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Autore: Klavdiya Erzsebet    28/07/2012    1 recensioni
Parte della serie Until Death Do Us Part
(Tornano Greg e Sophia Lestrade protagonisti. È dichiaratamente romantico, anche se l’amore non è il genere principale. E pensare che non credevo di essere capace di trattarlo anche solo minimamente.)
Una strana malattia colpisce Sophia Lestrade, e un caso particolarmente inspiegabile approda nell’ufficio di Greg. Due misteri, collegamenti inaspettati, una corsa contro il tempo e una modesta ipotesi di come l’amore per la vita abbia potuto portare alla morte: tutto è contorto. Talvolta è difficile determinare l’impossibile.
{Attenzione: fanfiction Greg–centrica a livelli vergognosi}
Genere: Mistero, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Lestrade , Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Until Death Do Us Part'
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Cap.V

In Vino Veritas

 

Sherlock digitò le stesse parole che Chris Lawrence aveva battuto al pc negli ultimi mesi, vedendo tanti nomi di fumetti e di donne. Sporadiche ricerche sulla chimica a un livello piuttosto avanzato. Un libro di un tale Isidore Blackbourne: La scienza del Male. Quello che i ragazzi cercano per scherzo a quell’età.

Tra le ricerche più recenti: info sulla costruzione di ordigni, reperibilità dei materiali necessari. “Non ha fatto nient’altro prima di morire” osservò John, con la testa poggiata sulla spalla del coinquilino. Sherlock annuì.

“Era un incarico urgente” spiegò. In realtà era ovvio. “Potrebbe averlo meditato per lungo tempo, decidendosi solo ora, ma le ricerche di chimica che ha fatto sono molto comuni considerato il suo percorso di studi”

“Ma si è informato su come ottenere i materiali dopo aver cercato i metodi di costruzione” gli fece notare John, posandogli una mano sulla spalla.
“Possono avergli fornito solo i materiali più difficili da reperire, se non addirittura nessuno. Comincio a pensare che i mandanti non siano anche fornitori”.
“Ah. Ed è... una cosa positiva, credo”.
“Sì”.

“Sì?”. John mollò la sua clavicola e gli si sedette accanto. “Ma come sono arrivati a Chris Lawrence?”
Sherlock sorrise e prese una pila di giornali da sotto il tavolo; alcune inserzioni erano cerchiate di rosso. “Annunci che cercavano giovani esperti di chimica negli ultimi mesi”

Il dottore prese l’intero mucchio; ce n’erano molte. “Dobbiamo solo esaminarle” commentò, senza che la sua voce riuscisse a esprimere appieno il sollievo che provava. Solo? pensò poi.
“Esatto”.

Semplice. Estremamente semplice, à la Sherlock Holmes: senza di lui mesi e mesi di indagini con esito nemmeno troppo scontato. John aveva come l’impressione che mancasse qualcosa, però - come se tutto quello fosse troppo poco per giustificare la morte di quattro ragazzi.

Un suono lungo e insistente del campanello li riscosse. Era troppo deciso per essere un normale cliente; e fu uno solo, non era urgente. La signora Hudson corse ad aprire con uno scalpiccio provocato dai suoi passi piccoli e affrettati. “Buongiorno” salutò cordiale. “Lei chi è?”

Una voce maschile borbottò qualcosa. La donna esitò. “Venga, la porto da loro”.

Sulle scale risuonarono piedi pesanti e scoordinati, mani che cadevano disordinate sul corrimano come avrebbero fatto quelle di una bambola di pezza: senza forza. John si alzò e si avvicinò in fretta, affacciandosi sul pianerottolo.

La signora Hudson reggeva il braccio di un uomo che sembrava volersi afflosciare sui gradini, quasi mimetizzato nell’ombra con la sua giacca nera e i pantaloni scuri. Era vestito elegantemente ma ogni cosa di lui era trasandata – era ubriaco, senza dubbio, lo si capiva ancora prima di imbattersi nel viso abbronzato in cui sembravano volersi nascondere gli occhi scuri e vitrei.

“John” chiamò Greg staccandosi dal corrimano e passandosi una mano nei capelli precocemente ingrigiti. Il dottore si rese orrendamente conto che il burattino scoordinato che si reggeva a stento sulle scale non era che Lestrade.
“Greg” disse cominciando a scendere i gradini. Lo afferrò per l’altro braccio e lo aiutò a salire, mentre la signora Hudson se ne andava lanciando sguardi preoccupati. “Greg. Cos’è successo?”

“Sono uno straccio” gli rispose semplicemente l’altro. Era così che si sentiva: un peso, un monotono essere creato solo allo scopo di avere problemi coniugali dovuti al non essere capace di comunicare con una donna stupenda, sì, ma incomprensibile. Incomprensibile, distaccata da lui e con le sue lune, i suoi periodi. Una meravigliosa aurora boreale la circondava e la separava da lui.

“Sì. Sei uno straccio, Greg. Cos’è successo?”
Lestrade sospirò. John lo guidò fino al divano e lo osservò sedersi col respiro affannato e coprirsi il volto con le mani: per un attimo ebbe l’aria di essere disperato, per poi scostare le dita e rimanere a fissare il pavimento, con gli occhi sgranati. Per qualche istante non parve accorgersi che il dottore lo scrutava. “È Sophia” borbottò, come se gli dovesse una risposta ma non avesse assolutamente voglia di formularla. “Lei è...”

John si sedette accanto a lui, sul divano. Si piegò in avanti e leggermente di lato costringendolo a fare lo stesso, finchè non ebbe gli occhi e l’attenzione di Greg fissi su di lui. “Va tutto bene. Cosa è successo?”

Lestrade cercava disperatamente di non cedere e guardare da un’altra parte; era evidente, nelle sue mani che si torcevano e non si davano tregua. Gli occhi gli si fecero lucidi. “Niente” disse alla fine. “Martedì l’ho trovata con l’amante. L’altroieri mi ha tirato una padella in testa e...”

“E?”
“È peggiorata. Oggi dovrei essere al lavoro, ma non mi sento molto bene. Se non vado Sally mi ucciderà”. Le lacrime gli inumidirono gli occhi, ma il dottore finse disperatamente di non vederle. Greg era avvilito. Nel suo sguardo, John poteva vedere l’effetto dell’alcool che l’aveva portato a parlare per la prima volta così apertamente di sua moglie; ma anche la devastazione che quell’atto aveva portato nell’ultima sua parte lucida e attiva. “Ce l’hai il numero di Sally?”. Greg annuì. “Non vai al lavoro oggi. La chiamo io. Avevate molto da fare?”

“Ieri sera è morto Mark Shaw. Tutta Scotland Yard si sta facendo il culo. Il padre è arrabbiato...”
“Tranquillo. Hai detto che ci sta lavorando anche tutta Scotland Yard”.
“Rientra nella mia divisione. Se le dici che non vengo ti ammazza”.

John sospirò. Infilò cautamente la mano nella tasca della giacca di Greg e prese un cellulare diverso da quello che era abituato a vedergli in mano al lavoro. “Dov’è quello di servizio?”

“In lavatrice, probabilmente” si limitò a rispondere Lestrade con un guizzo improvviso negli occhi. La giacca sporca dopo che ci aveva dormito dentro al motel, il telefono. Fatalità. “Cerca sotto ‘Sally’”.

Il dottore obbedì e premette il tasto di chiamata, portandosi il cellulare all’orecchio. Tuu, tuu sentiva dall’altra parte. Continuò a lungo.

Valutò di mettere giù, a un certo punto. Poi miracolosamente qualcuno rispose.
“Sono al lavoro, mi spiace” rispose la voce di Sally Donovan.
“Il sergente Donovan? Sono John Wats...”
“Dottor Watson! Chiama dal cellulare privato di Lestrade?” domandò la donna confusa.

“È... una storia lunga” tagliò corto. “Lui è qui ed è ubriaco. Dice che mi ucciderai quanto te lo dirò, ma non è nelle condizioni di...”
“Cazzo. È per Sophia?”
Sospiro. “Credo di sì. Sì. So che lei non sta molto bene, e non ho idea di quando Greg potrà tornare a casa. Se puoi...”
“Adesso no. Magari stasera. Passerò a dare un’occhiata”.
“Grazie”.

John mise giù. “È okay. Capisce”.
Greg annuì e continuò per qualche istante, come ipnotizzato dal movimento della sua stessa testa. “Non sto molto bene” disse a voce bassa.

“No?” lo prese in giro John con un filo d’amarezza. “Sdraiati, ti farà bene”.
Lestrade ubbidì. Il dottore lo girò su un fianco e lo osservò finchè il respiro non si fece regolare.

Dormiva come un bambino, ora. Aveva la faccia sbattuta e due occhiaie spaventose ma dormiva profondamente.
John sentì dei passi avvicinarsi al salotto. Una voce profonda e perfettamente nota nella sua mente chiamò il suo nome. “Sst” la ammonì.

“È mezzora che ti chiamo” lo apostrofò Sherlock, irritato. Addosso, solo il lenzuolo.
“E dov’eri?”
“Di sopra. In camera tua”.
“Mia?”
“Nella mia si sentivano le vostre voci. Stavo esaminando gli annunci”.

“E cosa c’è?”
“Volevo solo sapere cosa voleva Lestrade per venire a Baker Street quando dovrebbe stare lavorando solo ed esclusivamente a un caso che mi ha già affidato. E soprattutto considerato che Gregson non dovrebbe assolutamente scoprire ques’ultimo dettaglio, essendo una faccenda estremamente importante a causa di Abraham Shaw”.
John sospirò. Di nuovo. “Non è andato al lavoro oggi”.

Sherlock parve sinceramente stupito. “No?”
“No. È ubriaco come una spugna”.
“Quindi immagino che passerà tutta la notte sul nostro divano o, peggio, in camera tua o addirittura nella mia” osservò aggrottando le sopracciglia.

“Non necessariamente. Sono preoccupato per Sophia, non sta bene e lui ha detto che ‘è peggiorata’”.
“Fa come vuoi” gli disse Sherlock andando verso la cucina – e John dubitò fosse per mangiare – col lenzuolo che pareva un grottesco mantello da re, sommato alla sua andatura impostata.

“Cosa fai?” gli chiese il dottore prima che sparisse oltre la porta.
“Le stesse cose che ha fatto Chris Lawrence per preparare l’ordigno”.
“Merda”.

John diede un ultimo sguardo all’ispettore, profondamente addormentato, e salì in camera sua. Accostò la porta e si lasciò cadere sul letto a peso morto. Era preoccupato; preoccupato per Sherlock e per i suoi esperimenti. Per Lestrade, per sua moglie e per la sua dedizione all’alcool. A Greg bere non aveva mai fatto schifo, alle feste tra colleghi, a volte anche durante i casi, ma ora che lo faceva chiaramente per colpa della pena che Sophia gli dava, John provò una strana paura ed ebbe la visione eloquente di sua sorella Harriett.

Forse si assopì un attimo, abbandonato sul materasso. Ritornò in sé sentendo il muoversi rapido di qualcuno, di sotto, probabilmente Greg che si risvegliava; da Sherlock, solo silenzio.

Tornò da Lestrade in salotto e constatò che non era più quieto. Gli posò una mano sulla spalla e lo scosse leggermente. L’uomo esitò qualche secondo ad aprire gli occhi; respirava forte.

Quando finalmente lo guardò, John vide che le iridi marroni erano più lucide ora, e lo fissavano piene di ansia. Greg farfugliò solo il suo nome, in segno di saluto, e tentò di rimettersi seduto. Ogni movimento sembrava costargli una fatica estrema e il dottore si ritrovò a rivedere la sua decisione di riportarlo a casa. “Vuoi restare qui stanotte?” gli chiese, cercando di catturare la sua attenzione.

La testa di Lestrade compì uno scatto deciso e poco mirato che John interpretò come un diniego. “Sophia” disse Greg, come a giustificare la sua scelta.
“Okay” confermò John. “Non sei venuto qui in auto, vero?”
“No”.
“Allora vieni. Prendiamo un taxi”.

Il detective ispettore accettò di buon grado di farsi afferrare per un braccio e alzare quasi a peso dal divano; John lo guidò alle scale ma si accorse di avere fatto un po’ troppo rumore dallo sguardo che la signora Hudson gli lanciò. “Attento” avvertì Greg quando arrivarono al primo scalino. Lestrade lo scese, ubbidiente.

Una volta all’uscio non mollò la presa sull’avambraccio del dottore. John chiamò un taxi che accostò al marciapiede, ed evitò accuratamente di guardare in faccia l’uomo alla guida. Greg si appoggiò allo schienale e chiuse gli occhi.

“L’indirizzo” gli ricordò John sottovoce.
“Ah” disse lui senza alcuna emozione, comunicando via e numero civico con tono altrettanto neutro al tassista.

L’uomo aveva una guida piacevole, morbida. Non urtò troppo forte una buca nemmeno una volta e il dottore scrutò con occhio clinico Greg che dormiva indisturbato. Valutò di svegliarlo, qualche volta, ma non aveva un’idea troppo precisa di quanto effettivamente mancasse alla loro destinazione. Lo lasciò riposare.

“Arrivati” disse secco il tassista fermandosi esattamente davanti a una palazzina graziosa e signorile. John lo pagò, facendo attenzione a non lasciargli una mancia di cinquanta sterline come stava per fare, subito prima di accorgersi di avere sbagliato qualche calcolo. Aprì la portiera e scosse appena Greg, che grugnì. “Siamo arrivati” gli disse a voce bassa, prendendendogli il braccio. Lestrade collaborò. Una volta nell’atrio si diresse dritto all’ascensore e lo chiamò con la mano libera, appoggiandosi al muro mentre attendeva. Quasi trascinò John nella stretta cabina nel momento esatto in cui le porte scorrevoli si aprirono.

“Secondo piano” sussurrò scagliando un dito con malagrazia contro la pulsantiera. Dopo un tentativo andato a vuoto riuscì a premere il due.

L’ascensore si muoveva silenziosamente ma la sua corsa verso l’alto era evidente a John. Si sentì male e si chiese quando sarebbe finita. Poi senza un avviso di alcun tipo si fermarono, ma le porte non diedero cenno di aprirsi.

Paura. Ed ecco che strisciavano lateralmente quasi stendendogli il tappeto rosso fino ai due zerbini del piano. Greg si avvicinò a quello a destra, rosso e consumato, e si appoggiò alla maniglia accanto a cui una targhetta recitava Lestrade. Sfilò le chiavi di tasca e cercò di centrare la serratura, ma si rivelò più arduo rispetto al bottone dell’ascensore.

John gli sfilò con delicatezza l’intero mazzo di mano e al terzo tentativo trovò la chiave giusta, che girava fino ad aprire. Dall’interno provenivano dei passi leggeri che si fermarono all’ingresso, nella semioscurità.

“Greg?” chiese esitante una voce di donna, proveniente da una piccola sagoma ferma all’ingresso. “Sei tu?”
“Sì” farfugliò Lestrade appoggiandosi a John. Il dottore lo fece entrare e subito le mani di Sophia lo aiutarono a reggerlo, almeno fino al divano.

La donna lo guidò nella caduta fino ai cuscini color crema, con piccole macchioline rosse ormai secche. Alzò lo sguardo di un verde scuro e profondo solo dopo qualche istante.
“Lei è...?”
“Il dottor Watson” si presentò lui. “John Watson”.

“La ringrazio” rispose Sophia Lestrade andando a chiudere la porta, con un sorriso tirato. Il rumore del citofono la fece accorere e prendere la cornetta da un gracchiante apparecchio ben nascosto nell’ingresso. “Pronto?”
“Sono Sally, Sophia” rispose la voce del sergente Donovan. “Non credo che Greg tornerà dal lavoro stanotte. Volevo sapere se va tutto bene”

Sophia sorrise. Evidentemente capì che Sally avrebbe voluto evitarle di scoprire che Greg era ubriaco. “Sì” rispose con voce stanca. “Ciao Amy!” aggiunse poi, sforzandosi di apparire allegra.

Strizzando gli occhi John vide, nella parte bassa dello schermo, una bambina minuscola, con i codini e gli stessi ricci di Sally Donovan; gli venne da sorridere mentre la piccola agitava la manina in direzione del citofono e l’immagine piano piano tremava per poi sparire.

“Arrivederci” salutò la signora Lestrade.
“Arrivederci!”

Posò la cornetta e tornò da John. “È sua figlia. Una bambina simpaticissima, le ho fatto da madrina. Mi chiama zia” raccontò. Più per sentirsi un minimo civile che altro. “Accidenti, è tardissimo. Arrivederci, dottore. Può venire qualche volta, se vuole”.

“Mi chiami John, signora...”
“Solo se lei mi chiama Sophia” rispose lei sorridendo. Gli mise una mano bianca e curata sul braccio.
“Okay. Sophia. Cos’ha sulla maglia?”

Lo sguardo della donna cadde su una piccola macchia di sangue. “Oh, niente” disse con nonchalanche. “Sputo un po’ di sangue ultimamente. Quando tossisco”.
John ricordò cosa aveva fatto quando Greg aveva tentato di portarla all’ospedale. Non volle rischiare. “Oh. Non è una bella cosa”.

“Lo immagino”.
“Potrei darle un’occhiata, sono un medico...”
Le braccia di Sophia Lestrade si irrigidirono, ma non glielo impedì. John sentì che la fronte le scottava. “Le consiglio di andare a letto, ora. Ha la febbre” le disse piano.

La donna annuì; fece per muoversi, quando un improvviso attacco di tosse la piegò letteralmente su se stessa e le mani le si serrarono attorno alle braccia di John.

Il dottore scattò. La guardò in viso e vide che sputava sangue – tanto, troppo, più di quanto non avesse ragione di esservi, e decise che non l’avrebbe lasciata da sola con Greg in quello stato.

“Potrei rimanere qui a badare a Greg, stanotte. Lei ha bisogno di dormire”.
Sophia smise di tossire. “Va bene”.

Gli fece cenno di seguirla fino a una porta chiusa, accanto alla camera matrimoniale. Spostò uno stendibiancheria, un cesto pieno di camicie sporche di Greg e qualche altra cianfrusaglia fino a disseppellire un letto impolverato, col copriletto bianco e sporco. “È tutto quello che abbiamo” si giustificò dispiaciuta.

“È perfetto”.

Lei annuì. Uscì dalla porta borbottando un ‘buonanotte’; non passò nemmeno dal salotto, a svegliare il marito. Lo lasciò sul divano e John rimase sveglio, nell’ascolto dei suoi passi fino al letto e dei suoi colpi di tosse. Lanciò uno sguardo al pavimento della sala, e vide una piccola macchia di sangue ancora fresco.

  
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