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Autore: MariaChiraOtaku    08/08/2012    0 recensioni
Irene è una ragazza. Nonostante le apparenze non è affatto una ragazza comune. Un evento passato l'ha cambiata e il solo conforto che trova è la musica. Fidarsi degli altri è difficile e l'intrusione del Suonatore, ragazzo misterioso che porta sempre la chitarra in spalla, le farà vedere una nuova faccia di sé.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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- Hey?! – gridò, entrando nella casa del nonno.
- Sei in ritardo: tua madre ha chiamato una decina di volte, qui. Ma dico io: quegli oggetti malefici che chiamate cellulari… mi spighi perché non lo usi un po’, tu? -.
Irene sbuffò e si diresse in salone. La casa del nonno non era molto grande, ma tanto da quando era morta la nonna lui ci viveva da solo.
Era composta da un salottino con un enorme televisore, sempre sincronizzato su un canale sportivo. Il nonno guardava qualsiasi tipo di sport, dal calcio alle freccette; dalla morte della nonna, poi, sembrava che la televisione fosse la sua unica amica al mondo.
C’erano due stanze da letto; la prima per il nonno composta da un grande letto matrimoniale, perché lui diceva di non riuscire a dormire in un letto piccolo e stretto. L’altra, invece, era per Irene, quando si fermava a dormire da lui. I genitori di Irene erano entrambi commercianti e lavoravano per una grande industria di oggetti come stampanti o fotocopiatrici e, molto spesso, erano costretti a fare lunghi viaggi di lavoro per proporre il prodotto a nuovi negozi.
Comunque Irene trovava piacevole strare dal nonno perché lui le raccontava sempre tante cose su tutto.
Ormai lei aveva diciassette anni ma rimaneva sempre a bocca aperta sentendo le storie del nonno, che le raccontava degli anni passati. Il nonno veniva dalla Puglia e le raccontava del tempo speso a raccogliere la frutta dagli alberi, a schiacciare l’uva e a fare la passata di pomodoro.
Lei in Puglia c’era andata da piccola e non ricordava molto, ma a sentire suo nonno sembrava che il tacco dello stivale fosse il luogo più bello del mondo.
Un giorno, quando era più piccola, Irene gli aveva chiesto perché avesse lasciato la Puglia, se l’amava tanto.
Il nonno aveva sorriso tristemente, e le aveva detto che aveva incontrato sua nonna. Lei era lì per l’estate e si erano incontrati al mare.
- Quanto era bella – diceva il nonno, con fare sognante. – Alta e snella, capelli marroni scuri scuri e occhio verdissimi. A vederla…sembrava una dea. Ma forse era così bella solo ai miei occhi – diceva grattandosi la testa pelata.
Lui si era presentato e, da vero gentiluomo, le aveva offerto di cenare con lui. La nonna aveva accettato di buon grado; la mamma le aveva detto molte volte che il nonno aveva un fascino particolare. Non era bellissimo, ma nei suoi gesti e nei suoi sguardi c’era qual cosa, come una consapevolezza innaturale che portava tutti a fidarsi di lui.
Il nonno parlava di quando, poi, si era trasferito a Napoli pur di stare con la nonna. Nel giro di due anni si erano sposati e avevano dato alla luce tre magnifici figli.
Irene conosceva quella storia a memoria ma la trovava molto dolce: nel profondo lei desiderava un ragazzo che solo per stare con lei lasciasse tutto e tutti.
Irene raggiunse il tavolo da pranzo, che permetteva di vedere il salotto e iniziò a mangiare.
- Tua madre dice che tornerà stasera – l’avvisò il nonno, distratto però da un tiro particolarmente preciso di un giocatore di freccette.
- E Antonio? – chiese Irene. Quella era una cosa che aveva sempre sorpreso tutti. Lei tendeva a chiamare il padre con il nome di battesimo e non “papi” o “papà”.
Non sapeva da cosa derivasse questa abitudine, ma a suo padre non sembrava dare fastidio, così lei non ci dava peso.
- Torna anche lui tardi – le rispose il nonno. – Tu hai le chiavi di casa? Altrimenti prendi pure le mie, basta che me le riporti, poi -.
- Non fa niente, ho le miei – lo tranquillizzò Irene, iniziando a mangiare la pasta che il nonno le aveva conservato. Il nonno era l’unico uomo che Irene conosceva capace di cucinare. Lui diceva che la nonna gli aveva insegnato tutto e i suoi piatti erano deliziosi.
Lei mangiò velocemente, pensando che, magari, poteva andare a studiare al parco, invece di stare chiusa in casa.
Finito il pranzo salutò il nonno e uscì.
La casa del nonno si trovava in una traversa della zona ospedaliera e per arrivare al parco Irene prese la metrò.
Erano circa le tre e non c’era molta gente per strada e Irene fu abbastanza fortunata da trovare un posto a sedere.
Accese la musica e si immerse nel suo mondo, fatto di accordi e note.
Le piaceva paragonare le persone alle note: riconosceva le ragazze bellissime e sinuose, quelle che facevano parte dell’assolo, quelle che lasciano tutti senza fiato per la loro perfezione e bellezza. Con un colpo d’occhio identificava la prima note, quella che dava il via alla magia, grazie alla quale ti prepari al brano, anche se spesso la prima nota è bugiarda, perché non ti dice da subito quale sarà il ritmo della canzone. In genere erano i ragazzi e le ragazze più sicuri di sé, perché sanno che nessuno potrà mai sbagliare la prima nota di una canzone.
E poi, in un angolo, trovava le ultime note, quelle che chiudono le canzoni. Lei, però, non odiava quelle piccole note, in genere evitate, perché danno fine alla magia. Lei pensava che le ultime note fossero quelle più belle e sincere. Sono quelle che hanno aspettato tutto il brano prima di farsi sentire, un po’ per imbarazzo, un po’ per paura. E, alla fine, dopo aver ascoltato tutte le note che le avevano precedute, eccole là. Le ultime note sono quelle che ti guardano negli occhi, perché vogliono essere considerate. Ma vogliono anche scavarti dentro, per capire se hai recepito il significato del brano. Non vogliono sminuire le altre note anzi: cercano in tutti i modi di allungarsi, perché più l’ultima nota e lunga più la magia si prolunga a sua volta e chi ascolta ha la possibilità di ripensare a tutta la melodia.
Poi c’erano le note di mezzo. Lei era una di quelle.
Le note di mezzo non sono altro che note suonate così, per un secondo, a cui nessuno da peso. Tutti nascono come note di mezzo, sta poi a loro cercare di diventare parte di un assolo. Se solo tutte le persone cercassero di elevarsi... il mondo sarebbe stato pieno di note d’assolo. Quando Irene era piccola immaginava che prima o poi tutte le persone del mondo sarebbero diventate parte di un unico assolo e, allora, il mondo avrebbe avuto ovunque lo stesso ritmo e tutto il dolore sarebbe passato.
Ora, a diciassette anni, sapeva che non era così. Lei stessa non era diventata una nota importante. Era rimasta una nota di mezzo, inutile a molti. Vedeva le altre note e provava una fitta di invidia che cercava in genere di sopprimere con la musica, per questo ascoltava sempre brani rumorosi. Temeva il silenzio dei brani tranquilli, soprattutto nei giorni più duri, quando la malinconia si fa più forte e ti prende dritto al cuore, stringendolo in una morsa improvviso.
In quei giorni lei si rifugiava dal Suonatore.
Si sedeva sui gradini della metrò e lo ascoltava cantare. Non le importava che non stesse suonando per lei: solo il fatto che la sua voce risuonasse nella metropolitana la faceva sentire meglio di qualsiasi altra musica.
Scese dalla metrò alla sua fermata e si avviò al parco.
Notò che il Suonatore non era alla metrò, ma si disse che doveva essere andato a mangiare. Pensò che senza la sua musica, la metrò sembrava molto più triste e fredda.
Uscì dalla stazione e si diresse alla Floridiana, un grande parco nella zona del Vomero. La Floridiana, però, si era rivelata troppo costosa da mantenere e il sindaco aveva chiuso molte stradine che rendevano il parco meraviglioso, riducendola a una sola lunga via di mattoncini con un grande prato alla fine.
Nonostante ciò a lei piaceva e ci andava ogni volta che poteva anche se d’inverno non c’era molta gente, perché la pioggia cadeva quasi ogni giorno su Napoli. Ma a lei non dispiaceva la solitudine: con la musica nelle orecchie sentiva che, dopo tutto, la presenza degli altri non era poi così essenziale, anche se di certo non le dispiaceva stare con i suoi amici piuttosto che affrontare la città da sola.
Sia affrettò per le strade di Napoli. Se c’era una cosa che le piaceva dell’inverno era che il freddo costringeva tutti a tenere la testa bassa e le mani in tasca per potersi riparare dal vento, quindi lei non era costretta ad incrociare gli occhi della gente.
Raggiunse il parco in poco tempo e cercò subito un punto comodo per sedersi e lo trovò sotto un grande albero rotondo.
Come aveva previsto la Floridiana era praticamente vuota, a parte poche persone che si erano avventurate fuori nonostante il brutto tempo e vari barboni, accasciati sotto gli alberi o sulle panchine.
Irene spense l’ipod e aprì il libro di greco.
Odiava studiare o leggere con la musica nelle orecchie: credeva che leggere significasse ascoltare la voce dello scrittore narrare la storia dei personaggi. Ascoltare la musica è leggere era come parlare al telefono e guidare contemporaneamente. Alla fine non coglieva il senso né di quello che leggeva né di quello che ascoltava e questo le dava sui nervi.
Erano passati circa dieci minuti, quando sentì un accordo di chitarra. I suoi occhi si alzarono, come in automatico, cercando la fonte della musica. Reagiva d’istinto, perché la musica la chiamava.
Identificò la fonte della musica in poco. Riconobbe il Suonatore, seduto al centro del prato, che suonava una delle sue canzoni preferite: “Wonderwall”, degli Oasis.
La voce del Suonatore si levò, dolce e armoniosa. Irene iniziò a seguire il tempo della musica con il battito del piede ma, quando la canzone arrivò al ritornello, non poté fare a meno di cantarlo.
Il  Suonatore si accorse della sua entrata in scena e le fece un piccolo sorriso.
Irene arrossì, ma non smise di cantare. Quando iniziava non smetteva, soprattutto se doveva cantare la canzone che più amava. 
Il Suonatore aumentò leggermente la velocità, ripeté la strofa e arrivò di nuovo al ritornello. Irene sorrise, quando vide che la mano del musicista scendeva velocemente sulle corde della chitarra, per suonare gli accordi con forza e gentilezza insieme, in un mix che rendeva la canzone piacevole.
Intanto Irene gli si era avvicinata. Il Suonatore compì l’accordo finale e lasciò che le corde si fermassero da sole, in modo che il suono sfumasse piano e dolcemente. L’accordo riempì il prato, echeggiando per il parco e illuminando quel freddo giorno d’inverno.
Poi il Suonatore alzò lo sguardo su Irene, che gli sorrise.
- Sei bravo – gli disse lei, sinceramente.
Lui alzò le spalle. – Si fa quel che si può – le rispose con modestia.
- Ti sento sempre in metropolitana -.
- Già, ti ho visto spesso e poi mi dai sempre dei soldi quando suono. Devo a te circa il cinquanta per cento di quello che ricavo! -.
Irene rise. – Mi piace la musica che suoni – lo informò.
- Mi fa piacere, ormai non sono molti quelli che conoscono i brani che suono ma molto spesso vedo che gli adulti si fermano e mi ascoltano quando suono canzoni dei Genesis o degli ACDC -.
Irene annuì e calò un momento di silenzio. – Piuttosto – le disse lui, dopo qualche secondo. – Tu canti bene -.
Lei arrossì violentemente. – Ma no, tutti dicono il contrario, invece -.
 - Allora tutti si sbagliano. Che dici di cantare ancora con me? – le propose, accennando un accordo.
Irene si disse che non doveva, che da persona matura qual’era avrebbe dovuto rifiutare a andare a finire di studiare il suo greco, perché non poteva permettersi un brutto voto. E stava anche per farlo, ma poi riconobbe in quegli accordi la canzone “Don’t go Away” e non poté non accettare.
Cantò a voce all’inizio bassa, poi si sciolse e cominciò a gridare. Sentiva le note del Suonatore entrarle dentro e non pensò più che le persone li guardavano divertiti, non pensò al greco né che stava passando il suo tempo con uno strano ragazzo del tutto sconosciuto.
Sentiva solo la sua voce e quella del Suonatore, accompagnata dagli accordi della chitarra.
La canzone era gentile, ma non lenta perché gli Oasis sono capaci di cantare canzoni d’amore senza mai perdere il loro accento da rockettari.
Quando il Suonatore concluse la canzone Irene aveva il fiato corto. Sentiva il corpo fremere e uno strano piacere dentro, consapevole di aver cantato troppo forte e con troppa foga.
Nonostante ciò il Suonatore sorrideva. – Vedi che canti bene! – li disse, battendo le mani per un applauso.
Irene abbassò il capo a mo’ di inchino e lui rise.
Poi le porse la mano. – Giulio – si presentò, dando finalmente un volto alla maschera ignota che vedeva da un anno ormai.
- Irene – gli disse, stringendo la mano. Sentì le mani ruvide e le dita callose, tipiche di chi suona sempre la chitarra. Ma le sentì anche calde e morbide.
Lui ritirò la mano. - Che stavi leggendo prima? – le chiese, ricordandole della verifica del giorno seguente.
- Stavo studiando – gli rispose, - domani ho un compito in classe di greco: una rottura. Sono venuta qui perché questo è un posto tranquillo -.
- Oh, allora ti ho disturbata, no? – le disse, passandosi una mano tra i capelli. Irene scosse il capo e ne approfittò per guardarlo meglio, da vicino. Gli occhi che vedeva azzurri andavano più sul verde. Il fisico era asciutto e il naso piccolo. La bocca carnosa e le sopracciglia corrugate, anche se non rendevano il volto duro e scontroso, anzi, entravano piacevolmente in contrasto con gli occhi luminosi che facevano presupporre una mente sveglia. Nonostante ciò c’era qual cosa di triste nel Suonatore. Lo capiva da come teneva le spalle chiuse, come se volessero difendere il petto. Inoltre le mani del ragazzo erano strette a pugno e spesso tormentavano le pellicine alzate sulle dita affusolate.
- Hai studiato musica? – gli chiese.
- No, tutto ciò che so l’ho imparato da solo. Sono sempre stato troppo pigro per andare a prendere lezioni e poi la mia non è una professione. Non ho intenzione di suonare per strada tutta la vita. Mi fa solo piacere di poter far sentire la mia arte agli altri e la musica mi piace molto – le spiegò.
- Non vai a scuola? –.
- Sì, di mattina. Ho finito il liceo l’anno scorso e ora sto studiando per diventare pilota di linea. I corsi li ho la mattina e il pomeriggio vado sempre a suonare. Per me è un modo per scaricare la tensione, un modo per rilassarmi -.
Irene annuì. – Io sto facendo il secondo liceo classico. Tu che hai fatto? -.
- Lo scientifico – le rispose, accarezzando le corde della chitarra. – Non ho mai amato il latino e poi la matematica è molto importante all’Università che ho scelto. Comunque ho sempre trovato interessante la filosofia, anche se da noi non abbiamo l’abbiamo mai studiata bene -.
Parlarono per una buona mezz’ora di musica e di scuola. Irene fu sorpresa a sentire parlare di gruppi che mai aveva ascoltato e, a sua volta, fece sentire a Giulio molte canzoni che adorava, ma che lui ignorava completamente.
- Dai, non puoi non conoscerla – gli rimproverò, facendogli sentire una canzone degli U2.
- Ma l’hanno scritta sessanta anni fa! Credo che solo tu l’ascolti ancora – scherzò lui, prendendole di mano l’ipod.
- Attento con quello! – gli urlò, vedendolo premere con forza sul fragile schermo.
- E questa cos’è? – le chiese, indicando una playlist intitolata “Musica Tranquilla”. Irene arrossì. – Quella musica l’ascolto prima di andare a dormire, in genere, o quando sono di cattivo umore – chiarì, cercando di riprendere l’ipod.
Lui ridacchiò e le porse il lettore. La ragazza lo afferrò velocemente e lo spense, riponendolo nello zaino.
Cercò di non pensare ai libri di greco abbandonati al suo interno, così chiese al Suonatore quale fosse la sua canzone preferita.
Lui ci pensò su un momento, poi iniziò a suonare, con un accento graffiante, “Smells Like Teen Spirit” dei Nirvana. Irene la riconobbe dai primi accordi e si divertì ad imitare la voce di Kurt Cobain, difficile da emulare. Giulio ridacchiò e suonò la canzone per intero, agitando sul finale i capelli neri corti.
Irene sorrise e gli fece un applauso alla fine del pezzo.
- E la tua? – le chiese lui, affannato.
- Sweet Child O’Mine dei Guns n’Roses. Anche se devo ammettere che non mi spiace nemmeno “Wonderwall”, che hai suonato prima -.
- Oh, mi piace molto. La trovo semplice ma sensata. Insomma: “Tu potresti essere l’unica che possa salvarmi” o “Non credo che qualcuno senta ciò che provo io per te adesso”. Molto romantica ma non sdolcinata -.
- Sono d’accordo, Suonatore -.
Lui le lanciò un’occhiata stranita. – Suonatore? -.
Lei gli sorrise. – Bé, è il nomignolo che ti ho dato. Mi sembrava azzeccato, perché tu suonavi sempre quando ti vedevo in metrò, quindi ora sei il Suonatore, per me… lo so che ti sembra strano! E non ridere! -.
Lui cercò di controllarsi. – Allora anche io ti dovrò trovare un sopranome – le disse, mezzo serio e mezzo no.
Giulio lanciò un occhiata all’orologio sul suo cellulare e sbuffò.
- Mi sa che è ora di andare – le disse, afferrando il fodero della chitarra. – Meglio che torni a casa: sta sera devo lavorare e ancora non ho studiato per domani. Se resto indietro è la fine -.
Irene si alzò a sua volta. Erano circa le quattro e ormai aveva capito che non era giornata per studiare al parco. Tanto valeva tonare a casa e cercare di ripassare qual cosa lì. Però non si pentiva della sua scelta: aveva finalmente parlato con il Suonatore, un ragazzo che l’aveva subito stregata con la sua musica e la sua malinconia.
I due si avviarono insieme verso l’uscita.
Una volta lì si salutarono ma prima Giulio insistette per scambiarsi i numeri di cellulare.
- Nel caso ti cerco su Face Book – le disse. – Irene Morandi… come mi posso mai dimenticare un cognome così? – le chiese, ironico.
Lei sbuffò, perché non era la prima volta che le facevano una battuta come quella.
Il Suonatore le diede il suo numero, poi si sistemò la chitarra sulla spalla destra e la salutò.
- Ci sentiamo, Irene -.
- Ciao, Suonatore -.
Detto questo i due si sorrisero e si allontanarono, percorrendo due strade diverse, verso due destinazioni diverse.
“Se tu fossi una nota” pensò Irene, lanciandogli un’occhiata di nascosto, rubando l’immagine delle sue spalle forti che si allontanavano, “saresti, senza dubbio, un assolo”

  
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