Quei pochi giorni insieme sembrarono svanire con la stessa velocità di un foglio di carta che prende fuoco.
Era già la vigilia di un nuovo anno e non aveva neanche avuto il tempo di pensare quali nuovi propositi potesse augurarsi. Non che in genere si abbandonasse a simili folcloristiche tradizioni, ma a dire il vero quest’anno desiderava avere in mente un quadro più preciso di come avrebbe dovuto organizzare la propria vita. L’inglese sedeva sul divano a gambe incrociate, una trascurabile rivista in una mano, nell’altra la penna: amava soltanto l’ultima pagina dei cruciverba. Erano ormai quasi quindici minuti che sedeva lì in attesa. La puntualità non era mai stata un’abitudine per l’americano. Se avesse perso il volo avrebbe certo trascorso un delizioso capodanno in aeroporto, la cosa non l’avrebbe riguardato. Diede uno sguardo all’orologio da polso: le sette e quarantasette minuti esatte.
Sospirò tirando all’indietro la testa e appoggiando la nuca allo schienale del divano. Il soffitto era ancora scuro, tinto appena con la pallida luce del mattino presto. Sentiva il tintinnio delle posate in cucina, dove Francis stava probabilmente mettendo a posto. Tornò a pensare al capodanno, al termine di un altro anno, e finì con l’allacciarsi ad altri pensieri: la proposta dei suoi genitori per la vigilia, Barclay, gli esami, l’ultimo anno di università. Erano stati mesi diversi rispetto alla routine di quel periodo dell’anno alla quale era abituato. Ma se questo fosse stato un vantaggio o uno svantaggio non sapeva dire. In parte gli mancava la ben costruita solitudine che lui stesso si era sempre riservato, tuttavia non riusciva a reprimere un inesplicabile bisogno di qualcosa di diverso, di nuovo e di inatteso. Qualcosa che sfuggisse al suo controllo, fosse difficile da prevedere e magari che fosse anche tanto originale da stupirlo. Sorrise a quei pensieri. I suoi affanni interiori sarebbero sicuramente stati un ottimo punto di partenza per uno sceneggiato teatrale. Si sentì improvvisamente sciocco, infantile, e realizzato questo sollevò il capo dallo schienale del divano, rivolgendo lo sguardo verso la cucina: – Ehi Francis. –
Il ragazzo si sporse. – Mi hai chiamato? – Domandò con il canovaccio ancora in mano. – Verresti qui un attimo? – Chiese l’inglese, spostando lo sguardo ora verso lo schermo nero della televisione di fronte a sé.
– Mais oui.⁽¹⁾ – Il francese tirò il canovaccio sul tavolo, avvicinandosi con un sorriso e a piccoli passi, giungendo infine al divano e sedendosi accanto all’amico. – Tu sei davvero sicuro di non avere alcun impegno per stasera? In tutta franchezza mi sembra poco credibile. – Francis sorrise mostrando un velato compiacimento. – È così, è così. Te l’ho detto. Avrei passato solo il Natale a Parigi, e per il resto.. – Sospirò nella pausa. – ..bé, non sono stato invitato ad alcun festone, quindi non saprei dove andare a far baldoria. –
Sporse il viso verso il profilo dell’inglese che ancora fissava la televisione spenta, aggiungendo con tono maggiormente marcato: – Ovviamente, se tu hai dei programmi personali per stasera le mie azioni saranno del tutto volte ad impedire che la mia figura diventi un elemento di disturbo per te. –
Arthur
ruotò finalmente lo sguardo verso di lui, con un’espressione incuriosita. – Ma
come ti esprimi bene, Bonnefoy. – Rispose ironico. – Merci beaucoup.⁽²⁾ Sto
cercando di rendere pregevole la mia facondia. – E concluse con un sorriso ben
consapevole. Il ragazzo lo fissò con occhi ancora più incuriositi, inarcando le
sopracciglia. – Da quando conosci parole così desuete? – Chiese continuando
quel gioco di retorica e lessico ricercato. – Uso molto il dizionario. – Asserì
il francese con un cenno del capo. – E poi le dispense universitarie sono
davvero utili per questo. Trovo un sacco di parole nuove tra i saggi che
abbiamo in lettura. – Detto questo, poggiò i palmi sulle ginocchia e fece forza
per alzarsi, continuando a parlare mentre si riavvicinava alla cucina. – In
ogni caso, qualunque cosa tu abbia in mente per stasera, ti pregherei di non
farti problemi al riguardo. Sentiti libero di fare quello che vuoi, come vuoi,
senza dovermi coinvolgere. – L’inglese diede un’altra occhiata all’orologio da
polso: le sette e cinquanta. Erano in ritardo rispetto all’orario stabilito. Ma
fortunatamente lo aveva già previsto giocando d’anticipo. Strappò una risata
mentre con una mano andò a sistemarsi la frangetta. – Penso sia proprio questo
il punto: non ho alcun programma per la serata. – Rispose tra sé rifugiandosi
nel lato ironico della cosa.
– Come hai
detto? – Domandò l’altro tornando a sporgersi dalla cucina. Arthur scosse la
testa senza rispondere, sollevandosi dal divano e cominciando a procedere verso
l’ingresso. Finalmente sentì dei tonfi per le scale, riuscendo a scorgere dei
piedi che si muovevano a passi sgraziati lungo i gradini. – Eccomi eccomi
eccomi! Sono pronto! Scusa se ci ho messo tanto eh. – L’americano appariva
trafelato, come al solito quando si trattava di rispettare un orario o un
appuntamento. Saltò insieme gli ultimi tre scalini che lo separavano dal piano
terra senza difficoltà, atterrando a pochi passi dall’inglese e facendo
sobbalzare il marsupio che aveva allacciato ai fianchi. – Voilà! Siamo pronti?
– Esclamò allargando le braccia e gettando rozzamente a terra la borsa da
palestra piena della sua roba. – Io sarei pronto da circa venti minuti,
comunque sì: andiamo. – Rispose Arthur con una punta vagamente acida e, dopo
essersi voltato per dirigersi verso la porta, tornò con gli occhi
sull’americano, come se avesse notato improvvisamente qualcosa. – Tu sei sicuro
di essere pronto? – Domandò continuando a fissare l’altro con le sopracciglia
inarcate, assumendo un’espressione che assomigliava allo stupore. Alfred, che
si era appena chinato per afferrare la borsa che poco prima aveva fatto
ruzzolare, rispose con altrettanto stupore: – Certo! Perché non dovrei? Cerchi di
trattenermi, di’ la verità eheh. – Concluse con dell’ironia gratuita e una
risatina odiosa alle orecchie del britannico. – No imbecille, mi riferivo al
tuo cervello bacato che ha lasciato di sopra il trolley. – Sferzò laconico
l’inglese, contraendo lo sguardo in un’espressione più dura della precedente.
L’americano cadde dalle nuvole, sobbalzando sul posto come se fosse stato punto
da una vespa. – No! Asp- oddio no! – Esclamò sfiorando la balbuzie, agitando le
braccia e le mani tra i vestiti come se potesse aver dimenticato nelle tasche
un oggetto ingombrante come un trolley. Al pari di una scheggia si voltò e
ritornò sulle scale, facendo i gradini a tre a tre, mostrando una fretta
disperata quanto esilarante. Arthur lasciò reclinare il capo all’indietro,
abbandonandosi a un sospiro arreso, di chi ormai non nutre più speranze. Restò
così, nell’attesa che l’amico a dir poco idiota scendesse di nuovo -col
trolley, stavolta-
Francis
aveva assistito alla scena dalla porta della cucina e ovviamente non era
riuscito a trattenere una risata divertita, rivolgendosi poi all’amico in
attesa. – Ma è sempre così quindi? – E mostrò un sorriso senza pari. L’inglese
rispose con la stessa tonalità caratteristica di un automa, mentre continuava a
fissare il soffitto sconsolato. – Sì. È sempre così. – Ecco di nuovo il rombo
dal primo piano che lasciava presagire un’imminente discesa di qualcosa di
pesante e goffo. Il ragazzo discese con il trolley in una mano, giungendo al
pianerottolo con un affanno esageratamente ostentato.
– Okay.
Tutto apposto, sono pronto. – Francis lasciò la cucina per raggiungere gli
altri due nell’ingresso. A quanto pareva era proprio giunto il momento
dell’addio. – Mio carissimo Alfred, è stato un piacere fare la tua conoscenza.
– Disse al più giovane con un piccolo inchino del capo. L’americano sorrise
ampiamente, aprendo l’unico braccio che aveva libero per rapire il francese in un
abbraccio caloroso. – Anche per me! È stato forte, sei un tipo in gamba. Mi
raccomando, sentiamoci! – E dopo avergli assestato un paio di pacche sulla
schiena si scostò lentamente, come a dolersi di quel distacco. – Senza dubbio.
Tanto i contatti ce li siamo scambiati. Fammi sapere come va la vacanza e gli
esami eh. – Rispose, insieme ad un occhiolino finale. – Contaci! –
Con
quell’ultima esclamazione il giovane americano si chinò per raccattare tutte -e
stavolta tutte davvero- le sue cose, continuando a lanciare cenni e saluti al
francese alla porta, finché non finì di caricare tutto sul taxi e la portiera
oscurò la visione della sua figura. Francis, da parte sua, ricambiò ogni saluto
e restò sulla soglia a fissare la vettura partire e scomparire poi all’incrocio.
Strano tipo quell’americano, anche se in senso buono. Un tipo davvero alla
mano, spiritoso, molto pieno di vita. Apprezzava quel genere di persone; quelle
che nelle giornate più malinconiche, nel momento in cui ne incroci lo sguardo,
riescono a farti sentire dannatamente stupido per il tempo che stai sprecando a
fare il muso lungo piuttosto che a sorridere. Chissà se anche ad Arthur
l’americano faceva quell’effetto. Si lasciò raffreddare da un po’ di quella
brezza mattutina, gelida ma ritemprante. Quel clima e quel cielo pallido e
silenzioso gli fecero improvvisamente salire un incontrollabile voglia di
tabacco. Rientrò in casa il tempo necessario per raccogliere il necessario, poi
tornò di fuori e lasciando la porta accostata si sedé sui gradini umidi e
granulosi del vialetto. La sua sigaretta fu pronta in un minuto e la accese con
una lentezza sconvolgente, come se fosse un gesto che non compiva da secoli.
Quando sentì il fumo riempirgli i polmoni provò un senso di nostalgia che lo
rinfrancò. Amava il biancore sporco di quel cielo, riempito qua e là da qualche
tonalità più livida che poteva far presagire un temporale. Avrebbe piovuto?
Forse sì, forse no. In fondo sarebbe stata una serata speciale in ogni caso,
era pur sempre l’ultimo dell’anno. Sarebbe stato un festeggiamento
particolarmente insolito, se non altro per i suoi standard, ma la cosa lo
intrigava non poco; infine restava sempre un irrefrenabile ed irreprensibile
curioso: andare fuori dalla tradizione era una sfida più che ben accetta. Avrebbe
preparato un pranzo leggero, qualcosa di semplice, per poi sbizzarrirsi con il
gran cenone della sera. La scelta del menù dei festeggiamenti sarebbe stato
indubbiamente un modo splendido per ingannare l’attesa del ritorno di Arthur.
L’aeroporto
era più affollato del solito. Colpa delle vacanze, della vigilia, della meta
gettonata che rappresentava Londra per molti turisti. Rischiava di divenire
asfissiante. Il tragitto in taxi era stato silenzioso fino a sfiorare la noia;
il check-in anche peggio. Solo ad un paio di persone dal loro turno l’americano
ebbe il coraggio, o forse solo il pretesto, di rompere il silenzio. Attaccò
dicendo che non aveva pesato il trolley prima di partire, che aveva il dubbio
di essersi scordato qualcosa, che forse aveva riempito troppo il bagaglio a
mano e via discorrendo. L’inglese si limitava a rispondere con fredda obiettività,
dicendo che se il trolley era andato bene all’andata sarebbe andato bene anche
al ritorno e che se si era davvero scordato qualcosa non sarebbe potuto tornare
indietro a riprenderla in ogni caso, quindi tanto valeva rilassarsi. Pertanto,
non durò a lungo la loro conversazione.
Fecero
velocemente il check-in, senza alcun intoppo. Erano le nove e il volo era alle
dieci e un quarto. Non c’era alcuna fretta particolare, quindi optarono per
sedersi in un bar e prendere qualcosa. Inutile dire che Alfred non si risparmiò
una seconda abbondante colazione. Sarebbe giunto a destinazione anche prima
delle otto di quella sera e calcolando il fuso orario sarebbe arrivato giusto
in tempo per pranzare insieme a Matthew a Ottawa. Da lì si sarebbero
velocemente spostati al vicino impianto sciistico di Centennial Park⁽³⁾, dove
avrebbero sicuramente sciato fino allo sfinimento e poi si sarebbero goduti uno
scoppiettante Capodanno organizzato dallo stesso residence. Davvero un
bellissimo programma, doveva riconoscerlo. In confronto ai modesti
festeggiamenti che erano soliti organizzare negli anni passati, questo era
strabiliante. Come poteva dargli torto ad aver scelto Ottawa e la sua neve
invece di Londra e qualche fuoco d’artificio? Rimuginare su quella riflessione fatta
e rifatta fino allo stremo nella sua mente lo stava rendendo irritabile, perciò
cercò di scansare il più possibile lontano da sé quelle considerazioni. Quel
che era fatto era fatto. Continuare a prendersela avrebbe solo significato
autorizzare candidamente Alfred F. Jones a persistere nel fargli del male; e
questo avrebbe urtato il suo orgoglio molto più dello sgarbo irrimediabile che
pure l’americano gli aveva riservato.
Ingoiò
l’amaro caffè nero che aveva ordinato tutto d’un fiato, per centrifugare quelle
sensazioni contrastanti di speranza e disperazione, e prima che potesse trovare
qualche banale argomento di conversazione per ingannare il tempo l’americano
gli si rivolse. – Art, senti…sei ancora molto arrabbiato per questa faccenda?
Se non ne vuoi più parlare va benissimo, solo…volevo sapere se stavi meglio,
ecco. – Domandò a testa bassa mentre si portava alla bocca uno dei due
bomboloni alla crema che aveva preso; oltre ad una fetta di cheesecake,
ovviamente. Arthur scosse impercettibile il capo, con sguardo indefinito,
sollevando leggermente le spalle in segno di indifferenza. – Affrontiamo la
cosa per quello che è. Alla fine ne abbiamo già parlato, ti ho dato la mia
risposta. Va bene così. – Concluse, stupendosi lui stesso del proprio
autocontrollo. Avrebbe potuto benissimo lanciargli qualche frecciatina
velenosa, ma forse per la stanchezza o per la noia non aveva raccolto le sufficienti
energie mentali per scagliarla a dovere. Alfred sollevò lo sguardo e gli donò
un sorriso tiepido e comprensivo, non aggiungendo altro e iniziando a divorare
la sua ordinazione. Sì, probabilmente era la cosa migliore. Sapeva anche lui
che, per esperienza, era molto meglio lasciare all’inglese il tempo necessario
per smaltire i torti subiti piuttosto che tempestarlo con domande inopportune e
ravvicinate.
Le nove e
trenta. L’americano avrebbe fatto meglio ad avvicinarsi per il controllo
documenti e il metal detector. Entrambi si alzarono senza fretta, camminando a
fianco ma di nuovo in silenzio. Era un insolito modo di salutarsi, quello di
quest’anno. Generalmente i loro addii aeroportuali erano di tutt’altro stampo e
carattere. Questo contribuì ad acuire il senso di colpa dell’americano già
abbastanza mortificato per l’accaduto. Giunsero alla grande porta vetrata che separava
il controllo documenti e i successivi terminal dal resto dell’aeroporto. Arthur
sospirò, con le mani nelle tasche, andando poi ad ancorare lo sguardo sul viso
dell’americano che gli sorrideva di rimando. Assomigliava a un cucciolo
smarrito quando assumeva quell’aria di timida riconciliazione. – Allora mio
caro.. – Cominciò il maggiore sollevando un sopracciglio.
– Non posso
che augurarti buon viaggio e buon divertimento. Oh, sì, anche buon anno nuovo. –
Concluse con un sorriso che non riusciva a non far apparire forzato. Alfred
annuì con energia, andando poi subito ad abbassare lo sguardo e a sospirare una
risata tra sé. – Ehi Art…mi mancherai un sacco, sai? – Afferrò i manici del
borsone che teneva sulla spalla, facendo un piccolo salto sul posto per tirarli
più su. – Sarà una vacanza diversa, è vero, ma già so che sarà meno speciale
degli anni passati. – Poi scrollò le spalle, ridendo ancora. – Ma me la sono
voluta, quindi ora la smetto di lamentarmi come un idiota. – Arthur gli sorrise
con una sfumatura di scherno. – Bravo. Una cosa giusta ogni tanto la dici. –
Rispose caustico ma ironico, mentre con le dita delle mani giocherellava
nervosamente col tessuto interno delle tasche. Sentiva di non avere nient’altro
da aggiungere. – Okay, allora.. – Farfugliò Alfred dando un’occhiata alla
vetrata e poi tornando con gli occhi sull’amico. Sospirò un altro sorriso, si
sfilò i manici della borsa dalla spalla e lasciò la presa sul trolley,
abbandonandolo noncurante al suo fianco. Allargò le braccia sull’inglese,
avvolgendolo in un abbraccio inaspettato. Poggiò la fronte sulla spalla
dell’amico e lo contornò col suo corpo, senza aggiungere parole. Se avesse
reagito male lo avrebbe accettato.
In effetti
l’inglese di primo istinto si irrigidì, tirandosi indietro con le spalle e la
nuca, ma nel giro di alcuni secondi decise di lasciarlo fare. Non era una cosa
insolita che si abbracciassero, solo che c’era ancora la stridula voce
dell’orgoglio che gli suggeriva di trattenersi e non concedersi agli slanci
dell’amico. Tuttavia, avendo scelto senza neanche troppa consapevolezza la
strada della lenta e faticosa riconciliazione, rigettò con una figurata
scrollata di spalle quella voce che gli suggeriva di respingere l’americano a
tutti i costi. Alla fine avrebbe anche potuto interpretarlo come un gesto
caritatevole verso l’altro, il che l’avrebbe aiutato a sentirsi meno incoerente
verso se stesso.
Poggiò a
sua volta il viso accanto a quello dell’altro, sfiorandone la guancia con la
frangetta e trattenendo per qualche istante il respiro, nell’attesa che il
contatto finisse presto così da non dimostrare implicitamente che aveva
nostalgia di quel calore. Anche a lui sarebbe mancato durante le vacanze, questo
era indubbio. Ma al tempo stesso accettava il cambiamento come un volere
indiscutibile di qualcuno o qualcosa che la maggior parte delle volte si
limitava a chiamare destino. Magari sarebbe stato per il meglio. Se c’era una
cosa di cui aveva particolarmente sentito il bisogno in quell’ultima metà
dell’anno era di uscire dagli schemi. Un bisogno che lo aveva spinto anche a
compiere alcune pazzie, almeno dal suo punto di vista. Prima fra tutte, quella
di essersi messo in casa un francese promiscuo. Eppure, almeno fino a quel
momento, non aveva avvertito grandi novità. Nonostante bramasse così tanto un
rinnovamento della propria esistenza e una metamorfosi interiore così radicale
da sconvolgerlo e da salvarlo dai propri demoni e debolezze, tutto continuava a
scorrere allo stesso modo, identico e inesorabile. I soliti sogni, le solite
giornate, le solite abitudini, le stesse paure e gli stessi difetti, gli stessi
visi, lo stesso disinteresse, la stessa apatia. Di nuovo la ben conosciuta
pulsione di rigurgitare ogni tozzo di quell’esistenza che gli stava così
stretta, così scomoda, così insopportabile. Lasciarsi vivere dagli accadimenti
era diventato l’unico modo sostenibile col quale avrebbe potuto continuare a
mantenere un patto di reciproca tolleranza fra lui e la propria indomita
ritrosia verso tutto e tutti. Rendersi passivo ai limiti dell’autostima era
stato facile all’inizio, anzi confortante; pensava che avrebbe potuto cavarsela
in quel modo in eterno. Peccato che col passare del tempo fosse invece
peggiorata la sua stravaganza e volubilità. Perfezionava costantemente un atteggiamento
sempre più lunatico, mentre nutriva il proprio orgoglio con un’indifferenza
senza pari verso tutto ciò che superasse i confini dei propri interessi.
Effettivamente, aveva messo su un gran bel quadretto di presentazione. Non lo
stupiva il fatto che non avesse una nutrita cerchia di amici, né che la maggior
parte delle persone preferisse evitarlo. Come dar loro torto. Ed ecco che lo
faceva di nuovo: volare da un pensiero all’altro a ruota libera per poi
giungere sempre allo stesso indistruttibile nocciolo concettuale. In fondo, era
più facile di quanto non sembrasse: semplicemente, Arthur Kirkland era
infelice.
Rigettò
nel caveau della propria coscienza questi sprazzi di pensieri amari con un
sospiro affaticato, mentre con un gesto garbato ma deciso si scostò
dall’americano ancora con le braccia intorno a lui. Alzò lo sguardo verso
l’altro incrociandone gli occhi sinceri nascosti dietro il riflesso delle
lenti; gli sorrise impacciato, quasi inconsapevole della piega verso l’alto che
avevano assunto le sue labbra. Bisbigliò delle frasi di circostanza, ancora una
volta, ma senza nascondere a se stesso che c’era del vero in quelle parole. –
Dai Al. Adesso devi andare. È tutto apposto, viaggia pure tranquillo. Ci
vedremo a Pasqua, okay? – I suoi palmi delle mani poggiavano sugli avambracci
dell’americano, come se volesse sorreggerlo, mentre i suoi occhi erano ancora
fissi e attenti su quelli di Alfred. Lui sorrise cercando di nascondere una
certa malinconia; una battaglia persa, visto che non era mai stato capace di
mentire credibilmente quando si trattava del proprio umore. Tornò in posizione
retta con la schiena, abbandonando del tutto la presa intorno all’amico.
Inspirò a lungo come se dovesse andare in apnea, quindi ruotò il busto per
afferrare nuovamente il trolley e la borsa al suo fianco. Era difficile doverlo
salutare fingendo che non ci fosse nulla di diverso. Scrollò le spalle cercando
di alleggerirsi dalla lieve agitazione che lo aveva colto, quindi rispose
annuendo con vigore per rassicurarlo ed imprimergli nel ricordo un’idea di
certezza assoluta. – Certo! – Restò a fissare l’inglese, ma più ripercorreva i
dettagli del suo viso più il suo senso di colpa lo pungeva, interiormente e
profondamente. Fece un cenno con la mano ed un ultimo sorriso prima di voltarsi
su un fianco e cominciare a camminare verso la vetrata. Per quegli istanti in
cui camminò deciso e a testa bassa verso il proprio volo, alle sue orecchie
giunse chiaro soltanto il rumore delle ruote del trolley sulla pavimentazione
chiara e liscia dell’ambiente. Cominciò a sentirsi un reo confesso che,
mortificato delle proprie turpi azioni, procedeva mesto ma dignitoso verso la
propria cella di isolamento, accettando stoicamente la pena per i proprio
peccati. Era curioso come tutto quell’imbarazzo e quella frustrazione che lo
stavano pervadendo adesso non lo avevano nemmeno sfiorato per tutto il tempo in
cui aveva potuto osservare Arthur bene in viso e parlargli. Sembrava che la sua
assenza, fisica o visiva che fosse, gli ricordasse molte più cose che non la
sua presenza. Sarebbe stato un boccone molto più amaro da ingoiare di quanto
avesse pensato.
– Ah! –
Esclamò. Un pensiero gli aveva attraversato il cervello come un lampo. A dire
il vero era una cosa piuttosto importante, che si era ripetuto più volte di
dirgli durante la sua breve permanenza a Londra. Non sarebbe potuta capitare
più puntuale visto che di certo sarebbe stata un’occasione per concludere il
loro addio in maniera meno imbarazzante. Si voltò di centottanta gradi con la
stessa velocità di uno schiocco di dita, puntando l’indice verso l’amico ora
distante e parlandogli a gran voce, con tono energico e un sorriso a trentadue
denti. – Ehi! Ricorda sempre che se quel francese fa qualcosa di sbagliato devo
essere il primo a saperlo, chiaro? – Domandò retorico con un rapido cenno del
capo. Arthur non solo sorrise a quella frase ironicamente incontestabile, ma
finì col cedere anche ad una modesta risata. Distese le spalle e, rendendosi
complice di quell’umorismo, gli rispose coerente con un ampio sorriso: – Naturalmente
Al. Saresti certo il primo a saperlo. – L’americano parve ben soddisfatto della
risposta e pertanto gli bastò sollevare un braccio in segno di saluto un’ultima
volta per poter tornare sui propri passi, attraversando la porta vetro
scorrevole e ben intenzionato a non voltarsi ancora. Aveva fatto bene a
dirglielo. Si sentiva già un po’ meglio adesso che l’ultimo ricordo di Arthur
era rappresentato da un viso divertito e sorridente. Almeno questo avrebbe
alleviato il suo senso di colpa durante le nove lunghe ore di volo. Tirò fuori
dalla tasca del giaccone il passaporto e si avvicinò alla zona del controllo
documenti. Rallentò il passo a poco a poco, arrestandosi poi del tutto a meno
di cinque passi dalla fila di persone in attesa del loro turno. Era una
tentazione troppo forte per resistervi e lui non era mai stato un asso in
coerenza e autocontrollo. Espirò, rimproverando a se stesso la propria
inettitudine, e decise di voltarsi indietro ancora quell’ultima volta, con un
movimento rapido e deciso, allo stesso modo di come preferiva levarsi i cerotti
con un unico strappo netto.
Arthur non era più lì fuori, oltre la vetrata. Era già andato via. Da un lato peccato, pensò, avrebbe voluto seguire un’ultima volta la sua figura elegante che camminava lontano, verso l’uscita; dall’altro meglio, almeno non avrebbe avuto rimpianti pensando che forse avrebbe potuto vederlo un’ultima volta se si fosse voltato di nuovo. Si mise finalmente in fila, chinando la testa sul passaporto che teneva in mano, senza concentrarsi su nessun dettaglio in particolare. “È stata la seconda volta in cui mi hai scartato come se fossi un estraneo di cui non ti importa nulla.” Di nuovo queste parole gli tornarono alla mente, come un mantra. Le conseguenze furono piuttosto inevitabili: non passarono molti secondi prima che i ricordi di Alfred tornassero a un pomeriggio di primavera, terso e lucente come un vetro, di diversi anni prima. Quella prima volta in cui lo aveva ferito in maniera indelebile.
– Che hai detto? –
Gli occhi luminosi e verdi dell’inglese si erano improvvisamente spenti, appannati da uno stupore troppo grande per non manifestarsi anche in quelle sue fulgide iridi. Ogni suono intorno a loro appariva insignificante quanto un dettaglio trascurabile. La sua attenzione era completamente rivolta al viso dell’americano che aveva appena pronunciato delle parole che avrebbero cambiato per sempre gran parte del loro rapporto. – Che significa? Stai scherzando, vero? –
Alfred aveva interrotto i suoi dondolamenti sull’altalena e lasciava adesso che le catene esaurissero da sole la spinta. Il suo sguardo era basso, rivolto al terriccio scuro ai suoi piedi, mentre la sciarpetta leggera che aveva al collo gli copriva le labbra rendendo impossibile scorgere una sua ben definita espressione facciale. Si voltò verso l’amico, scuotendo un poco la testa per abbassare il tessuto che gli copriva la bocca.
– No, davvero: torno negli States. Torno a casa. – L’inglese non riusciva a mettere due parole di fila in quel momento: manteneva gli occhi sgranati e le labbra dischiuse, pensando a un’infinità di domande nella sua mente, ma non riuscendo a realizzarne verbalmente nemmeno una delle tante. – Ho deciso che mi iscriverò lì al liceo. Sarà come un nuovo inizio, una nuova vita. Magari riuscirò a ricordare qualcosa in più di quando ero piccolo. – Il più giovane calciò con noncuranza un sasso ai suoi piedi. – A-aspetta scusa.. – Riuscì a pronunciarsi Arthur ancora scosso dalla notizia. – Stai dicendo che hai già deciso di andare? Lascerai Londra per sempre? Ma…tua zia? – Alfred scrollò le spalle e rispose accennando un sorriso. – È tutto già deciso. Nel giro di qualche giorno acquisterò i biglietti. Anche Matthew vuole venire con me e bé, riguardo nostra zia, direi che se da un lato le dispiace lasciarci, dall’altro penso sia felice di vederci tornare negli States. Prima o poi doveva succedere tanto, e io sono pronto adesso. –
– Ma perché non me ne hai parlato prima? Guarda che sei ancora giovane per una cosa del genere, e poi da chi starai? Come vivrai? Ma insomma, non puoi annunciare una cosa del genere da un giorno all’altro! – Disse con tono apprensivo l’amico, alzando la voce e guardandolo in parte severo, in parte preoccupato; ma la sua tattica sembrò non avere il minimo effetto sull’altro, il quale continuava a fissare il terreno sotto ai suoi piedi con aria inflessibile. – A quattordici anni non si è più bambini, Arthur. Io ho scelto la mia strada come tu hai scelto la tua. Quest’anno inizierai l’università, ed è quello che hai sempre voluto. Anch’io ho fatto la mia scelta, ed è questa. Non ho intenzione di ripensarci, non pretendo nemmeno che tu capisca. – Quelle parole cominciavano a ferire l’inglese sempre più confuso. – Ma perché non me ne hai parlato prima? Mi consulti solo a cose fatte per rendermi noti i tuoi progetti di vita? Non è corretto! E poi perché parli in questo modo freddo e distaccato? Pensi di sembrare più maturo in questo modo, eh? –
Alfred infine sollevò il volto, guardando Arthur come non era mai successo prima, carico di un’imperturbabilità e di una determinazione che erano sconosciute all’inglese. – Non sono qui per chiederti il permesso. Cosa ti aspettavi? Che sarei rimasto qui a giocare con te e a farti compagnia per il resto della mia vita? Anch’io voglio crescere, fare le mie scelte, vedere tanti luoghi diversi, realizzare i miei progetti. Se la cosa non ti sta bene poco mi importa, io ho già deciso; mi sembrava solo giusto fartelo sapere, ma certo non ho mai pensato di doverti interpellare riguardo una scelta che appartiene e spetta solo a me. –
Fu come una scarica elettrica. Quelle parole che non avrebbe mai dimenticato erano state marchiate nel recinto della memoria. Né sarebbe sbiadito il ricordo del suo sguardo e della sua voce: freddi al punto di essere riusciti ad alzare un muro invisibile tra di loro. È difficile descrivere le sensazioni che invasero il cuore dell’inglese in quel momento: dolore, tradimento, rabbia, mortificazione. Era come se gli si fosse spalancato un baratro sotto i piedi e lo avesse inghiottito, precipitando al suo interno in una caduta libera che forse non avrebbe più toccato fine da quel giorno in poi. La gola, improvvisamente secca, cominciò a fargli male e una sensazione di intorpidimento generale lo colse in tutti gli arti. Si sentì così piccolo in quel momento. Così impotente. Così stupido. Si vergognava immensamente di aver sopravvalutato se stesso fino a quel punto. Che diritto aveva in fondo di parlargli in quel modo? Non aveva alcuna autorità per entrare così prepotentemente nella sua sfera personale e privata. Era stato davvero un idiota. Un idiota inopportuno. E se ne vergognava grandemente. Le parole di Alfred, per quanto dure o crudeli, lo avevano messo davanti a quella verità rendendogliela comprensibile. Non aveva davvero alcun diritto di protestare. Per quanto lo addolorasse, evidentemente Alfred non poteva appartenere a quel luogo e a quel tempo. E tantomeno poteva appartenere a lui, ad Arthur Kirkland.
Ruotò gli occhi verso il basso, assaporando quella fitta dolente che cresceva nel petto. Provava vergogna anche solo ad incrociare gli occhi dell’amico e lo sforzo di parlare per dare una risposta fu immane.
– Scusami. – Fu la prima parola che gli venne in mente. – Hai ragione. Non volevo sembrare egoista. È ovvio che è una tua scelta. Forse ho reagito così solo perché mi spiace che tu te ne vada. Ma è un problema mio in fondo. – Un tiepido vento di primavera inoltrata mosse i capelli biondi dei due ragazzi, lasciandoli nel silenzio. Il profumo del polline saliva per tutto il viale e si espandeva in quella piccola isola di verde attrezzata con qualche gioco per bambini. Il sole era alto, luminoso, le strade calme e deserte. Era uno splendido pomeriggio di maggio. Il più infelice che Arthur ricordasse. Quello in cui aveva capito di aver perso in qualche modo il suo migliore amico, o almeno una parte importante di lui, costretto ad ingoiare ancora una volta l’amara pillola del tradimento e dell’abbandono.
L’americano sembrò non avere intenzione di rispondere. Sapeva di essere stato duro; in effetti per lui non era esattamente un periodo facile. La sua serenità doveva fare i conti con la difficile età dell’adolescenza e di quelle scelte che nella peggiore delle ipotesi cambieranno per sempre la propria vita futura. Ma su una cosa aveva indubbiamente ragione: si sentiva pronto e determinato. Col senno di poi e guardandosi ora all’età di diciannove anni indietro, avrebbe certo risposto che in quel momento era la scelta di cui aveva maggiore bisogno: il cambiamento. Spesso non ci sono spiegazioni in merito a tali salti nel vuoto; si necessita di qualcos’altro, di esperienze che nemmeno noi stessi sapremmo spiegare, ma intanto si è sicuri di trovarle in quel luogo lontano che si sente sempre più il bisogno di raggiungere. Lasciare gli affetti, le persone, i luoghi, le abitudini. Appallottolare tutto quanto come una brutta copia di un tema e gettarlo con un colpo secco nel cestino. Era qualcosa di molto vicino a ciò che provava in quel momento Alfred. Probabilmente non avrebbe voluto ferire nessuno, ma come diceva Hegel: affinché qualcosa nasca, è necessario che qualcos’altro prima muoia. Come in un cerchio. Nella vita così come nei rapporti umani. Si muore e si risorge. Quel giorno, era stata una parte del cuore di Arthur a morire.
Si sforzava per mantenere le mani ferme e prive di tremori, cercando di rinchiudere in una giara di cristallo quel male interiore che si espandeva come olio, desiderando imprigionarlo nel fondale dei ricordi. Come il più prezioso e doloroso dei segreti. Non aggiunsero molto altro. L’inglese riuscì a spiccicare qualche altra parola, giusto quelle necessarie affinché l’americano potesse capire che aveva solo voglia di tornare a casa. Dal canto suo, Alfred non riuscì a rivolgergli le parole che avrebbe voluto. Desiderò dirgli che non voleva sembrare disinteressato e insensibile, desiderò chiedergli perdono per la sua crudeltà. Eppure non vi riuscì. Lo guardò andare via osservando la sua schiena che gli appariva più stretta del solito. Contò ogni passo che gli vide compiere, cercando in ognuno di quei secondi di urlare verso di lui, richiamarlo, recuperare, espiare la sua colpa con una sola e semplice parola. Ma lo vide voltare l’angolo mentre ancora muoveva le labbra senza poter emettere un soffio di voce, colpevole di aver fatto credere al suo unico vero amico che davvero non contasse, e che in fondo non gli sarebbe importato più di tanto essere separato da lui da un intero oceano. E come Arthur in quel pomeriggio portò con sé il segreto di essere stato ferito in maniera così intima e profonda, così Alfred conservò il segreto di avergli domandato perdono ogni singolo giorno della sua vita, in cuor suo, per quelle parole. Ma aveva mancato l’occasione. Decise che non essendo riuscito a scusarsi in quello stesso pomeriggio, mentre lo vedeva andare via, non lo avrebbe più fatto. Avrebbe mantenuto il segreto. Niente in quella giornata avrebbe mai cambiato i suoi progetti, nonostante il suo spirito fosse pentito: sarebbe tornato negli Stati Uniti, lì da dove proveniva, lì dove era cresciuto per quei suoi pochi primi anni di vita. La terra della sua famiglia e il luogo dal quale era sicuro avrebbe cominciato una nuova vita. Londra era stata la sua città, era vero, e ne conservava i ricordi più belli. Ma già sapeva che infine non sarebbe stata né la città né la sua vita di prima a mancargli. L’unica cosa di cui avrebbe avuto nostalgia sarebbe stata una sola persona; e sarebbe stata lui, Arthur. Un giorno, chissà, forse gliel’avrebbe detto.
Alla fine quel giorno, quel pomeriggio di maggio, rimase nel ricordo di entrambi un cambio di rotta: un evento che aveva incrinato qualcosa nel loro rapporto, ma che in qualche modo si sforzavano ad ogni incontro di recuperare, di aggiustare. Un’opera di restauro che nessuno dei due sapeva se sarebbe andata a buon fine o meno, se avrebbe visto una fine, una conclusione felice. Da quel momento in poi cominciò la loro vita a distanza, la loro corrispondenza saltuaria e singhiozzante durante la quale avevano l’occasione di riunirsi solo durante le feste e l’estate. Momenti in cui entrambi si ritrovavano più maturi; diversi ma allo stesso tempo sempre gli stessi nell’essenza, in ciò che l’uno amava riconoscere nell’altro. Quella ferita non sarebbe stata cancellata: chi l’aveva subita non aveva alcuna intenzione di lasciare che cicatrizzasse, mentre chi l’aveva inferta era aggrappato ad essa come se fosse una questione ancora aperta, per la quale un giorno avrebbe forse sperato di ricevere il perdono. La loro relazione era continuata grazie ad un silenzioso consenso, accompagnato dalla consapevolezza delle imperfezioni della loro amicizia. Era andata piuttosto bene, fino a quel momento; ma era pura illusione pensare che successivi errori sarebbero potuti essere tollerati. L’americano era già a quota due. Forse era il momento di ritirarsi per un po’, fare un passo indietro e riflettere attentamente, dare tempo al tempo, cose di questo genere. Avrebbe recuperato anche quell’ultimo sbaglio alla fine, ne era certo. Tuttavia, avrebbe anche desiderato non fare più errori, non essere più costretto a incontrare quel senso di colpa acerbo e penoso. Evidentemente era più complicato di quel che pensasse. E la dolce ironia di tutta quella loro storia, era proprio il fatto che, a discapito di tutto, Arthur Kirkland e Alfred F. Jones fossero infine giunti, pur in tempi, età e contesti differenti, ad avvertire la stessa profonda esigenza: ancora una volta, il cambiamento. All’americano era accaduto prima ed era stata un’esigenza dettata in parte dalla giovane età, in parte dalle sue radici affettive che gemevano per essere riconosciute e rivisitate. All’inglese accadeva invece adesso, nella maturità, e si trattava di un’esasperazione, non oltre tollerabile, di un sentimento di sterilità e malinconia che lo accompagnava da troppo tempo ormai. Diversi, ma in fin dei conti uniti da esperienze ed emozioni simili.
In qualche modo si sarebbero riavvicinati. Lo sapevano entrambi. Avrebbero semplicemente atteso il momento giusto per ritrovare lo sguardo dell’altro e comprendere da quegli occhi che potevano riprendere da dove si erano scioccamente, goffamente e ingiustamente interrotti.
Sogno, ora dove sei?
Sono passati lunghi anni
Dal giorno in cui vidi morire la luce
Sulla tua fronte d’angelo –
Sventura, sventura per me
Eri così bello e luminoso,
come potevo pensare che il tuo ricordo
non mi avrebbe portato che pena?
Il raggio del sole e la tempesta,
la sacra sera d’estate,
l’immobile calma notte solenne,
il limpido splendore del plenilunio
un tempo si intrecciavano a te
ora si intrecciano alla pena –
visione perduta! È finita per me –
non puoi tornare a risplendere – ⁽⁴⁾
⁽¹⁾ “Ma
sì”, “certo”, in francese.
⁽²⁾
“Grazie mille”, in francese.
⁽³⁾ Località costituita da due grandi parchi naturali, vicino Toronto.
http://en.wikipedia.org/wiki/Centennial_Park_(Toronto)
⁽⁴⁾ Emily Brontë, “O Dream, where are thou now?”.