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Autore: Arkadio    12/02/2007    5 recensioni
Iniziare da zero. Di nuovo. Però non come prima.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Hanamichi Sakuragi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La palla rimbalzava ritmicamente sul parquet, scandendo lentamente il tempo

Per tutte le cose che uno sport mi ha tolto.

Tempo, caviglie. Una vita.

Per tutte le cose che mi ha dato.

Adrenalina, emozioni. Una vita.

Stringere una spada, o far rimbalzare un pallone.

Per me non fa differenza.

Start. Again

[Cause you had a bad day 
You're taking one down 
You sing a sad song just to turn it around 
You say you don't know 
You tell me don't lie 
You work at a smile and you go for a ride 
You had a bad day 
The camera don't lie 
You're coming back down and you really don't mind 
You had a bad day 
You had a bad day 
Bad Day – Daniel Powter]

La palla rimbalzava aritmicamente sul marciapiede, scandendo lentamente il tempo. Secondi, ore, settimane.

Comunque troppo. O troppo poco.

Poco, pochissimo vento, quella sera. Limpida, e senza nuvole. Una tipica serata autunnale. Le luci delle auto si mescolavano nel niente della città, offuscando il bagliore lunare lunare, non permettendogli di splendere come potrebbe.

Come dovrebbe.

Scavalcò il cancello, quella sera di autunno. Come era successo spesso in primavera e in estate. Lo scavalcava e attraversava il giardino.

Però quella era una serata diversa.

Nessun borsone sulle spalle. Non indossava i pantaloncini corti della Nike regalati dai suoi compagni di squadra per il suo compleanno.

Non sapevano quale giorno fosse, quando fosse nato il “Tensai”, finché Ayako non si prese la briga di controllare. Nonostante il ritardo di un paio di mesi, quasi tutti pretesero di regalarglieli. Incredibilmente, anche la Kitsune.

Sicuramente uno dei regali più belli che ricevette nella sua vita.

Ma non li indossava, quella sera.

Nemmeno la maglia bianca con le maniche tirate su. Quella che aveva rubato a Rukawa quel pomeriggio prima della partenza per i nazionali, perché aveva dimenticato la sua a casa.

L’altro non gliela aveva più richiesta.

E probabilmente non se n’era dimenticato.

Se qualcuno gliel’avesse chiesto, la risposta sarebbe stata sarcasticamente gettata sull’uso della maglietta da parte del rossino, sul fatto che gli avrebbe attaccato parte della sua totale deficienza.

Ma forse, più semplicemente, perché era un ricordo.

Ma non la indossava, quella sera.

E nemmeno le scarpe indossava. Quelle prese con Haruko. Quelle per cui aveva sborsato 30 Yen. Quelle con cui aveva giocato solamente due partite. Quelle due splendide, magnifiche partite. Quelle dell’ultimo canestro col Sannoh.

Ma non le indossava, quella sera.

No. Non indossava nulla di tutto questo.

Ai piedi un paio di infradito in corda, un paio di jeans, strappati e scoloriti dal tempo e dall’acqua marina, e una maglietta bianca a manica lunga, che metteva in risalto l’abbronzatura meritata sui campi di mezza Kanagawa.

Quella sera doveva salutare.

Per poco.

O per sempre.

Attraversò il cortile e fissò il posto dove il Volpino piantava –pardon- schiantava la bici in mattino. Gli tornò alla mente IL GIORNO. Quel giorno, dopo la qualificazione regionale, in cui erano diventati degli eroi.

Ma ora? Chi era diventato? Cos’era adesso?

Se l’avessero chiesto in giro, probabilmente l’opinione su di lui da sei mesi a quella parte era ormai cambiata.

Non più teppista.

Semplicemente atleta.

Semplicemente giocatore.

Semplicemente astro nascente dello Shohoku.

Ora era qualcuno per gli altri.

Ma per se stesso?

Nell’immediato presente non lo sapeva.

Non sapeva se sarebbe tornato il tornado di un tempo.

Voleva, ma non sapeva.

Si diresse verso il quadro energetico generale, cercando il pulsante giusto.

Kami Sama… non ricordo mai quale diavolo è…”

Un paio di tentativi a vuoto e la palestra venne inondata di luce artificiale violenta. Chiuse gli occhi qualche istante, per permetter loro di abituarsi alla nuova illuminazione. Poi li riaprì lentamente.

Tutto fu più chiaro.

Trenta metri di puro parquet, righe bianche per terra, panchine. Vetrate su cui si affacciavano foglie, come spettatrici silenziose di un muto passaggio, di un arrivederci, di un addio.

Due cesti appesi a delle strutture in ferro.

Un quadro dalla bellezza malinconica.

L’ultimo saluto alla sua palestra. L’ultimo saluto al suo tempio del basket, dove aveva imparato tutto. Dai fondamentali alle tecniche più particolari. Dove ogni partita era sua. Dove il pubblico lo adorava e lo additava come nuovo genio del basket, o come una semplice comparsa sul palcoscenico della vita.

Destinazione: una città a lui sconosciuta. Per riprendersi da un maledetto infortunio, da cui non sapeva se si sarebbe mai ripreso.

Scese con lo sguardo, prendendo in mano il pallone. Provò a palleggiare, ma una fitta gli impedì il movimento.

“Maledetta schiena…”

Guardò il pallone rotolare via da lui. Verso un angolo. Un docile animaletto appena bastonato, spaventato. Che lo aspettava per essere preso e sbattuto in quel maledetto anello arancione.

Ma quello non era il tempo.

E, forse, non lo sarebbe stato mai più.

Com’era iniziata? Ah, sì. Tutto da Haruko.

Poi Rukawa. Non era sicuro di odiarlo più come prima. O meglio, era certo di non odiarlo come prima.

Non rispettarlo o altro, non poteva permettersi certi termini con Ru. Però non lo detestava. Ora cominciava ad accorgersi che non era poi tanto Baka. Era… era.

Cominciava ad apprezzare il suo gioco freddo, la sua tacita eleganza. Il suo stile maledettamente egoista. Era egocentrico, ma ogni giocatore desidera n cuor suo sfidare i più forti. Lui solo più degli altri.

E il Gori. Quanti pugni, quante sfuriate. Quanti giri di corsa.

Quanto rispetto poteva portare in una persona. Suo allenatore. Suo confidente.

E Mitchy con le sue frecciate. E il nano con le sue battute. E la vecchia ciabatta.

Poche, silenziose lacrime rigarono il suo viso.

Non poteva permettersi di abbandonare, di non tornare.

Doveva tornare dalla sua famiglia. Da ciò che rispettava di più al mondo.

Da ciò che stimava.

Da quei tre testardissimi fratelli maggiori, da quel maledetto fratello e dal nonno.

Non voleva andarsene nella nebbia invernale. Non voleva essere meteora.

Voleva essere faro.

Voleva essere additato come giocatore da temere. Voleva sentire la gente spaventarsi quando il suo nome veniva pronunciato.

Voleva essere considerato. Come mai nella sua vita.

Si diresse verso la porta e la chiuse lentamente, dopo aver spento la luce, lasciando il pallone rotolare sul parquet.

Pallone su cui era scritto un monito.

Un avvertimento per tutti.

Un segno.

Tornerò.

H.S.

Una settimana dopo aprì gli occhi. In sottofondo il rumore del mare di Okinawa. Davanti agli occhi un soffitto sconosciuto.

Sul letto un pacco postale.

Rotondo.

Lo stesso consunto pallone di dieci giorni prima.

Alla sua scritta era gemellata un’altra.

Ti aspettiamo.

Shohoku Basketball Team

Appoggiò con cura reverenziale il pallone a terra e si stirò lentamente.

Era davvero una splendida giornata.

  
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