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Autore: MariaChiraOtaku    29/07/2012    0 recensioni
Irene è una ragazza. Nonostante le apparenze non è affatto una ragazza comune. Un evento passato l'ha cambiata e il solo conforto che trova è la musica. Fidarsi degli altri è difficile e l'intrusione del Suonatore, ragazzo misterioso che porta sempre la chitarra in spalla, le farà vedere una nuova faccia di sé.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Irene accese l’ipod e la prima canzone, scelta tra le duemilasettecentodieci che aveva fu “Lonely Day” dei System of a Down.
Sorrise, pensando che tra tutte le canzoni che aveva, il caso aveva scelto proprio quella più adatta alla sua giornata. La prima strofa iniziò, lenta, e la voce malinconica del cantante, che copriva appena un leggero accompagnamento di chitarra, diede il via alla canzone.
Irene si immerse completamente in quelle parole, come faceva quando sentiva un pezzo che le faceva battere il cuore. In effetti il suo era proprio un “Lonely Day”.
Era seduta all’uscita della metropolitana di Napoli, fermata Vanvitelli. Osservava la gente uscire ed entrare frettolosamente. Erano molti i ragazzi che correvano fuori, zaino in spalla. Lei il suo zaino lo aveva e stava aspettando Enrica, la sua compagna, quel giorno assente, per darle le fotocopie date loro quel giorno. Sentiva una noia totale pervaderla.
Improvvisamente la canzone si accese di mille sfumature: due chitarre davano il colore più forte, mentre la batteria, suonata con forza e vigore, sfumava i colori, per dare loro un ritmo ordinato, perché senza un ritmo preciso nessuna canzone sarebbe tale.
Il cantante ruggì le parole del ritornello, e per un attimo Irene, prima sobbalzò, poi dimenticò il mondo, per volare su, in Paradiso, guidata dalle parole gridate dal cantante.
Un secondo dopo la canzone tornava più lenta, ma le chitarre e la batteria continuarono a suonare, come a non voler lasciare la scena, ora che finalmente si erano fatte sentire.
La musica è così, si diceva Irene. La musica è rabbia, dolore, grida e amore. Non è solo un ritornello ripetuto all’infinito. La musica è creare con uno scopo, perché senza uno scopo nessuna canzone avrebbe alcun senso. Per scrivere una canzone bisogna provare sentimenti forti che la facciano nascere, che le diano una forma.
Come “One Love” degli U2, una canzone di sicuro non nata per caso. Eppure in quel periodo le sembrava che nessuno scrivesse la musica per dare sentimenti, ma solo per prendere soldi.
Soldi, soldi e ancora soldi; il mondo girava su quei pezzi di carta. Eppure lei sperava che la gente, prima o poi, avrebbe smesso di chiudere gli occhi alle emozioni solo per poter guadagnare un centesimo in più.
Mentre lei pensava, la canzone finì, con un’ultima, triste, nota lunga.
Irene sospirò, sentendo che anche l’ultima nota della canzone era sfumata.
Lei amava la musica. Però non le piaceva farlo sapere. Non voleva che gli altri la guardassero ammirati, pensando a quanti brani erano caricati sul suo ipod, non voleva parlare di musica con gli altri, perché pensava che gli altri non potessero capire i suoi gusti, fatti di acuti accordi rock, grida selvagge lanciate degli Skillet. Nella sua playlist non c’erano i cantanti POP in voga quel momento, ma brani vecchi, gli stessi che probabilmente ascoltava suo padre quando aveva ancora tutti i capelli.
Se gli altri adoravano eroi come Napoleone o Garibaldi, lei adorava gente come John Lennon o Kurt Cobain. E non perché non volesse studiare gli eroi storici, ma perché sentiva che i cantanti che lei adorava avevano lasciato qual cosa al mondo, con le loro canzoni.
Garibaldi aveva unito l’Italia ma i Beatols avevano fatto gridare di gioia milioni di persone. Con la differenza che del primo non rimaneva che cenere e una lapide, mentre degli altri restavano canzoni come “Yellow Submarin” o “Let it Be” o “Help”. Canzoni che avevano un senso, che erano state scritte grazie ad ispirazioni profonde e che ancora si sentivano passare in radio.
Irene stava pensando a questo, quando vide Enrica uscire dalla metrò. Era pieno Febbraio e il tempo non era dei migliori. Il freddo pungente congelava le mani e il vento soffiava ghiacciato su tutta la città, scacciando l’odore di smog. Nonostante ciò Irene sentì che il suo cuore, alla vista di Enrica, si riscaldava e che il suo “Lonley Day” finiva lì.
Irene si alzò dalla sua postazione e si avvicinò all’amica.
- Hey – la salutò. Enrica la salutò con la mano.
- Non so come ringraziarti – le disse, mentre la compagna le prendeva le fotocopie dalla borsa.
- Figurati – le disse, passandogliele. Le fotocopie erano di Greco, materia principale del liceo classico, e il giorno dopo avrebbero dovuto affrontare un temibile, terribile, terrificante compito in classe.
Irene trovava che fosse molto divertente vedere la reazione dei suoi compagni quando sapevano la data del test.
Prima paura, perché un compito fa sempre paura, poi speranza, quando sentono di una data lontana, perché sapere di avere due settimane… per un ragazzo tre giorni sono già un periodo immenso di tempo. Comunque la speranza diventa tristezza quando vedono i giorni diminuire: due settimane diventano dieci giorni, dieci giorni una settimana e una settimana quattro giorni.
Già, perché anche i professori si divertono a vedere la paure crescere nei loro studenti. Forse perché, dopo tutto, anche loro hanno bisogno di un po’ di divertimento, sadico, certo, ma pur sempre divertimento, perché ripetere all’infinito la scuola deve essere noioso, a un certo punto.
Enrica prese le fotocopie con cura, come se trattasse di documenti della massima importanza che meritavano un trattamento perfetto.
- Paura per domani? – le chiese Irene, osservando l’amica.
Enrica era il genere di ragazza che lei adorava: non molto forte fisicamente o brillante nello studio ma di una dolcezza incredibile.
La ragazza si passò una mano tra i lunghi capelli neri e sbuffò. – Io ho sempre una paura del cavolo prima dei compiti in classe, penso sempre di non essere abbastanza pronta… ma forse non si è mai abbastanza pronti per una versione di greco -.
Irene sorrise: aveva incontrato Enrica al liceo. Si conoscevano da quattro anni, ormai.
Al liceo Irene aveva incontrato altri ragazzi e ragazze ed aveva stretto salde amicizie con tutti loro.
C’era però un dettaglio che stonava, nella sua vita, un segreto che mai aveva rivelato, ma che l’affliggeva sempre. Per colpa di quel segreto aveva il terrore di restare sola con una persona e temeva la vicinanza degli altri.
Enrica, però, era diversa. La sua bontà e la sua gentilezza l’avevano toccata nel profondo, facendo scattare in lei qual cosa. Aveva, grazie ad Enrica, incontrato altri amici e non temeva più la vicinanza degli altri ed ora si fidava di lei, anzi. Come diceva la canzone dei Police, lei era dipendente dall’amica, perché Enrica sapeva cosa significasse avere amici profondi e veri ed era l’unica che le potesse insegnare cosa fosse la fiducia.
- Allora, da che parte vai tu? – le chiese l’amica. – Io pensavo di andare a piedi ma tu hai bisogno della metrò… -
- Oh, posso andare anche da sola – la confortò Irene. – Devo tornare a casa subito oppure il nonno mi fa due palle per aver fatto tardi -.
Enrica sorrise quando vide Irene fare una faccia buffa e immusonita che doveva essere quella di suo nonno.
Irene fu felice di averla fatta ridere così la salutò soddisfatta e si avviò giù per le scale della metropolitana, con la musica accesa.
Mentre scendeva, però, non poté fare a meno di notare che il Suonatore era lì anche quel giorno.
Il Suonatore era il nomignolo che aveva affibbiato a un ragazzo di circa diciotto anni che stava sempre sotto la metrò a suonare. Che fosse Maggio od Ottobre, non aveva importanza, lui era lì, con la sua chitarra e l’amplificatore.
Suonava per ore canzoni malinconiche e dolci, che Irene conosceva fin troppo bene, e le cantava con la sua voce angelica. Erano le stesse canzoni che lei ascoltava con l’ipod e talvolta si trovava a sussurrare le parole della canzone che il Suonatore stava eseguendo.
Quel giorno era di fretta, ma gli lasciò comunque qualche moneta. Il Suonatore la ringraziò con un gesto della testa, perché non poteva di certo interrompere “Stuck in a Moment” degli U2 per ringraziarla. Sarebbe stato oltraggioso, come interrompere uno spettacolo teatrale.
Irene si tolse per un attimo le cuffie e sentì le parole del ritornello rimbombare nella metrò, accompagnate dalla chitarra.
“Sei bloccata in un momento e non riesci ad uscirne” cantava il Suonatore, con gli occhi socchiusi.
Chissà, forse in quel momento immaginava di non essere sotto una sporca metropolitana di Napoli, ma su un palco luminoso a Roma, pronto a far impazzire con la usa voce centinaia o magari migliaia di persone.
Irene poteva quasi vederlo, il Suonatore, con quella sua zazzera nera e gli occhi azzurri, che vedono tutto in modo diverso, più bello di quanto non sia.
Irene immaginava la voce del Suonatore che riempiva i cuori della gente, perché il Suonatore cantava con il suo, di cuore, e sperava che le persone lo accogliessero e gli donassero il loro.
Il Suonatore completò perfettamente la canzone ed aprì gli occhi, mentre sentiva sfumare l’ultima nota.
E, quando aprì gli occhi, ritornò alla metropolitana, alla puzza di umido, ai centesimi sparsi sul fodero della sua chitarra, usato come raccogli monete.
Irene riuscì a vedere la tristezza insinuarsi in quegli occhi chiari e il corpo forte del Suonatore si afflosciò, perdendo tutte le forze che aveva acquisito durante il brano.
Lui si schiarì la voce e si voltò casualmente verso di lei. Irene gli rivolse un sorriso malinconico, poi si rimise le cuffie e riprese a camminare. La canzone degli U2 le sembrava perfetta per lei. Ricordava ancora ogni dettaglio della sua notte da incubo. Ricordava il dolore e la paura. Le grida e gli strilli.
“Sei bloccata in un momento… e non riesci ad uscirne”.

  
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