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Autore: Lucy_lionheart    28/07/2012    1 recensioni
La neve lo colpì in viso per l'ennesima volta, senza esitazione; arrivava contro le sue labbra, aperte a tenere il ritmo di un respiro ansante e affaticato dovuto alle gambe che, ad ogni passo frenetico, affondavano nel terreno bagnato e fangoso. Il gelo gli mordeva i polpacci, nonostante fossero ben coperti dagli stivali, sentiva il vento entrargli nei polmoni e creare lì una calotta ghiacciata.
Erano fuggiti.
Lui, Eduard e Raivis erano fuggiti."

One-shot storica tra il Medioevo e l'Unione Sovietica, tutta su Toris Laurinaitis, Lituania.
Sulla sua forza,
sulla sua speranza,
sulla sua paura.
... E sulla sua Leggenda.
Genere: Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Lituania/Toris Lorinaitis
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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V i l k a s. le luci di Vilnius.













【 1945, Unione Sovietica. 】




La neve lo colpì in viso per l'ennesima volta, senza esitazione; arrivava contro le sue labbra, aperte a tenere il ritmo di un respiro ansante e affaticato dovuto alle gambe che, ad ogni passo frenetico, affondavano nel terreno bagnato e fangoso. Il gelo gli mordeva i polpacci, nonostante fossero ben coperti dagli stivali, sentiva il vento entrargli nei polmoni e creare lì una calotta ghiacciata.
Erano fuggiti.
Lui, Eduard e Raivis erano fuggiti.
Quel giorno Ivan li aveva avvertiti del fatto che si sarebbe assentato per circa cinque ore e, nella mente del lituano, quell'idea aveva sibilato come un serpente, pericolosa e rapida.
Se si fosse trattato solo della sua persona non avrebbe aspettato a correre il rischio, ma lì c'erano anche Eduard e Raivis; non voleva che succedesse loro qualcosa, né tantomeno abbandonarli - quest'ultima opzione era impossibile anche solo da pensare! -, così aveva fatto finta che nulla gli avesse attraversato la mente.
Ma quel sibilare serpentino doveva esser stato in realtà molto rumoroso, perché nemmeno un'ora dopo che i passi del russo si erano allontanati da loro, la più insospettabile tra le tre voci si era alzata.
"Andiamocene da qui, vi prego."
Aveva detto Raivis, con la mano tremante a stringere la tazza che aveva appena svuotato. Eduard, seduto a leggere, era come scattato e Toris, che invece stava mettendo a posto ciò che avevano utilizzato per consumare quel the, aveva chiaramente avvertito la gabbia toracica stringersi a morsa sul suo cuore, provocandogli una fitta capace di farlo sbiancare.
«Ci stavo pensando pure io.»
Aveva allora aggiunto Eduard, cercando poi di sorridere, rassicurante.
Toris poteva avvertire ora quell'idea urlare per tutta la stanza, spingere la loro schiena per buttarli fuori da quella casa.
Cosa sarebbe successo se il russo fosse tornato prima del previsto, o se fosse arrivata Natalia?
Ivan si sarebbe abbattuto subito su Raivis e Eduard, considerati meno problematici, per poi passare a lui.
Non sarebbe riuscito a proteggerli, in quel caso non sarebbe bastato dire di volersi prendere la loro pena, la loro dose di ferite sulla schiena, come già aveva più volte fatto, sia tenendo loro nascosto il fatto che non.
«Ne siete veramente sicuri?»
Aveva allora chiesto, guardandoli negli occhi, uno alla volta.
Gli altri baltici avevano contraccambiato e poi, avvicinandosi a Toris, annuito con decisione.
Era stabilito.
Alle nove di quella sera sarebbero fuggiti da quella prigione occulta.
Mancava una sola ora al ritorno di Ivan, quando i tre furono all'entrata delle loro terre; erano fuggiti con il cuore nella gola, portandosi dietro solo qualche vestito, oggetti stretti in un abbraccio di ricordi e un kalashnikov, caricato con proiettili che avevate trovato dove capitava.
Ivan si era portato via la chiave della stanza degli armamenti, come se sempre avesse immaginato una tale mossa dalla loro parte.
«Ora come facciamo?»
Aveva chiesto il lettone, con la voce roca per il freddo e la paura, che raggiungeva livelli adrenalinici.
«Non lo so. Dovremmo... dividerci.»
Fu la risposta di Eduard, la più sincera che mai avrebbe potuto dare.
Toris era rimasto fermo, con lo sguardo perso nell'orizzonte a osservare la linea immaginaria, un solco spesso che richiedeva di essere varcato solo con un grande passo.
C'era un'unica cosa che gli frullava nella testa, un'idea senza sicurezze né certezze, un vero e proprio salto nel vuoto.
Toris era una persona riflessiva: rifletteva su ogni cosa, dai più piccoli dettagli alle domande di curiosità, rifletteva tanto, in modo da fare la scelta giusta e non far sbagliare nemmeno gli altri.
Ma in quel momento non c'era il tempo per riflettere; c'era solo il tempo di agire.
«... Tenete.»
Aveva detto, spingendo contro il petto di Eduard il kalashnikov che fino a quel momento aveva tenuto il lituano, ben nascosto da un telo color ocra, senza badare agli occhi dell'estone che si riempivano di domande riguardanti il perché di tale gesto.
«Toris, cosa...»
«Voi proseguite assieme, io cerco di raggiungere Vilnius. Chiamate non appena arrivate a Tallinn o Riga, qualunque sia l'ora!»
Disse, imponendosi con lo sguardo severo che gli occhi azzurri avevano preso.
Poi l'espressione facciale mutò di nuovo, tornando a essere quel sorriso dolce e rassicurante che il lituano aveva sulle labbra ogni volta che si trovavano ad affrontare situazione difficili.
Eduard e Raivis erano come due fratelli minori, non voleva perderli per nessun motivo.
« Andrà tutto bene.»
Furono le ultime parole che il lituano disse loro, prima di varcare la linea ed entrare nella sua patria, totalmente disarmato e sfinito dal freddo.
Lo sguardo vagò, cercando qualcosa: non vedeva nulla, le luci della città erano soffocate dalla neve che cadeva in diagonale, sferzata dal vento ancor più gelido.
Toris non sentiva sulla sua pelle un inverno così freddo da anni.
O meglio, da secoli.
Un vero e proprio pugno di neve arrivò dritto sulle sue labbra, entrando senza chiedere permesso alcuno nella gola. Il colpo fu tanto improvviso che, improvvisamente, sentì tutta l'aria andare via e, con un gemito strozzato, si portò una mano al collo, là dove sentiva premere qualcosa con forza.
Cadde in ginocchio sul terreno bagnato, continuando a tossire e tossire, con le lacrime agli occhi, fin quando quel ghiaccio non se ne andò via, permettendogli di respirare.
Il petto si alzava e si abbassava con un ritmo irregolare, gli occhi, bagnati di neve e lacrime, fissavano ciò che avevano di fronte, quel bianco così puro.
Chissà quanto sangue c'era sotto.
La vista sfumò all'improvviso e, prima che se ne potesse rendere conto, la faccia impattò contro il duro terreno.
«Devo... devo alzarmi...»
Disse, facendo passare la frase tra i denti battenti.
Un dire che nessuno avrebbe ascoltato, tantomeno il suo corpo: lo sentiva sprofondare in quell'ovattata e gelida superficie, avvertiva quel freddo dolente entrargli sotto la pelle, scorrere nelle vene assieme al sangue, anzi, sostituendo quest'ultimo.
Se Ivan non lo avesse trovato prima, sarebbe stata la neve ad ammazzarlo.
L'aria, lentamente, in sospiri lenti e profondi, andava via da i polmoni, la vista si appannava, come poteva constatare dal vedere la sua mano sdoppiarsi e sfocarsi, fino a diventare una macchia scura in quel bianco assassino.
Anche lui tra poco avrebbe fatto tale fine: una macchia nella neve.
Era strano come il peso che ogni giorno fino ad allora aveva sopportato in modo quasi inumano lo avesse adesso buttato a terra, schiacciandolo.
Le ghiacce spire seguivano le linee di carne graffiata sulla sua schiena, danzavano su quelle cicatrici, opprimenti, facendole dolere come mai.
Sarebbe mai finito quell'incubo?
Sarebbe riuscito, Toris, ad abbandonare la zona d'ombra della guerra, raggiungendo la luce dell'indipendenza?
La libertà era la cosa che più desiderava.
Più di qualcosa di caldo, più di una cura per quel dolore alla schiena, lui voleva, desiderava, piangeva la libertà.
In quei momenti, così rari e sporadici, i ricordi lo assalivano: in quel caos calmo vedeva i tempi delle dispute con Gilbert, delle passeggiate con l'amico Feliks.
Di quando al fianco teneva la spada; la sua adorata spada, la sua forza, la sua...

"Clack."

Un rumore meccanico fece allarmare Toris, capace solo di girare gli occhi alla ricerca della fonte di quel continuo cigolare.
Sembravano... passi.
Passi piccoli, delicati e appena distanziati l'uno dall'altro, improbabili anche per un bambino.
Ma quale animale poteva esser fatto di...

" Metallo. "

Il pensiero arrivò in un attimo, fulminante.
No, non era possibile.
Quella era... era una leggenda, una leggenda e null'altro!
Impulsivamente, comandato da una forza di cui non conosceva assolutamente la provenienza, il lituano scattò, trovandosi inginocchiato di fronte a quella visione.
Non sapeva che dire, non sapeva nemmeno respirare, in quel momento.
L'unica cosa che riusciva a fare era osservare la creatura che gli si parava davanti:
Il Lupo di Metallo.
La leggenda che da secoli si tramandava di generazione e generazione nel suo paese adesso stava avanzando verso di lui, lentamente, e lo fissava con i suoi stessi occhi: un azzurro color cielo intenso e profondo, ma ben più glaciale di quello del lituano.
Erano gli occhi che aveva nelle battaglie passate.
Così, perso a fissare null’altro che quelle pupille avvolte da una maschera di metallo, Toris non si accorse di quanto vicina la creatura fosse fino a quando la nuvola del suo respiro s'infranse contro la sua.
Ma non si mosse; Toris non fece nemmeno un movimento, rimase lì, imbambolato, a osservare la neve scivolare sul pelo, avente il colore della luna.
Non c'era altro, nella sua mente sconvolta e sorpresa, che non fosse l'immagine di quel lupo che ancora lo guardava senza minimamente distogliere lo sguardo.
«Io... io ti ho già incontrato.»
Quella fu l'unica cosa che riuscì a pronunciare, facendo muovere le labbra dischiuse e seccate, esattamente come accadeva con i fiori, da quel freddo prepotente.
Il lupo quasi sembrò sorridere di quella domanda, ma non mostrò i canini, non lo fece nemmeno una volta.
Un comune animale di quel genere li avrebbe già affondati nella sua così invitante giugulare, ma quella che Toris aveva davanti era una leggenda, una divinità, un mostro e un angelo protettore senza parole.
La bestia mosse altri due passi, non lasciando nessun impronta nel manto bianco, si avvicinò ancor più al lituano, ancora e ancora, arrivando a due, no, a un solo centimetro dal suo viso e poi ad ancor meno.
Erano occhio a occhio.
Il viso di Toris, il suo profilo umano, era posato contro il muso appuntito del Lupo, sentiva a contatto la sua pelle con il metallo bollente.
Stava respirando?
No, non lo sapeva. Non sapeva quale fosse l'esatto funzionamento del cuore, dei polmoni, non sapeva se stava avendo paura, se era stupito o se, più semplicemente, era così curioso che il fiato gli era andato via.
Il blu degli occhi del lupo lo stava avvolgendo: il cerchio della cornea si era spezzato e adesso si stringeva attorno al busto di Toris, s'incatenava con la gemella dei suoi occhi.
Blu.
In quel momento tutto era blu.
Non c'era più la neve, né il dolore e la debolezza.
Si trovava nel limbo degli occhi del lupo.

" Ricorda. "

La voce sembrava arrivare dall'esterno, un’eco lontano e misterioso; era la voce del Lupo di Metallo, Toris ne era più che certo, anche se non lo poteva vedere.
Era la perfetta congiunzione dell'armonia di note emessa dal suo ululato con il parlato lituano.
Anzi, ora che Toris ascoltava bene si accorgeva che quello non stava parlando, ma continuando a ululare: le parole si trasformavano nel suo cervello, come una traduzione istantanea.
Come ciò fosse possibile non se lo chiedeva e, in quel momento, assolutamente non gli interessava.
Continuava a fissare l'infinità di quell'azzurro che si estendeva in ogni direzione senza mai aver fine.
«Cosa devo ricordare?»
Chiese, con un filo di voce, imparagonabile al tono fiero ed echeggiante che la creatura possedeva.
Poi uno squarcio aprì la meravigliosa monotonia, così improvviso e diverso che Toris sentì gli occhi bruciargli, come quando si passa velocemente dall'oscurità totale alla luce.
Lo squarcio si allargava e si allargava ancora, proprio nello stesso modo con cui si strappa una stoffa, e, in contemporanea, il corpo del castano si alleggeriva, ma non aveva paura.
Ne stava perdendo la sensibilità: ormai le gambe, il petto, le braccia e le spalle erano come spariti, riusciva solo a percepire i suoi occhi spalancarsi, la bocca cercare di rubare a quel mondo sconosciuto un respiro, prima che anche essa sparissr, assieme all'ultimo ritaglio di azzurro.
Toris era stato appena inghiottito dai ricordi.


















Buio, tutto era buio.
La notte ti aveva sempre fatto paura, odiavi passarla da solo.
Ti faceva paura quando eri nel grande castello di Trakai, figurarsi l'effetto che poteva fare in un bosco e completamente da solo.
Non ti muovevi, non ne volevi sapere; ma non perché non sapevi camminare, seppur piccolo ormai avevi imparato a farlo, anzi, andavi pure in giro nell'immenso cortile del castello sul puledro di sangue puro che il Granduca ti aveva regalato.
Lui stesso, alla seconda volta in cui lo cavalcavi, con lo sguardo fiero di un padre e le braccia incrociate al petto, ti aveva detto che sembravi nato per stare a cavallo, riempiendoti di bambinesco orgoglio.
In quel momento già ti sognavi cavaliere, non sapendo che quel sogno era più vicino alla realtà di quanto potevi mai immaginare.
«Granduca...?»
Chiamasti, sentendo l'eco della tua piccola voce arrivare fino alle punte degli alberi; la foresta stava attorno a te, scura e china, tanto che sembrava pronta, da un momento a l'altro, a lanciarsi sul tuo piccolo corpo e divorarlo.
Chiamasti ancora quell'appellativo signorile, ricevendo per l'ennesima volta in risposta solo il verso greve di qualche volatile che si alzava in volo, il cui sonno era stato interrotto dal tuo urlare.
Mai un qualcosa di simile a passi umani o, ancor meglio, a una voce, avevi udito a quelle domande: c'era solo lo scorrere incessante del poco lontano fiume Vilna e il parlare a te straniero di quelli che abitavano la foresta.
Non doveva essere piacevole ritrovarsi un bambino totalmente estraneo a urlare nella propria casa!
O almeno tu la pensavi così, nella tua mente spaventata.
Essa era tutta affollata di tali pensieri, un groviglio impossibile da sciogliere, di quelli che se tiravi un solo filo per provare a rimuoverlo, allora tutti gli altri si smuovevano, cambiavano posizione, e la situazione altro non faceva che peggiorare.
Sentisti gli occhi bagnarsi di lacrime e un groppone che fino ad allora avevi ricacciato giù salire odiosamente alla gola, facendo capolino al di fuori di essa con un primo singulto.
Quello doveva essere un giorno importante.
Il Granduca Gediminas ti aveva cercato di sua persona, senza mandare servi o valletti, dicendoti che, nelle ore serali, gradiva che tu partecipassi a un grande battuta di caccia.
Solitamente tale pregio si dava a quelli che si affacciavano sul lato maturo della vita, ma a te, per qualche strano motivo il quale tu, bambino nella tua felicità ovattata, non riuscivi a comprendere, era stato concesso ben prima.
Non avresti cacciato, però, e la cosa un po' ti rincuorava, solo assistito e imparato arti fondamentali come il saper mirare con le frecce, come farlo da cavallo e quando scoccare.
Tutte cose fondamentali per la caccia, ma, soprattutto, per la guerra.
L'insegnamento di tale arte, per voi Entità in forma umana, era successivo a quello della lingua e dalla cultura, che eravate soliti apprendere con una velocità anormale per altri bambini.
E anche le armi, così come esse, erano un qualcosa che vi riusciva quasi immediato imparare.
Fin da piccoli ogni cosa vi sussurrava all'orecchio che non eravate comuni essere umani e che, assieme al luogo in cui eravate nati, avevate nel sangue anche la propensione verso la lotta.
Era inevitabile e non avrebbe aspettato di vedervi crescere.
Arrivata l'ora della partenza verso la foresta ti eri diretto, con il cuore che batteva per l'emozione, verso l'uscita del castello, dove avevi visto, così stupefatto da aprire nuovamente la bocca, un gran gruppo di soldati a cavallo, tutti attorno al Granduca, che già tra la folla di animali e armature ti aveva individuato.
Sembrava più che stessero per andare in guerra, che a caccia!
« Toris, sei arrivato. »
«S-Sì, Granduca.»
Rispondesti, inchinandoti subito e velocemente, come se il gesto di chinare la schiena si attivasse in automatico alla vista di coloro che regnavano.
«Devo solo prendere il mio cavallo.»
Aggiungesti, con voce leggermente tremolante sempre per via dei sentimenti che pizzicavano, urticanti, il tuo piccolo stomaco.
Sentisti l'uomo sorridere, sopra di te, o forse era solo lo sbuffo del grande stallone bianco su cui sedeva, con la schiena dritta e il portamento degno di un regale uomo di spada.
« Non ce ne sarà bisogno, Toris. »
Disse, e tu, confuso e stupito, alzasti lo sguardo su di lui, uscendo da quella riverenza in cui eri rimasto praticamente bloccato.
Ma la spiegazione non tardò ad arrivare.
« Oggi cavalchi con me. »
Detto questo, sotto i tuoi occhi blu, spalancati in tutta la loro grandezza, scese da cavallo, ti prese sotto le braccia e nuovamente risalì, senza l’aiuto di nessun paggio, posandoti davanti a lui.
Eri così... in alto! Avevi visto bene, quel cavallo era davvero gigantesco!
O forse eri tu troppo piccolo, chissà.
Tenendo ben stretta parte delle briglie, eravate partiti al trotto verso l'area scelta dal Granduca.
Già prima che la luna calasse, i tuoi occhi da bambino avevano visto partire fulminee dagli archi ventine di frecce, tutte mirate a creature che, spaurite, uscivano dai cespugli per provare a scappare.
Animali di ogni dimensione, carni che avrebbero costituito leccornie per le cene di quei giorni; su tutta la selvaggina su cui l'occhio di Gediminas si posava, finiva con il disegnarsi una rosa rossa sempre vicinissima al cuore, di qualunque stazza esse fossero.
Una preda in particolare colse l'attenzione dell'attento cacciatore: un cervo di grande stazza e con gambe lunghe che gli permisero di sfuggire ben due volte dagli attacchi del Granduca.
Gediminas non era tipo che si arrendeva e tantomeno quello che si lasciava sfuggire così qualcosa da sotto il naso; vi spingeste ancor più dentro la foresta, ancora e ancora, ad un ritmo incessante che lui, ben ancorato al cavallo, poteva benissimo tenere, ma a cui tu, con le mani che si erano graffiate a forza di stringere quel misero appiglio vicino alla criniera, rischiavi presto di cedere, ritrovandoti sbalzato via.
Con un secco tirare di redini e un vocalizzo che aveva tutto l'intento d'imporsi, l'uomo fermò la corsa senza tregua del cavallo, scendendo da esso con un solo braccio.
« Aspettami qui,» aveva detto «tornerò prima che il buio si stringa attorno a te.»
Tu avevi annuito e poi seguito la sua immagine correre dietro al cervo, ormai sparito nel verde muschiato e nel marrone della foresta.
Non era tornato; il buio l'aveva raggiunto fino a sfiorargli con le dita le gambe e le braccia, ma Gediminas non c'era.
Preoccupato per la sua salute ( che qualche lupo lo avesse aggredito?) avevi camminato per chilometri e chilometri, sotto la neve che continuamente cadeva sui tuoi capelli, inumidendoli, e sulle tue ciglia.
Attorcigliasti le braccia attorno al piccolo petto, stringendo e stringendo, nella ricerca di una piccolissima dose di calore. I vestiti che avevi indossato erano pesanti, ma la notte si stava rivelando mille volte più fredda del previsto.
La neve, nella quale affondavi fino a sopra i polpacci, era entrata dentro le tue scarpe, raggelando i piedi, che adesso sentivi gonfi e... no, come non detto, non li sentivi proprio.
I geloni, ormai anche sulle tue mani arrossate, rendevano ogni passo una tortura: non erano solo la fatica e il freddo a spomparti, ma anche la paura di non riuscire a trovare nessuno e venir portato via da qualche bestia che popolava le foreste del Granducato.
" Ho tanto sonno... "
Quel pensiero emerse sopra tutti gli altri, più e ancor più volte.
“Plof”.
Le tue orecchie avvertirono con chiarezza un tonfo sordo e ovattato; cos'era stato?
Per un momento avevi chiuso gli occhi e...
Oh.
Eri tu, caduto di lato in quel manto candido, tanto bello quanto tremendo.
Cercasti di tirarti su una volta, due, ma nulla riusciva a far muovere nemmeno di un centimetro la tua piccola figura dal terreno.
Il tuo intero essere era intorpidito, nulla rispondeva ai tuoi comandi mentali e, soprattutto, non ne partivano in nessuna parte del tuo cervello.
L'unico sforzo, che in quel momento ti sembrava una vera guerra, era quello di combattere in continuazione contro le tue palpebre, così tremendamente pesanti, che imploravano perché lasciassi loro chiudersi.
Desideravi così tanto la tua camera, nel castello di Trakai; era una stanza dalle altre soffitta, con un letto a baldacchino che lui aveva sempre considerato troppo grande e sui aveva anche difficoltà a salire, a causa dell'altezza. Sembrava di dover montare a cavallo!
La notte dormivi sotto tutte quelle coperte e quelle pelli, intrecciate tra loro in modo da creare una barriera che non facesse entrare, là dove era nascosto il tuo corpo, nessuno spiffero, con la testa posata su i cuscini che la donna affidatati provvedeva a sistemare nel giusto modo.
La ringraziavi gentilmente ogni sera e lo facevi nuovamente quando ti narrava qualche gesta dei re, considerate quasi leggende, alla luce fioca e calma di una candela.
Quel ricordo ovattato altro non faceva che invogliarti a chiudere gli occhi, abbandonandoti a quella sensazione di torpore, che si fece sentire con un leggero sbadiglio, il quale volò via dopo poco in una nuvola di condensa.
... Un leggero sonno... qualche ora, forse, te la potevi permettere... avresti lasciato fare da coperta alla neve...
Ma fu proprio quando gli zaffiri stavano definitivamente per chiudersi che il cielo venne squarciato dal boato più forte che le tue orecchie mai avessero potuto sentire.
Ululati; non uno, ma... cento!
Cento lupi che, con una coordinazione tale da risultare una melodia monodica, ululavano con tutta la loro voce.

Ma davanti a te ne stava uno solo.
Inerme, osservasti l'animale che stava a un metro di distanza da te: il suo pelo era argenteo e su di esso, teneva una vera e propria armatura di metallo.

"Dev'essere un Re."

Pensasti; il Re di quella foresta, a cui i corvi, i conigli e i cervi erano sudditi, così come gli altri lupi.
E, così come gli altri lupi, anche quello si sarebbe dovuto già esser lanciato su di te, a divorare la tua carne offerta su un piatto d'argento dal freddo inverno.
Ma non lo faceva, rimaneva lì, a fissare i tuoi occhi blu, in cui tutto c'era meno che la paura verso la sua figura.
Non avevi  timore di quella grande creatura corazzata, anzi... ti dava fiducia.
Forse perché era l'unica cosa che in quella solitudine avevi incontrato o forse perché, a differenza di tutti i lupi che avevi incontrato fino a quel momento, non ti aveva mostrato le due fitte file di denti appuntiti e sporchi di sangue di altre vittime, lasciandoti nel dubbio del fatto che esse fossero animali o umane, ma, semplicemente, aveva ululato -forse per svegliarti.- ed era rimasto a guardare la tua persona.
Dovevi dirgli qualcosa.
Non sapevi cosa, non sapevi perché e quanto potesse essere utile parlare con un lupo ( anche se tutto te stesso urlava che quello era un essere al di sopra sia degli altri lupi, che degli animali, che degli uomini. ), ma dovevi.
Allungasti appena il corto braccio sinistro verso quella enigmatica figura, facendolo strisciare sulla neve, troppo debole pure per riuscire ad alzarlo.

« ... Vilkas...»

Lo chiamasti nella tua lingua, con l'unico filo di voce che ti era rimasto nell'ormai secca gola e l'animale fece scattare due volte le orecchie, sbattendo gli occhi dal taglio stretto.
Solo ora, vedendo l'ennesima nuvoletta di condensazione, dovuta alla tua precedente frase, alzarsi verso il cielo, notasti che dalle sue narici e dalla sua bocca, ben serrata, non usciva nulla.
All'improvviso, con un cigolio metallico, il lupo mosse passi lenti e pesanti, dovuti probabilmente proprio a quella regale armatura, che si fermarono solo quando le zampe anteriori furono tremendamente vicine alla punta del tuo naso.
Fatto ciò girò attorno a te un paio di volte, stringendo ogni volta i cerchi e piegando di qualche centimetro le ginocchia, fino a quando non si trovò seduto acciambellato attorno al tuo corpicino.
Oh.
Voleva che ti accoccolassi...?
Lo osservasti, mentre posava la testa sulla zampe e abbassava le orecchie, socchiudendo gli occhi; forse voleva dormire anche lui.
Quasi intimidito, riuscisti a sollevare di un poco il busto, quanto bastava per posarlo poi nuovamente, assieme alla testa, sul ventre metallico.
Era... caldo! Quasi bollente! Un calore già di per sé innaturale per un animale e per un'armatura, in quella stagione, poi...
... poi, in verità, non t'importava più di tanto.
Il calore che sprigionava il Lupo di Metallo era tremendamente accogliente, inoltre l'armatura copriva qualunque rumore, che fosse esterno o direttamente interno al canide .
Non pensavi, nella tua ingenuità e nel torpore, che il silenzio proveniente dal petto di pelo argenteo o il fatto che esso non si alzasse e abbassasse con il respiro, fosse dovuto a ben altro motivo e natura.

«Grazie mille, Vilkas.»





















Adesso Toris ricordava tutto.
La mattina a seguire il Granduca Gediminas, reggente in quell'anno, il 1323, lo aveva trovato addormentato a terra, vestito solo dalla neve.
Il suo corpo si era tramutato da quello che pareva possedere un bambino di quattro anni a quello di un ragazzo che sfiorava con la sua altezza la quindicina.
Stretta tra le mani e posata tra il suo zigomo destro e il terreno, teneva una spada dall'elsa intrecciata e argentea; metallo puro e lucente, da cima a fondo.
Assieme a quella spada, quel giorno, aveva trovato il suo cuore: Vilnius.
Al Granduca era apparso in sogno l'essere che lui aveva toccato con le mani e con il volto e l'oracolo aveva interpretato tutto quello come un segnale: gli dei volevano che Gediminas fondasse la nuova capitale là dove quella notte si erano persi, nella collinetta in cui il fiume Vilna s'immetteva nel più grande Neris.
Mai il suo cuore aveva battuto forte come allora.
Da quel giorno non si era più separato da quella spada: l'aveva chiamata "Vilkas".
Il nome era stato deciso nell'esatto momento in cui il suo addestramento come cavaliere era iniziato -rivelandosi soddisfacente ben fruttuoso-, scelto in quanto i disegni sull'elsa sembravano proprio gli smerli che possedeva anche l'armatura di quel lupo, suo salvatore, e perché ogni volta che l'usava, tagliando con la sua liscia lama l'aria, il rumore che sprigionava, a detta sua e di tutti coloro che l'avevano potuta ascoltare, pareva proprio l'ululato di un lupo.
Con lei aveva combattuto le più grandi battaglie: fedele compagna, si era sempre abbattuta con forza e velocità sul nemico, affondando nello sfortunato così come i canini di quelle bestie affondavano nelle giugulari .
Aveva continuato a portarla al fianco, stretta nel fodero di puro metallo, fino a quando l'era delle spade e delle lame non si concluse, lasciando spazio a quella della polvere da sparo.
Allora l'aveva riposta proprio a Vilnius, nella Cattedrale omonima; doveva essere in quel momento che la memoria di quell'incontro era iniziata a scemare e, assieme ad essa, anche la forza e il vigore che Toris aveva in passato.
Aveva perso quello che serviva per essere un cavaliere, era solo un misero soldato, i cui fili erano tenuti da qualcuno che poteva usarlo come un alleato e trattarlo come un servo allo stesso tempo.
Quell'ultimo pensiero scatenò in lui una fiamma, che veloce salì fino agli occhi d'azzurro tinti, i quali fissarono le coppie dello spirito rivelatore.
Sembrava quasi che gli stesse sorridendo.
«Perdonami per averti dimenticato.»
Disse e questa volta il lituano sorrise al Lupo, ancora di fronte a lui, alzando un braccio verso il suo pelo come era già successo.
Anche allora il grande animale argentato e metallico emise uno sbuffo e, con gli stessi passi, si avvicino ancora e ancora a Toris, fino a quando il lituano non poté stringerlo tra le braccia infreddolite, chiudendo gli occhi.
La sua corazza era bollente come ricordava.
Un centinaio di ululati raccolti in una solo fonte ruppero nuovamente l'aria, salirono fino alle nuvole grigie e ghiacce, squarciandole e lasciando filtrare tra esse i raggi di un sole tepido, ma bellissimo.

Quando Toris aprì gli occhi, disturbato dalla lucentezza di tale stella, il Lupo di Metallo non c'era più.
Al suo posto, tra le braccia, il lituano aveva un fucile dalla canna argentea e splendente, che si tingeva dei colori dei raggi quando essi battevano lungo il metallo.
Toris lo guardò, esterrefatto, passò le dita dal manico scuro per tutta la sua superficie, fino a cerchiare il foro da cui uscivano le pallottole con il pollice sinistro.
Fatto ciò, ancora più curioso di osservare quell'arma apparsa nel nulla, lo voltò dall'altra parte e subito qualcosa colpì i suoi occhi: il dito indice, delicato, passò negli interni dell'incisione argentea che stava sul basso della canna, in carattere corsivo; mano a mano che lo faceva sulla sua bocca si delineava la pronuncia della lettera appena analizzata e, soprattutto, un sorriso sempre più largo e speranzoso.

«" Vilkas ". »

Lesse, con una mezza e stupita risata finale.
Gli veniva quasi da piangere, tanta era la commozione in quel momento e, soprattutto, i pensieri che nella sua mente arrivavano tutti assieme, come tanti e rumorosi fuochi d'artificio.
Con un sorriso e una ritrovata luce negli occhi, Toris si alzò in piedi, pulendosi la neve dalle ginocchia e rimettendosi in cammino, con Vilkas in spalla e la testa dritta.
C'era ancora speranza, e non poca.
La Lituania poteva spezzare quelle catene così pesanti che per fin troppo tempo si era trascinata silenziosamente dietro.
Questo perché mai, fino ad allora, aveva creduto di poterle rompere a mani nude, negando ostinatamente la forza che in passato, come un uragano di lame, aveva travolto tutti quelli che in passato gli davano battaglia.
Adesso aveva finalmente ritrovato la volontà di usare quella forza, di prendere in mano quelle catene e tirare fino a quando gli anelli non sarebbero saltati; così facendo ci si poteva indubbiamente ferire le mani, ma Toris di quello non aveva la ben ché minima paura.
Avrebbe combattuto fino alla fine, avrebbe lasciato che la polvere da sparo entrasse nei suoi polmoni, assieme alle pallottole, per non andarsene mai più, avrebbe fatto di tutto per poter assaporare nuovamente, un giorno, il profumo della libertà.
In quell'esatto momento per Toris cominciava la vera lotta, quella per difendere un diritto che la vita aveva dato a lui e a tutto il suo amato popolo.

Pochi passi da lui, a nord, le luci di Vilnius iniziavano ad accendersi.










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Ed ecco conclusa quest'one-shot-
L'ho scritta parecchio tempo fa e mai pubblicata... spero sia stata una buona idea farlo x°
E spero anche di ricevere commenti, apprezzamenti o consigli!
Mi rendo conto che su Hetalia ho pubblicato tutte cose su Toris, qualcosa su Gilbert e  altro su Toris e Gilbert insieme. -MUORE-
Oh beh, spero apprezzerete lo stesso!

Un bacio,

Valkyrie.
   
 
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