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Autore: Glenda    01/08/2012    2 recensioni
Questa è una storia scritta molto tempo fa, e l'affetto che ho per questo sito fa si che voglia condividerla con tutti voi. Nella Firenze degli anni novanta, Mattia, studente fuori sede, affronta il primo anno all'università di lettere. E' solo in una città che non conosce, impacciato, timoroso, ma soprattutto confuso su se stesso e sulla sua capacità di vivere la propria giovinezza pienamente, di saper veramente gioire, soffrire, buttarsi nella vita, amare. Gli serviranno incontri importanti per iniziare a capire, incontri con amici speciali: amici "della razza che non rimane a terra". Storia d'adolescenza, di formazione, d'amore e amicizia che tenta di rispondere ad un vecchio quesito: ma la vita, davvero, come diceva Pirandello, "o si vive o si scrive"?
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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V

 

 

 

E gli alberi son alberi

le case sono case

le donne che passano sono donne

e tutto è quello

che è, soltanto quello che è

 

(C. Sbarbaro)

 

 

 

Il rientro a Firenze fu traumatico. Sui tavoli della redazione trovai un plico di lettere a cui rispondere, siccome Filippo passava a me tutte quelle che gli parevano poco importanti; a casa dovevo recuperare i due turni di pulizie saltati durante la mia assenza, in programma avevo tre ripetizioni di latino per la settimana successiva, e i sensi di colpa per il tempo sottratto allo studio cominciavano a farsi sentire.

In principio mi consolò il tanto raccontare della mia straordinaria esperienza da "inviato speciale": a Filippo, al resto dello staff, a Rino, a Camilla...era un po' un sistema per recuperare delle immagini, e inoltre mi sentivo orgoglioso: ero stato in gamba, avevo dimostrato di essere in grado di superare brillantemente l'impatto con un ambiente estraneo e di sopravvivere benissimo alla distruzione delle mie brave abitudini.

Poco tempo dopo arrivò in redazione la rivista di Alberto, accompagnata da alcune righe di ringraziamento a noi tutti, e, a parte, una busta chiusa intestata a me. Me la consegnò Filippo, sorpreso, e aspettò che la aprissi, speranzoso che non lo costringessi a far mostra davanti a tutti della sua natura di ficcanaso.

Anche io ero curioso, non mi aspettavo quel riconoscimento personale, e aprii la busta immediatamente. Conteneva due fotografie: l'una raffigurante Alberto e me a sedere sui gradini di una chiesa, l'altra quella che avevo scattato io, in piazza Castello, con dietro una breve scritta: "Fossi in lei, non rinuncerei alla mia vocazione di fotografo! A. D'orsi". Per non essere scortese, offrii a Filippo di leggere il messaggio, evitandogli il disturbo di chiedermi di che si trattasse. - Beh - fu l'unica cosa che seppe dire - E' stato un pensiero gentile - - si - gli risposi, lusingato - molto. Come tutte le cose che dice o fa - .

Non ho mai capito se in quella occasione fosse stato stupito, invidioso, o solo soddisfatto di me: fatto sta che dopo di allora mi spedì a Torino molte altre volte, tanto che finii per conoscere la città come le mie tasche e per essere amico di Alberto almeno quanto lo era lui. Solo che me, non mi chiamò mai più "signor Loira", e non riuscì mai più neppure a darmi del lei.

 

Mi affannai talmente per recuperare il tempo perduto, che credo persi la già scarsa attenzione che avevo agli stati d'animo della gente. Così non notai il malumore di Camilla fino a quella sera grottesca, quando la sorpresi ad asciugarsi le lacrime davanti ad un film comico, alla T.V.

Ricordo che scoppiò in una innaturale risata non appena si accorse che la guardavo, e mi colse uno strano sbandamento, prima ancora di sapere cosa fosse successo, come tutte le volte che qualcosa veniva a turbare il mio equilibrio emotivo.

- Dai, vieni qui anche tu, Dido - mi invitò - questa trasmissione è divertentissima. E' una selezione delle migliori scene comiche del cinema italiano -

Con la coda dell'occhio intravidi sullo schermo un uomo grasso, con un faccione rubicondo, che cadeva dalla bicicletta, e Camilla sfoderò una nuova risata. L'audio era pessimo, un brusio di sottofondo disturbava le orecchie: doveva essere un film molto vecchio.

Il salottino era buio, fissai lo sguardo fuori dalla finestra, si vedevano i tetti delle case, le luci accese della strada e dei balconi: tutto era silenzioso e pacifico, tranne quella scatoletta rumorosa, con quel ronzio insopportabile.

Il cielo mi sembrò più scuro del solito: era nero e lucido nonostante il chiaro delle stelle, e rassomigliava ad una superficie acquosa immobile nella notte; i contorni delle case erano nitidi, nulla sfumava o si confondeva all'oscurità, proprio come in certe notti d'estate una città di mare. Mi sarebbe bastato sfilare gli occhiali per dissolvere quell'atmosfera: avrei ottenuto l'effetto di una strisciata col dito su un disegno a carboncino, e non avrei nemmeno più visto le nette linee delle lonze sulla pancia di quell'omone alla TV.

Camilla rise di nuovo

- Allora, non vieni? Guarda che è uno spasso... -

Mi sedetti accanto a lei: era già in pigiama, indossava quei suoi calzettoni di lana rosa lunghissimi, tirati su quasi fino al ginocchio, per rimediare alla misura dei pantaloni che erano invece troppo corti e larghi, con un elastico all'estremità talmente consumato che non teneva più. Ricordo che mi soffermai a guardarle i capelli, corti corti sulla nuca e tutti arruffati sulla testa, gonfi e corposi, anche se li aveva lisci come spaghetti, finché lei non se li spazzolò con una mano, liberandosi la fronte

- Pioverà - disse - i miei capelli sentono l'umido, sono diventati elettrici -

- Già...anche le mie ossa se ne accorgono... -

- Le ossa? Via, non hai novant'anni! -

- E' vero, ma sono già un relitto -

Volevo chiederle cos'avesse ma non trovavo l'occasione. Si mostrava talmente allegra che mi pareva di farle un torto ad immischiarmi in affari che non mi confidava spontaneamente; anzi, sperai di essermi sbagliato, e che gli occhiali ormai vecchi m'avessero giocato uno scherzetto.

- Allora - provai a esordire - che hai fatto, in questi giorni, senza di me? -

Non glielo avevo ancora domandato. Ero stato talmente intento a raccontare che non sapevo nulla di cosa era accaduto a Firenze durante la mia assenza.

- Ah... - fece lei, quasi straniata - non ti ho detto proprio niente? -

- No -

Esitò, poi assunse un'aria misteriosa e cercò di costruire un'espressione da "evento straordinario"

- Ho fatto amicizia con Filippo Scizio - sillabò, con chiarezza - Non te ne ha parlato neanche lui, il chiacchierone?...Non ci credo! -

Lì per lì rimasi stordito: possibile che bastasse allontanarsi un attimo per ritrovare, al ritorno, i propri equilibri tutti scombussolati e rimontati in modo tale da far fatica a ritrovare il proprio posto?

- No, non mi ha detto un bel nulla - risposi, e le chiesi di raccontarmi ogni cosa per filo e per segno.

Camilla mi riferì che lui era andato regolarmente a prenderla tutte le sere, al locale, come gli avevo chiesto io: la prima volta le aveva suonato alle spalle con il clacson - Eilà, signorina, vuole un passaggio? - e lei lo aveva scambiato per il play-boy di turno e lo aveva mandato al diavolo. - Signorina De Gaddi-Ciuffino...non mi avrà mica preso per il tipo che rimorchia le ragazze per la strada a quest'ora di notte - e qui Camilla si alzò in piedi imitando il cipiglio serioso di Filippo e calcando la voce con faccia contrita - Sono una persona seria, io! -.

Ma poi aveva acconsentito, e, al di fuori del suo ruolo di proprietario dell'appartamento e cercando di vederlo solo - tenne a precisare - come "l'amico di Dido" era riuscita a trovarlo anche simpatico.

- Sono contento - seppi solo dire - in fondo Filippo è una bravissima persona -.

Milly mi interruppe con una nuova colossale risata, puntando col dito un'altra strana faccia sullo schermo. Teneva la testa rovesciata sullo schienale, il collo lungo riverso all'indietro, la fronte tutta sgombra dalla frangia...aveva gli occhi lucidi e le gote arrossate.

Poi d'un tratto non rise più.

- Dido - mi disse (e la sua mano cercò il telecomando, schiacciò un pulsante e cancellò insieme figure e rumori ) - lo lascio -

Non risposi: mi presi un istante di tempo per capire di cosa stesse parlando e per difendermi da quella valanga di tensione rotolata sulle vecchie comiche all'improvviso

- Non ne posso più - riprese, cercando di mantenere ferma la voce - Io non credo che...che amare voglia dire per forza...soffrire...Vorrei avere una storia tranquilla anch'io per una volta. Sono stufa di essere usata solo per il sesso! -

Erano parole pesanti, non me le sarei aspettate.

- Che è successo, Milly? - chiesi, sforzandomi di esprimere partecipazione dove c'era piuttosto solo stordimento emotivo

- Indovina? - fece lei -...Mi ha fatto le corna, Dido. Se la faceva con una cretina che mi salutava con centinaia di moine quando mi incontrava! E il bello è che non è la prima volta! Lo so perché me lo ha detto... - mi guardò di sottecchi e sforzò un sorriso - l'ho costretto io, l'ho minacciato -

Provai vergogna tra me di un pensiero che mi venne spontaneo: Milly che sbatte al muro il suo ragazzo e gli grida "verme, confessa!"...Era un'immagine buffissima, pur nella sua drammaticità: mi figuravo la sua faccia alla perfezione, una scena molto realistica...e il proseguo non era difficile intuirlo: lui non le aveva chiesto perdono, non l'aveva supplicata di credere che l'amava, che era stata solo un'avventura e tutte le altre cose che si dicono in simili circostanze per togliersi d'impiccio, e magari le aveva detto "ormai è successo, decidi tu"...e lei, chissà, forse era lì a tormentarsi, piuttosto che sul tradimento, sul perché di questo mancato tentativo di riconquista, sull'assenza di una scena passionale di lacrime e pentimento come quelle che le piacevano tanto e la facevano sentire inesorabilmente viva.

...No, checché potesse dirne, lei, una storia tranquilla, non l'avrebbe sopportata, e ora - continuavo a ipotizzare - avrebbe finito di godersi anche il dolore, e a lui avrebbe fatto scontare, a peso di sofferenze inaudite, istante per istante l'oltraggio recato alla sua dignità, armata di quel temibile spirito di vendetta che solo in Camilla sarei riuscito a immaginare...

- Purtroppo - confessò invece, quasi mi avesse letto nel pensiero - non riesco neppure a farlo sentire colpevole. Anzi: ci credi che a volte è capace di far venire i sensi di colpa a me? -

- Non è possibile! - esclamai, sfoderando un po' di rabbia, da bravo difensore - Ha sbagliato lui. Tu non hai proprio nulla da farti perdonare! -

- Lo so - mormorò, abbattuta - lo so. Ma...ma tu riesci a immaginare una dialettica migliore di quella di Filippo Scizio? -

Scossi il capo, abbozzando un sorrisetto

- Ecco - disse - Lui ce l'ha: e rovescia i discorsi così bene che sembra voglia farmi capire che la responsabilità delle sue scappatelle è anche mia. La realtà è che io sono certa di essere nel giusto, certissima, Dido, lo giuro...ma quando lui mi dice certe cose non riesco a non pormi mille domande, e tutto questo mi fa sentire ancora più debole e incapace!...Invece ha torto lui, vero? - cercò conferma, stringendomi la mano - Torto marcio, Vero Dido? -

- Certo, torto marcio - incalzai - E fai benissimo a lasciarlo -

Di fronte a questa asserzione, Camilla di colpo divenne tristissima

- E allora perché non ce la faccio? - gemette, raccogliendo le ginocchia al petto, coi piedi sul divano - Perché non ce la faccio, Mattia? -

Nascose il capo tra le gambe e il seno e scoppiò a piangere.

Era una situazione spiazzante...

- Non lo so - dissi, turbato, abbracciandola - Penso di non essere competente... -

Non lo ero davvero, purtroppo. Io che riuscivo sempre a trovare alla vita qualche pecca per compiangermi senza provar vergogna di me stesso, non riuscivo ancora a capire come e perché si potesse soffrire per amore.

M'accorsi allora che non avevo mai chiesto nemmeno a Camilla se e quanto fosse felice. Ero stato distratto in maniera direttamente proporzionale a quanto mi imponevo di essere profondo nel leggere una poesia. E adesso mi vedevo proprio fuori posto, a cercare a fatica parole e gesti adeguati, ma ben sapendo di essere un gradino più in basso, fuori della sua dimensione, in procinto di proferire una serie di sciocchezze, e per di più terrorizzato dal sospetto che lei se ne rendesse conto.

D'un tratto mi ritrovai nuovamente gettato nel gorgo della vita triste, legato alla mia impotenza, svanito in poche ore l'ultimo residuo di una breve vacanza da questa mia esistenza futile e incasinata. Milly era abbracciata a me...avrei dovuto...proteggerla...coccolarla...invece...l’unica cosa che le stavo offrendo era quell’abbraccio forzato senza dolcezza e senza partecipazione...Volevo scappare, tornare a Torino, cambiare sempre posto, non fermarmi più in nessun luogo, non condividere più nulla con nessuno, non avere nulla da dare e da desiderare...Era tutto questo che mi teneva lontano dalle grandi passioni che lei incarnava ora tra le mie braccia intorpidite, e m'impediva di rispondere in franchezza, in libertà, alle altrettante sofferenze che loro elargivano a larga mano.

...Andare via. Andare via...

- Dido? - mormorò senza alzare il naso dalla mia camicia - Mi dispiace farti rimanere alzato fino a tardi -

Sentii la sua voce rimbombarmi nel petto, tanto la sua testa era vicina a me, neanche fosse quella della coscienza che mi rinfacciava tutta quella vigliaccheria

- Figurati - feci - Dato che è la sola cosa che posso fare... -

Mi interruppe, e sollevò finalmente la faccia, soffiandosi energicamente il naso al fazzoletto che aveva estratto con un gesto velocissimo dalla manica del pigiama

- Senti - propose - Mi fai le crepes? -

- Alle due di notte? -

- Perché no? -

Mi alzai, la precedetti in cucina senza replicare. In fondo - mi dissi - era una buona idea: fare qualcosa di concreto sarebbe servito a scalzare il mio disagio.

- Sai - spiegò lei, come elettrizzata da una nuova, improvvisa scarica di allegria - Si dice che la carenza d'affetto faccia venir voglia di dolci... -

- Allora io sono sempre in astinenza? -

- Può darsi. Anzi, di sicuro. Io non sopravvivrei così come fai te -

- così come? -

- Così...così da solo. Insomma, vent'anni senza amore. Per me sono stati già troppi dieci mesi! E' stata la mia massima resistenza. I dieci mesi prima di questa fottutissima fregatura!...Tu che ne pensi? Magari ho accumulato troppo desiderio, ed ora è esploso tutto insieme! Garantisco - dichiarò, alzando la mano destra, la sinistra sul petto a mo’ di giuramento - che se lascio lui, me ne faccio venti, e dopo entro in clausura! -

...Che si sarebbe fatta suora non l'avrei mai creduto, mentre sulla faccenda dei venti uomini, beh...: mi sentii moralista e mi vergognai, e per arginare il fastidio stetti al gioco

- Ah si? - dissi - Spero di rientrare almeno tra gli ultimi cinque! -

- Mi prendi in giro? - rispose - Tu saresti senz'altro il primo! -

Tirò fuori la padella dall'armadietto, e una pila di pentole rotolò per terra facendo un fracasso infernale

- Accidenti - mi allarmai - domattina chi li sente quelli del piano di sotto? -

Camilla sembrava ubriaca: aveva preso a ridere a crepapelle, chinata con la testa sul tavolo e la padella in mano, dopo essersi gettata a sedere su una sedia con altrettanto rumore

- Ridi ridi - protestai, bonariamente, con l'effetto di raddoppiare la sua irreale euforia - Tanto il ramaiolo in testa lo tirano a me, quegli isterici dei vicini, e poi si lamentano col mio "capo"! -

- Ma no, ma no - esclamò Camilla a voce ancora più alta - vedrai, corromperò anche il vicino, e anche Filippo, se è necessario, sai?...Si, anche Filippo!...Tanto non è per nulla brutto! -

- Già, e ti diminuirebbe l'affitto! -

La tensione si era allentata, eppure non mi sentivo affatto meglio. Era come se quella gioia amara venisse da me, come se fossi stato io ad averla provocata. Era strano, non mi dava sollievo...C'era insofferenza, senso di colpa, non capivo per cosa o per chi. Forse perché quella non era la via di fuga di Camilla, ma la mia? Perché non m'importava nulla se lei stesse realmente meglio, perché ciò che contava era l'aver liquidato il disagio di sentirsi impotenti e inopportuni? Probabilmente tutto questo, e qualcos'altro che non riuscivo ancora a spiegarmi e capire...

Il cielo oleoso fuori dalle finestre era tagliato solo dai lampioni: sulla facciata di fronte non c'era più una sola lucina accesa.

 

Il mattino mi svegliai che Milly ancora dormiva. Erano già le dieci, fortunatamente non avevo lezione, ma dovevo incontrarmi con Rino di lì a poco.

Il tempo era pessimo, il cielo s'era rannuvolato, e forse avrebbe piovuto. Avevo molto sonno, ma pensai che l'aria umida e odorosa avrebbe compensato la fatica di quell'uscita obbligata.

Pedalando in bicicletta mi rinfrescai i polmoni inspirando aria a pressione per strade vuote. Il vento mi si rompeva sulla faccia, mi frizzavano le gote, e dovevo lisciarmi ogni tanto con la lingua le labbra screpolate dal freddo. Trovai Rino che m'aspettava sulla porta di casa, un libro sottobraccio, i vestiti leggeri, quasi estivi. Non portava mai l'ombrello: “Mi piace l'acqua” diceva.

Camminammo verso Maiano, sotto alberi frondosi coi tronchi che odoravano di bosco e di montagna. Non facevo mai caso agli odori, non ho avuto mai cura delle mie sensazioni, ma quando c'era acqua nell'aria il mio rapporto coi sensi fisici diventava più forte e più preciso. Rino, invece, si estasiava di fronte ad ogni alito di vento, ad ogni profumo o colore, e qualsiasi scricchiolio provenisse dal ciglio del sentiero era di sicuro prodotto da qualche animale rarissimo che per puro caso doveva essere sbucato lì proprio mentre passavamo noi. Come al solito, dell'editoriale che dovevamo buttar giù sembrava importargliene poco o nulla.

- Rino? - chiesi ad un tratto, dopo dieci minuti che scarpinavo in salita faticando a morte per esporgli le mie idee tra un respirone e un altro - Ma mi stai ascoltando? -

Lui rallentò, mi guardò con un'aria stranita, si passò una mano dietro la testa e poi abbozzò un sorriso pacifico e arrendevole, che tuttavia proprio per questo non lasciava scampo

- Si - disse - ma io ho una cosa molto bella da scrivere sull'editoriale -

- Beh - ironizzai - è quello che ti sto chiedendo da un'ora -

Ero teso, infastidito: la faccenda della sera prima mi intorpidiva la testa, i pensieri e l'entusiasmo, e mi spaventava il fatto che non facevo che constatare, passo dopo passo, che il senso di estraneità che mi separava da Milly e dalla sua vita sentimentale, quel mattino ugualmente mi separava da Rino, e probabilmente dall'editoriale, dagli animali strani, dal brutto tempo e da tutto il resto.

- Fermiamoci - fece lui.

Si guardava intorno, come indeciso sulla strada da prendere nel bel mezzo di quel viottolo diritto, poi si mordicchiò nervosamente le nocche della mano, si accoccolò per terra e sedette.

Disarmato, non potetti far altro che imitarlo.

Sentii uno strano rumore sopra la testa, più su delle chiome degli alberi, quasi un tintinnio impercettibile...forse erano gocce, forse stava già piovendo...ma sotto quelle fronde fitte eravamo al riparo, e l'unico umido con cui sentivo contatto era quello del terriccio su cui ero seduto.

- Una volta, - cominciò Rino, sempre più astratto dalla realtà e da me - d'inverno, raccolsi un piccione ferito in mezzo alla strada e lo portai a casa nascosto nel mio cappello...in estate, col caldo, se n'è volato via e non è più tornato...Era importante...Una volta, al mare, un'onda mi ha travolto e mi ha bagnato i pantaloni. Era tanto freddo e io ero felice...Era importante...Una volta che avevo la febbre, qualcuno mi ha dato la vitamina all'arancia e mi ha raccontato fiabe fino a tarda notte...Era importante...Ieri sono entrato in una chiesa, così, per curiosità, e non c'era nessuno. Sono rimasto sulla soglia, in piedi sul primo gradino, ed ho sentito l'odore che veniva da quell'interno raccolto e buio. Ed anche quello è stato molto, molto importante... -

Rimasi zitto, immobile, stordito...non capivo cosa volesse dirmi, non capivo cosa c'entrasse tutto questo con l'editoriale, con Filippo, con quel posto e con me, ma come sempre restavo incantato di fronte al potere espressivo di Rino, di fronte alla fiumana di emozioni di cui mi ricopriva e mi investiva, anche quando non ne avevo affatto voglia.

- Questo, sai... - mormorò allora, quasi a spiegazione, a postilla non necessaria al suo discorso - E' quello che io cerco nella poesia. Le cose importanti. Importanti senza precisazioni...è l'unica parola che so usare a proposito, la parola più bella e più espressiva. Nella poesia, e nella vita, perché la poesia è il mio varco per la vita...il mio ponte con le cose che sono importanti per gli altri, per tutta la gente...E io non...io non vorrei sentirmi solo mai, Mattia...Mai -

Una goccia aveva trapassato la barriera di rami e foglie: mi colpì sulla fronte, scivolò sul naso e lungo il collo. Rino saltò in piedi all'improvviso, rompendo con la stessa magia con cui l'aveva costruita, l'atmosfera di un istante prima, e scoppiò in una strana risata

- Dai Mattia! - esclamò - facciamo una gara! -

E si lanciò in una corsa su per la salita.

Più avanti gli alberi sfoltivano, faceva freddo, ci saremmo bagnati, ma quella terribile magia mi trascinò dietro a lui.

Ne avevo paura, ma non riuscivo a ribellarmi.

 

Camilla aveva stabilito che quella sera avrebbe lasciato il suo ragazzo, ma mi aveva supplicato di di andare a prenderla fin dentro il locale: si sarebbe sentita più sicura sapendo che mi avrebbe trovato lì una volta voltate le spalle a lui. Temeva (o s'aspettava) che le sarebbe corso dietro per trattenerla, e lei avrebbe ceduto, non avrebbe resistito.

- Tu mi devi assicurare che ho preso la decisione giusta - mi ripetè per tutto il pomeriggio - faccio bene, non è vero? - - Credo proprio di si... - le rispondevo con scarsa partecipazione, ancora sospeso tra lo stordimento provocato dalle vibranti e inspiegate parole di Rino e il timore dell'incarico che mi sarebbe toccato tra poche ore. - Accidenti, Dido! - protestava allora lei - cerca di essere più convincente! - ed io mi sforzavo di addurre al mio debole incoraggiamento qualche valida argomentazione, facendomi forte di quel che mi restava in quei momenti di un'eloquenza acquisita nello studio delle "belle lettere" tutt'altro che adeguata alla circostanza...Per fortuna le bastava qualche frase fatta tirata fuori dal buon senso comune, purchè pronunciata in un certo modo e con una certa energia: in fondo non aveva affatto bisogno di essere persuasa, aveva bisogno solo di sentirsi nel giusto, di avere un appoggio fuori da sé.

Mi impose di ripeterle gli stessi discorsi per tutto il tragitto da casa al locale - mi ero offerto di accompagnarla, squallido tentativo di far pari con la mia ormai accertata incapacità di comprenderla - finché non la "scaricai" davanti all'entrata e pedalai via, per la strada buia.

Avrei potuto entrare con lei, e sedermi a consumare qualcosa, ascoltarla cantare, ma desideravo solo chiudermi fuori per un poco da quella situazione spiacevole e faticosa: spiacevole prima di tutto perché mi accorgevo di quanto ero inopportuno lì, e perché non riuscivo, per quanto mi impegnassi, a rendermi partecipe, e faticosa perché ero emotivamente stanco, confuso, e quell'atmosfera di sofferenza generalizzata era causa di un dispendio energetico del tutto più grande delle mie possibilità.

Pedalai veloce, contromano, sotto i lampioni disposti a larga distanza lungo il marciapiede: non passavano macchine e il viale era vuoto.

Pedalai con tutta la forza che mi era rimasta nelle gambe, fino a sentirmi il sudore grondare sulla fronte. Contavo l'alternarsi di chiazze di luce e buio sull'asfalto, e cercavo di rasserenarmi, ripetendomi che quella faccenda in fondo non mi riguardava, e che, per male che m'andasse, non avrei dovuto fare altro che scarrozzare Camilla per quelle stesse strade fino a notte fonda, o prepararle di nuovo un vassoio di frittelle.

Eppure c'era qualcosa...qualcosa che non quadrava, una casella vuota, un tassello mancante che mi impediva di razionalizzare con distacco quell'imprecisato senso di disagio che avevo avvertito fin dalla mattina...

Il movimento dei pedali era diventato una corsa involontaria dei miei piedi...

Mi sforzavo di ripercorrere una ad una le sequenze di quella giornata...

Camilla che si lamenta, piange o grida e poi ride come un'isterica rovesciando il capo sulla tavola...il cielo lucido, la pioggia...gli animali strani, il piccione ferito, la vitamina all'arancia...Rino Daniel...

Rino Daniel e le cose importanti.

Le cose importanti...

Alzai la testa sulla strada: mi ricordai che una sera ci ero passato con Filippo, attraversando senza disturbo la stessa quiete immobile e disarmante. Lui aveva citato Leopardi guardando la luna, e poi mi aveva parlato di Camilla, ed io non avevo avuto il coraggio di confidargli quanto li trovassi simili.

Ma perché, perché li trovavo simili?

Perché quella sera mi sembravano ancora più simili, loro tutti, Filippo, Camilla, Rino, così distanti, così estranei da me?

Forse se avessi io l'ale... - mi tornò in mente senza ragione - forse se avessi io l'ale da volar su le nubi...

- il cielo era scuro, sopra i confortanti coni gialli dei lampioni -

...più felice sarei, dolce mia greggia

più felice sarei, candida luna...

Il movimento dei pedali era ormai una fuga.

Mi salivano a fior di labbra alcune parole che mi sembrava dovessero acquistare senso una volta pronunciate.

Rino Daniel.

Le cose importanti.

(La bicicletta correva su quella strada dritta, senza pietà...)

Pedalare lontano.

Lontano.

Lontano.

Andare via.

Andare via.

Andare via.

 

Tornai al locale mentre Milly stava ancora cantando. Le gambe mi reggevano a stento, e sentivo i piedi gonfi pulsare nelle scarpe.

Il grande stanzone era annebbiato dal fumo, che frizzava nelle narici e arrossava gli occhi...il suono della musica era forte, molta la gente ai tavoli, luci soffuse sul soffitto e qualche coppia che ballava in mezzo alla pista. In fondo alla sala il palco, con Camilla in piedi col microfono in mano, accanto a un tizio seduto a una tastiera.

La guardai: sembrava "finta" in mezzo a quelle luci - un alone di fumo che saliva dai tavolini - poteva essere benissimo una di quelle donne della televisione disinvolte e disinibite, padrone del loro pubblico, e non avere niente a che fare con me.

Era bellissima nel suo abito da sera, e ci sapeva fare con quelle occhiate espressive e quella voce intensa e possente che pareva scaturire dall'interno, e che - davvero - non sembrava sua.

No, non sembrava lei.

Non era Camilla - la "mia" Camilla - quella creatura eterea, fatta di aria, tutta rosa anche lei nel suo vestito e sotto le luci, che incantava tutta quella gente fumosa ai tavolini, e probabilmente si trovava lì per beffa a quel luogo squallido e puzzolente...e io non ci vedevo più bene, non sopportavo più il calore che mi aveva appannato gli occhiali...non riuscivo a mettere ordine nelle immagini come nella testa, e in quel fastidio delle ore prima che ancora non si allentava...

Poi ad un tratto Camilla annunciò: - Per concludere la serata, questa canzone la dedico ad un uomo che mi ha fatto soffrire - e con la naturalezza di un'attrice nel ruolo della donna coraggiosa che rinuncia per sempre al “grande amore“, cantò una canzone d'addio struggentissima, con un testo perfettamente adeguato alla circostanza.

Mi spaventò la lucidità con cui immaginai dovesse aver organizzato minuziosamente, nei giorni precedenti, la "solenne chiusura" della sua avventura...forse lo aveva fatto per sorprendere lui, per farlo arrabbiare, costringerlo a mangiarsi le mani per non aver potuto partecipare a quel film se non nella parte di comparsa...o forse solo per potersi rivedere un domani star di quella fine romanzesca....

...Sì, quella era una "vera fine", un "gran finale", una chiusa definitiva senza svolazzi e senza strascichi.

Mi convinsi che le creature vive e solari fanno tutte così, conoscono il definitivo "alla grande", escono di scena trionfanti e una volta per sempre, mentre noi dall'altra parte li guardiamo estasiati, e non sappiamo mai bene dove le cose finiscono o vanno fatte finire, e non siamo mai capaci di premere stop, di dire basta, capolinea, addio.

Alzai il capo che lei era già uscita di scena. Immaginai che stesse parlando con lui in qualche stanzetta sul retro del palco, e infatti poco dopo la vidi schizzare fuori, e venirmi incontro di corsa senza essersi neppure struccata e cambiata come faceva di solito.

Un altro complesso stava giusto iniziando a suonare: la presi per mano e le feci strada tra la folla.

- Aspetta - mi trattenne - Per piacere, balla con me questo pezzo. E' sempre stato il mio preferito -

Immaginai che fosse "la loro canzone", quella che ballavano insieme, o che solo faceva da colonna sonora alle loro serate su quei divanetti di velluto ai margini della sala

- Non so ballare... - mormorai

- Non importa - disse appoggiandomi le mani sulle spalle - tanto bisogna solo stare abbracciati e dondolare un po'. E' un lento... -

Mi trovavo in uno stato emotivo confusionale che lentamente si stava trasformando in disagio fisico, e faceva ruotare la stanza, la musica, il mondo intorno a me. Mentre Camilla mi stringeva le braccia nude e fredde dietro il collo, le parole di Rino continuavano a ronzarmi nella testa, e continuavano a mescolarsi senza armonia né continuità alla sensazioni che venivano dall'esterno...il profumo dei capelli di Camilla, la sua gonna che mi frusciava tra i piedi, i suoni troppo forti nelle orecchie, il contatto con la pelle gelida di quelle mani appoggiate su di me, l'ondeggiare morbido di lei...

- Dido - mi bisbigliò all'orecchio, con voce rotta - ce l'ho fatta, sai? -

Poi chinò il capo tra il mio collo e la mia spalla e le sue lacrime mi bagnarono la camicia.

La strinsi forte dietro la schiena, e un brivido forte mi scivolò lungo la spina dorsale. E il brivido non cancellò quel brusio, quel chiacchiericcio mentale senza fine.

...

Il pianto di Camilla, la fine definitiva, la vera fine.

Le cose importanti.

Rino Daniel e le cose importanti.

Rino Daniel che non vuole essere solo. Mai.

 

"Le cose importanti" fu il titolo del nostro editoriale, e lo scrisse Rino in pochi minuti. Uno scritto meraviglioso.

Beh, "meraviglioso" per me, ovviamente, ma avevo già previsto che Filippo non sarebbe stato dello stesso parere.

- Una romanticheria - aveva detto, infatti - possibile che voi letterati non vi lasciate mai sfuggire l'occasione di anteporre l'intimismo appiccicoso a ciò che è serio veramente, oggi? - tuttavia volle blandire la sua stroncatura con un insolitamente remissivo "Fate vobis".

Io, invece, non gli usai la stessa cortesia: del resto, una volta stretto un rapporto di familiarità con il resto dello staff, avevo cominciato a rispondergli per le rime, anzi, il più delle volte mi piaceva mettermi alla prova facendolo

- Scusa se ti contraddico - ribattei - ma si dà il caso che il criterio con cui separare le "cose serie" da quelle che non lo sono non sia univoco. E gira voce che il mio sia come al solito diverso dal tuo -

- Esponimelo, di grazia -

- Beh, prima di tutto Rino ed io non limitiamo il campo d'azione della parola “serietà” alla politica -

- Io nemmeno... -

- Ma dai, Filippo: non lo sappiamo tutti a cosa ti riferisci quando parli di "cose serie"? -

Riuscii a suscitare uno scoppio di risa tra i presenti, tanto che, incoraggiato dall'approvazione, rincarai la dose

- Noi - e strizzai l'occhio a Rino, che non sembrava divertirsi molto - non volevamo parlare di "ciò che è importante oggi", quanto di ciò che è "importante" fuori dal tempo -

Filippo non volle farsi togliere di bocca l'ultima parola e sentenziò, tutto risentito

- "Fuori dal tempo"? Niente è fuori dal tempo -

Ma ormai lo staff era tutto schierato a nostro favore, e il signor direttore dovette arrendersi.

Non se la prese, però: anzi, quella sera stessa, in separata sede, mi fece persino i complimenti. Chissà, forse era convinto di essere lui il mio mentore, come sospettava Alberto.

- Accidenti - mi disse - sei stato agguerritissimo. Se continui così un giorno o l'altro mi darai filo da torcere! -

Io, che, riuscivo a essere battagliero solo sotto provocazione, e neanche sempre, farfugliai poche parole, impacciato.

- Macché...è che mi stava a cuore l'argomento -

- davvero? Perché? -

- Beh, perché... -

Perché.

Già: perché? Per la stessa ragione - avrei potuto dirgli - per cui avevo corso dietro a Rino su per una salita ciottolosa sotto la pioggia anche se ero stanco e inerte e avrei pagato per restare seduto su quel sasso; per la stessa ragione per cui avevo pedalato senza meta per ore fino a farmi gonfiare i piedi, in un viale in piena notte...Nulla trovava il suo posto, in quei giorni: c'era qualcosa che mi dava fastidio e che non riuscivo a focalizzare, un qualcosa di ineffabile e indistinto, irrisolto e irrisolvibile, ma che doveva avere a che fare con Camilla e me, con quella situazione, e coinvolgere per qualche strana ragione Rino e il suo discorso.

- Perché - dissi, invece - è una domanda che non mi ero mai fatto -

- quale? Le cose importanti? -

- Si -

- Oh, per carità! -

Filippo saltò a sedere sulla scrivania, non so se sorpreso o seccato, o solo rassegnato a quei miei ghirigori mentali che gli davano tanto fastidio. Io non gli diedi peso e insistetti: avevo troppo bisogno di chiederglielo.

- Perché - dissi - tu sai quali sono? -.

Lui mi guardò con un'aria compassionevole, scoppiò in una risata sfacciata, poi appoggiò un plico di fogli sul piano del tavolo, s'alzò, venne verso di me.

- Ci tieni così tanto a saperlo? -

Annuii.

- Ce ne sono un'infinità. Così tante che se solo dovessi pensare d'elencarle impazzirei, e, come hai detto alla riunione tu, non coincidono certo con quelle che lo sono per te. Comunque... - strinse le labbra in un sorriso un po' storto, istantaneo, non so se per beffa verso di me o per sostegno alla propria serietà - quello di cui sono sicuro è che la cosa più importante per me sono io -

- Che? -

Non mi aspettavo una così franca dichiarazione di egocentrismo: rimasi un attimo interdetto

- Non credi - mi azzardai - che sia un concetto un pochino egoista? -

- Per niente - rispose con naturalezza lui, appoggiando le spalle al davanzale della finestra - Credo invece che sia il presupposto dell'altruismo e della disponibilità affettiva e intellettuale. Non si può mettere a disposizione qualcosa del cui valore non si è sicuri. Io voglio...anzi, io ho sempre voluto e ottenuto di essere importante per me, per me prima di tutto e tutti, e in questo pronome ci metto tutte le cose che apprezzo o disprezzo di me stesso, le idee, la combattività, la rabbia, l'impegno, il lavoro che faccio, ciò che dico e che non dico. Mi piace l'immagine che ho di me stesso, mi compiaccio di me quando parlo o agisco o scrivo, e per le cose in base a cui lo faccio...ciò non toglie - all'improvviso cambiò espressione, fece leva sulle mani e sollevò le gambe rigide, dondolandole leggermente per aria - che sarei disposto a morire pur di non perdere tutto questo -

Non compresi, in verità, se si trattasse di un autoritratto un po' romanzesco - come quelli che lui tanto disprezzava ma a cui tanto spesso mi pareva somigliasse - tratteggiato solo per deridere me e il mio "intimismo appiccicoso", o se fosse stato uno sfoggio di sincerità, una dichiarazione di coerenza. Quest'ultimo tratto glielo avrei attribuito volentieri: mi piaceva immaginarlo fedele a se stesso e vedere nella sua caparbietà nient'altro che un'emanazione di tale virtù.

Avrei voluto poter dire lo stesso di me...Avrebbe significato possedere un punto fisso che non si muove mai, anzi, meglio ancora si sposta seguendo i miei passi....

Ecco, cominciava ad agitarsi qualcosa: il disagio stava prendendo forma.

Dovetti faticare per combatterlo, sforzandomi di gestirlo alla meglio, senza fomentare in me quel senso di esclusione che gli sfoghi di Camilla mi provocavano, quando sedevamo, sera dopo sera, su quel divanetto sempre più sfondato, con le molle sporgenti che pungevano la schiena.

Per scacciarlo scelsi il sistema peggiore: mi feci scudo delle mie tristezze, presenti o passate, cercando di recuperarne alcune che contassero, che valessero quanto le sue, e così non fui mai capace di dargli quel consiglio scontato che si dà in queste occasioni, e che ero tuttavia convinto che fosse il più giusto: lasciar perdere, mollare tutto, malinconia compresa, darsi da fare, cercarsi una nuova attività, uscire, divertirsi, dimenticare ogni cosa.

In realtà, ciò di cui avevo più paura era proprio l'attaccamento con cui lei coltivava la sua sofferenza: temevo che spronarla a staccarsene l'avrebbe offesa, l'avrebbe fatta sentire sminuita e umiliata. E, ciò nonostante, condividere con lei le mie magagne recuperate per solidarietà non bastava a rendermi suo complice: guardavo da fuori, con paziente lentezza, qualcosa che mi stava scivolando sopra, che non mi apparteneva e di cui avrei voluto liberarmi presto.

 

Un pomeriggio tornò a casa nervosa. Sbattè la porta con violenza e scaricò a terra i pacchi della spesa, mandando in frantumi nell'impatto un bicchiere colorato ricevuto in omaggio coi punti del supermercato.

Io stavo sfogliando il numero - pronto per la stampa - del "Cambio Rotta letterario". Alzai la testa appena, strizzando gli occhi stanchi per la lettura: dalle tende passava poca luce e fuori pioveva.

- Scusa... - disse - Ti ho spaventato? -

- No - risposi, assente - avevo sentito la chiave girare nella porta -.

Si tolse l'impermeabile, e lo appoggiò sul termosifone, ma quando fece per allontanarsi questo scivolò, rimanendo appeso per un lato e strusciando con l'altro sul pavimento.

- Maledizione! - esclamò lei - maledizione, oggi va tutto storto! -.

Lo lasciò lì, a gocciolare sulle mattonelle lucide, e raccolse invece i vetrini colorati, ponendoseli delicatamente, uno ad uno, sul palmo teso della mano.

- Ti aiuto? - mi offrii

- No, ho già fatto -

Poi rovesciò i pezzi di vetro nella spazzatura

- Peccato - mormorò - era molto bello... -

Mi raccontò di averlo incontrato: lui l'aveva salutata e lei aveva finto di non vederlo. Avrebbe preferito che l'avesse ignorata o trattata male: detestava la sua correttezza, quel comportarsi come se tutto fosse normale, come se fossero stati amici da sempre.

- Garantisco - dichiarò - che quel "ciao" detto così è stato peggio di una pugnalata! -

Si calmò, camminando su e giù per la stanza, finché s'avvicinò alla finestra e stampò l'impronta delle mani e della fronte sull'appannatura dei vetri. La pioggia stava picchiando sul davanzale e faceva un bel suono nel silenzio, ma quel silenzio mi era insopportabile.

- Sai - dissi allora, tanto per parlare - abbiamo terminato il nuovo numero -.

Sapevo di essere completamente fuori luogo, ma erano proprio quelle le volte in cui le mie paranoie saltavano fuori in ribellione e mi dicevano che avevo diritto ad essere più triste di lei, anche senza che ne esistessero ragioni plausibili.

- Ah, bene - commentò, fredda - Filippo sarà contento -

Mi sentivo incompreso, mi dava fastidio la consapevolezza che il mio disagio contasse meno del suo, che la mia esclusione non avesse un peso, e mi pareva terribilmente ingiusto non poter affermare che, in modo indiretto, non so per quali direzioni, quella situazione stava suscitando un dramma di non minore violenza anche in me, e che la colpa era sua e lei non poteva e non doveva ignorarlo.

- Non era molto soddisfatto, invece - risposi, scostante - trova l'argomento una romanticheria -

Si vedeva lontano un miglio che quella conversazione era per entrambi totalmente priva di interesse, e niente ci impediva di interromperla. Tuttavia procedevamo per inerzia, ognuno per conto proprio, e più parlavamo, più una distanza incolmabile si poneva tra noi.

Lei prese in mano la pagina dell'editoriale.

- Non è una romanticheria - disse, un po' acida - è una scontatezza -

Volevo risponderle che le vere scontatezze erano le canzoni languide su cui si commuoveva la sera prima di andare a letto, ma stetti zitto. Lei fece lo stesso, e prese a disegnare ghirigori sulla finestra appannata: il rumore stridulo del suo dito contro il vetro era più fastidioso del silenzio di poco prima.

Rimanemmo così non so quanto, ognuno chiuso nel proprio isolamento senza sbocco.

Poi, nel momento in cui meno me l'aspettavo, Camilla sorrise, e riprese a parlare con totale spontaneità e dolcezza

- Importante, Mattia... - sussurrò con una voce che sembrava quasi la stessa di quando cantava - è quello che noi sappiamo rendere importante nel momento in cui lo viviamo. Ed è importante continuare a credere in sé stessi, perché anche se tutto... - e qui incespicò, inghiottendo rumorosamente - anche se tutto prima o poi finisce, se tutto è destinato a finire, ci sei sempre te...e sai che potrai trovare altre cose importanti -

Si voltò a guardarmi, e io m'accorsi di essere di nuovo spaventato e turbato, come quella mattina sulla salita con Rino

- E se una cosa ti manca - dichiarò, con quella bellissima voce incrinata, ma quasi solenne, oracolare - vuol dire che quella cosa era davvero importante...E bisogna...essere contenti -

Senza accorgermene, ineffabilmente, alle sue ultime tre parole mi era venuto da piangere: un pianto velocissimo e impercettibile, che Camilla non vide, e che, del resto, non era per lei. Non era per lei né per me, né per le cose importanti che finiscono e di cui bisognerebbe essere felici.

Mi ero invece commosso per lo sconcerto del mio disagio diventato finalmente toccabile, per l'improvvisa certezza che delle centinaia di cose che costituivano la mia vita ce n'erano un'infinità di utili, di valide, di piacevoli, e nemmeno una veramente irrinunciabile, e che questo fatto che avevo sempre creduto un punto di forza, invece di rendermi libero mi rendeva vuoto.

Avrei voluto anche io, fosse pure per una sola volta, trovarmi di fronte a qualcosa di così grande forte e terribile per cui valesse la pena mettere in gioco tutto, a qualsiasi costo: essere pronto a sacrificare ogni cosa e sentirmi tragicamente vivo.

Essere pronto a morire...

D'un tratto mi venne da pensare che Alberto aveva ragione: avrei dovuto nascere in un altro tempo, uno di quei secoli di grandi ideali collettivi, dove non ci vuole sforzo per sentirsi parte di una comunità, si resta coinvolti per forza.

O forse avrei dovuto solo nascere una persona diversa, capace e vitale, aperta e disponibile a tutte le emozioni, ben inserita nella realtà pratica che gli gira intorno.

Un uomo che sa di contare qualcosa per il mondo, consapevole del suo valore, col coraggio di fare e di disfare, un uomo libero, forte, fiducioso e ottimista.

Attivo ed entusiasta, come Filippo.

  
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