare le corde. Posò i due ragazzi a terra,cercando di fare piano, con la schiena verso l’alto e controllò le ferite, pulendole con l’acqua del Samurott.
«Maxus è un animale.» sbottò irritata, vedendo solchi senza un minimo di logica: «Guarda che macello. È un miracolo che siano vivi. Quel cretino non ha tecnica.»
Mentre cercava di fare qualcosa di utile per la loro sopravvivenza, ricontrollò i battiti, constatando che il più grande era ormai morto, mentre il più giovane lottava come un leone per restare in vita, aggrappato a chissà quale ancora.
«Dannazione.» ringhiò lei, maledicendo Maxus in tutte le lingue che conosceva.
Onde evitare altre morti non volute, e non da lei causate, sulla coscienza, fece uscire Shikijika, il suo Sawsbuck, il Pokémon cervo; forse sapeva come curarlo efficacemente; o almeno, ci sperava.
«Usa Aromaterapia amico. Vediamo di salvarne almeno uno.» borbottò, ma poi vide la sua espressione, così aggiunse: «Ti prego, Shik. Dobbiamo aiutarli.»
Shikijika era pietrificato dall’orrore, ma deglutì facendosi forza, si avvicinò al giovane, che ormai respirava a fatica, e usò la mossa curativa, scrollando l'ampio palco di corna adornato di fiori. Il ragazzo si svegliò di soprassalto, leggermente ristabilito grazie all'intervento del cervo, e cominciò ad agitarsi, cercando di fuggire, preso dal panico e con il terrore che ricominciassero a ferirlo. Athena lo tenne fermo posandogli una mano su una spalla e l’altra sulla testa. Gli bloccò il capo e disse, cercando di rendere il tono dolce, ma senza risultati: «Stai calmo. Ti voglio aiutare. Non agitarti e fra poco starai meglio.»
Lui voltò lo sguardo di scatto, non conoscendo la voce, ma appena la vide, si bloccò di colpo. Non sembrava più impaurito, benché avesse il Demone Rosso davanti al naso. Fece un respiro profondo e dolorante, e smise di muoversi, quasi del tutto tranquillo. Il Sawsbuck riprese la medicazione e Athena, senza farsi troppe domande, controllò scrupolosamente le ferite. Piano, piano si stavano rimarginando, ma sarebbe dovuto stare molto a riposo per riprendersi. Shikijika continuò il suo lavoro, mentre lei cercava delle bende, che naturalmente erano inesistenti. Lui invece la fissava, con sguardo quasi sognante…
Athena era sempre più nervosa vista la scarsa collaborazione dei fratelli e ribaltò mezza sala senza trovare quello che le serviva. Si diede della stupida... come potevano esserci bende in un posto dedicato alle torture? Decise in fretta il piano di riserva e lo mise subito in atto. Si avvicinò al cervo, gli accarezzò la testa e mormorò: «Shik... Sta qui a fargli compagnia che io vado a cercare delle bende. Torno subito.»
*«Tranquilla, Castiga!»* rispose lui, leccandole la faccia con affetto, per poi avvicinarsi alla Recluta, usando ancora l’Aromaterapia per fargli diminuire il dolore. Athena andò in infermeria, nella quale potevano accedere solo ed esclusivamente i quattro Tenenti, prese le bende, una barella e tornò giù. Il ragazzo si era addormentato e lei gli fasciò con delicatezza le ferite. Lui grugnì dal dolore ma non si svegliò. Con uno sforzò immane, la ragazza lo caricò sulla barella e lo fece portare in infermeria da Warubiaru e Deathkan che, essendo bipedi e dotati di mani, potevano trasportare la portantina. Una volta sistemato nel letto, sempre con l'ausilio dei Pokémon, andò dai fratelli. Con tono particolarmente seccato e cercando di essere definitiva per evitare ulteriori colpi di testa che la facessero uscire dai gangheri, disse: «Lasciate in pace quella povera recluta. L’altra è morta e vorrei salvarne almeno uno.»
Archer la guardò sbalordito, faticando a riconoscerla per quell'atteggiamento così... buono, e chiese: «Perché ti dai tanto da fare per lui? È solo una Recluta.»
Athena lo squadrò gelida, e rispose, tagliente come un rasoio: «Ti ricordo che trovare Reclute non è mai stato facile dopo la fuga di Giovanni. Se non le uccidiamo tutte, magari qualcosa si riesce ancora a mettere insieme, ti pare?»
Lui la guardò con uno strano sguardo, come se avesse colto la palese scusa nascosta dietro a quelle parole, ma non fece commenti in merito. Aggiunse solo: «Beh, sei intervenuta in tempo. Tu sei l’unica che sa fustigare senza fare danni. Non ho mai capito come fai e credo che Maxus non vorrebbe nemmeno saperlo.»
Lei ghignò, quasi in modo infantile, e rispose: «Non te lo dirò mai.»
«Immaginavo questa risposta.» sogghignò lui, ma poi chiese, squadrando Maru e gli altri: «E questi strani Pokémon? Da dove vengono?»
Le accarezzò la testa del suo enorme Samurott, che fissava Archer non sapendo se fidarsi, e rispose: «Isshu, una regione piuttosto lontana da qui. Sono stata lì questi tre anni.»
«Capisco. Ci racconterai tutto domani. La tua stanza è sempre quella, bentornata sorellina.» concluse il ragazzo, sorridendole.
Athena ricambiò e andò nella sua vecchia stanza. Sulla porta c’era ancora l’insegna sbeccata, rovinata dal tempo “Secondo -tenente Athena” e un teschio disegnato sotto. Le venne da ridere quando pensò al giorno in cui l’aveva disegnato. Quanti ricordi. Si sentiva veramente a casa, ma sentiva anche che qualcosa non andava. O meglio, che quel posto, in realtà, non le apparteneva più.

  
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