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Autore: Flami Destrangis    03/08/2012    4 recensioni
“Per un attimo le sembrò di aver dimenticato tutto. Il telefono perso, il motivo per cui si trovava lì, le preoccupazioni degli ultimi mesi. Kogoro, Shinichi, Conan, Sonoko.. le sembravano solo nomi lontani. Poi, la realtà tornò a bussare con insistenza alla porta. E per quanto lei non volesse aprire, prima o poi la realtà si stufava di aspettare. Estraeva la chiave di scorta e apriva la porticina della sua mente, irrompendo come un fiume in piena.”
In un giorno di primavera, Conan scompare improvvisamente. L’ultima immagine che Ran ha di lui è quella di un bambino che corre, attirato da una strana Porsche nera parcheggiata nelle vicinanze. Due giorni dopo, il suo corpo viene ritrovato nei pressi del porto. Chi è stato? Ran è sempre più confusa, al dolore per la morte di Conan si aggiunge lo strano e improvviso silenzio di Shinichi. Perché non la chiama più?
Per mantenere viva la speranza di ritrovarlo, Ran decide di partire. Un viaggio alla ricerca di Shinichi, un percorso che la porterà in giro per il Giappone, tra città sconosciute, antichi templi e una leggenda che assomiglia fin troppo alla sua storia. Finché la leggenda non si tramuterà in realtà.
Genere: Azione, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro Personaggio, Kogoro Mori, Ran Mori | Coppie: Ran Mori/Shinichi Kudo
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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“Stiamo oltrepassando un confine,

da qui non si torna più indietro …”

 

(tratta dal film “Sogni e delitti” di Woody Allen)

7. Kahlua: gusto caffè e vaniglia

 

Quando riaprì gli occhi, ci mise un po’ per mettere a fuoco ciò che la circondava. Era stesa su un letto e si trovava in una stanza che non aveva mai visto. Si massaggiò piano la testa, e scoprì di avere un grosso bernoccolo. Almeno non era ferita.

Sollevò piano il capo dal cuscino. La stanza era in penombra, pochi raggi di luce filtravano dalle tende leggermente scostate. Era una luce flebile e biancastra. Sembrava l’alba.

Si girò in cerca di altri indizi e notò una sveglia digitale appoggiata su un comodino: erano le cinque e mezza di mattina. Aveva dormito per tutta la notte. Probabilmente dovevano averle somministrato qualche sonnifero o un farmaco del genere. Provò ad alzarsi, ma era ancora intontita. In più, la testa le doleva ad ogni santo movimento. Sbuffò e si lasciò nuovamente andare sul cuscino.

La stanza dove si trovava era disadorna. Quel piccolo comodino di brutta fattura era l’unico mobile, insieme al letto su cui provava a rigirarsi freneticamente, nel tentativo di osservare nel miglior modo possibile quella che sembrava a tutti gli effetti una cella.

L’intonaco del muro era scrostato, e qua e là si intravedeva una crepa. Sugli angoli c’erano anche evidenti segni di muffa.

Ma dove si trovava? O meglio, dove l’avevano portata?

Alzò gli occhi a guardare il soffitto e notò una lampadina che pendeva pericolante, attaccata ad un filo rosso. Chissà se funzionava.

Chiuse gli occhi e inspirò profondamente quell’aria che sapeva di prigione. Ripensò agli ultimi avvenimenti, cercando di mettere ordine nella sua mente.

La sua decisione di cercare Shinichi, il viaggio a Tottori e Kyoto, l’incontro con quei due uomini. La scoperta della vera fine di Shinichi e del suo essere Conan, la sua decisione di vendetta. Per un attimo si sentì persa.

Ma cosa stava facendo? Si era infilata in una guaio troppo grosso, da cui non sapeva se sarebbe riuscita ad uscire. Aveva agito di impulso, facendosi trascinare dal rancore. Ma insomma, Shinichi non le aveva insegnato nulla? Lui non avrebbe mai voluto che lei compisse un gesto del genere.

Eppure, più ci ripensava e più la rabbia cresceva. Quegli uomini le avevano tolto tutto: che diritto avevano di restare impuniti? Nessuno. Perché dovevano sempre essere i più deboli a soffrire? Ran cercò di farsi forza, stringendo tra le dita quelle lenzuola ruvide. Ormai era in ballo e doveva ballare. Anche se quella danza era a prima vista troppo difficile per lei.

Ripensò a tutto quello che si stava lasciando dietro. Suo padre, Sonoko, i suoi amici. L’avrebbero cercata, ma non sarebbero mai arrivati alla verità. Quegli uomini sembravano abili ad occultare ogni tipo di prova. Capiva perfettamente che si stava imbarcando in una sorta di azione suicida: ma la forza della disperazione la spingeva, la faceva andare avanti e avanti, sempre di più. L’avrebbe spinta anche oltre l’orlo del baratro? Questa era la questione. Ma ora non le importava. Voleva l’obiettivo: il prezzo sarebbe arrivato dopo.

Così, persa nei suoi pensieri, stava quasi per riaddormentarsi, quando vide la maniglia della porta abbassarsi. Qualcuno stava aprendo con lentezza. Con estrema lentezza. Il suo cuore non poté evitare di accelerare il battito e i suoi occhi non furono in grado di staccarsi da quel rettangolo marrone che pian piano si scostava.

Ancor prima di vederlo, ne sentì l’odore. Una sbuffata di alcool e nicotina, portata da un vento inesistente. Era lui.

I capelli lunghi e biondi e l’impermeabile nero confermarono la sua ipotesi.

Inizialmente l’uomo non sembrò considerarla. Si avvicinò alla finestra e scostò piano le tende, per poi aprire leggermente un’anta. Ran lo ringraziò mentalmente, per poi pentirsi subito di quello strano pensiero. In effetti, però, l’aria stava davvero diventando soffocante.

L’uomo si girò, appoggiò le spalle al muro e si accese una sigaretta. Ecco perché aveva aperto la finestra, pensò Ran. Un gesto di altruismo era incompatibile con quell’uomo nero. Lei si limitò a fissarlo con odio per qualche minuto. Anche lui la fissava. Uno sguardo che non le piaceva per niente.

“Dove siamo?” chiese poi, ansiosa di porre fine a quel silenzio. Gli occhi dell’uomo, doveva ammetterlo, le facevano paura.

Lui inspirò profondamente prima di rispondere.

“Non ti interessa.”

“Invece direi di sì, dal momento che abbiamo deciso di collaborare.”

Lo sguardo di lui si fece ancora più penetrante.

“Senti, ragazzina, non prenderti troppe libertà. Qui comando io, non tu. Ricordatelo.”

Non si lasciò intimidire. Lottando contro il mal di testa e i postumi del sonnifero, si alzò a sedere. Quell’uomo non era certo venuto per una visita di cortesia. C’era dell’altro. Senza pensarci due volte, decise di chiederglielo.

“Perché sei venuto? Cosa devo fare?”

Gin spostò la sigaretta a un lato della bocca, mordendola mentre iniziava a parlare. Solo allora Ran si accorse che portava con sé una grossa sacca. Sembrava un borsone da sport. Rabbrividì, mentre le peggiori ipotesi le attraversavano la mente: forse voleva farla fuori e poi chiuderla in quella dannata borsa. Scacciò il pensiero dalla testa.

“Prima di tutto, prendi questo.”

Buttò il borsone sul letto, con grande sollievo di Ran, che vide del tutto abbattuta la sua ultima ipotesi. Pensò di doverlo aprire. Fece un po’ di fatica con la zip leggermente difettosa, ma alla fine riuscì ad estrarre il contenuto. Si trattava di un tailleur nero, gonna stretta appena sopra il ginocchio e giacca dello stesso colore. Si chiese se il suo ruolo sarebbe stato quello di recarsi perennemente a dei funerali. Lo guardò con fare interrogativo.

“Quelli sono i tuoi nuovi vestiti.” disse l’altro, a mo’ di spiegazione, “Mentre il tuo nome sarà Kahlua.”

Strinse leggermente gli occhi, e sul volto gli si dipinse un sorriso sadico, mentre sputava a terra la sigaretta. Poi aggiunse: “Kahlua: dolce, ma forte abbastanza da far girare la testa.”

Ran inarcò le sopracciglia, ripensando a quel liquore messicano di cui aveva sentito parlare qualche volta. Un misto di caffè, zucchero, sciroppo di mais e vaniglia. Tutto sommato, non era neanche così male come nome. Gin interruppe nuovamente i suoi pensieri.

“Tra poco ci sarà il tuo primo lavoro.”

Sussultò e si girò a guardarlo. Che intendeva?

“Devo essere sicuro di potermi fidare almeno in parte di te. Qui non c’è posto per gente che si fa scrupoli.”

Spostò nuovamente il suo sguardo sul tailleur. Per un attimo, le tornò in mente il volto di Shinichi. Quel visto le provocava due emozioni opposte: in primo luogo, una gran rabbia nei confronti di chi aveva spento quel sorriso sicuro e birichino, un forte desiderio di vendetta. Ma poi, subentrava uno strano sentimento. Shinichi che le insegnava come la vendetta fosse inutile, come un bravo detective debba sapersi distinguere dall’assassino. Cosa ne sarebbe stato di lei, ora? Sarebbe diventata una criminale, esattamente come loro. Eppure lei non voleva uccidere nessun altro. Voleva solo spegnere quel sorriso malvagio che caratterizzava Gin. Era lui, l’uomo che le aveva portato via Shinichi.

Strinse i pugni. Era troppo tardi per tornare indietro.

“Cosa devo fare?” chiese, cercando di mantenere fermo il tono di voce.

“Sai usare questa?”

Gin estrasse una pistola dalla tasca del cappotto. Non era quella che aveva usato contro Ran il giorno prima. La ragazza capì che era destinata a lei.

Annuì, mentendo spudoratamente. In realtà, una volta al commissariato le avevano spiegato come si usava una pistola e il meccanismo con cui essa era innescata, ma di fatto non l’aveva mai utilizzata.

“Allora vestiti. Passerò a prenderti a mezzogiorno e ti illustrerò i dettagli. Nel frattempo sei libera di girare per l’appartamento.”

Ripose la pistola nella tasca e se ne andò a passo lento e cadenzato. Ran rimase immobile, seduta sul letto, fino a quando non sentì la porta chiudersi con uno scatto. Solo allora si alzò, traballando un po’ per il male alla testa, e iniziò a curiosare in giro. L’appartamento era composto da quella squallida stanza, un bagno e un piccolo angolo cottura. Niente di più. Che razza di postaccio, pensò, mentre entrava nel bagno. Almeno quello sembrava pulito. C’era un asciugamano che profumava di nuovo poggiato su uno sgabello, vicino al lavandino. Nell’angolo opposto c’era una doccia. Senza pensarci due volte, si spogliò e si lasciò accarezzare dall’acqua. Il flusso non era un granché, ma meglio di niente.

Ritornò nella stanza avvolta da quell’asciugamano un po’ troppo piccolo e si decise ad indossare i vestiti che l’uomo le aveva portato. Accidenti, non era abituata a portare delle gonne così strette, le impedivano i movimenti. In corridoio trovò uno specchio e si soffermò a guardarsi.

Quella era davvero lei? Una donna stretta in un tailleur da funerale, con profonde occhiaia scure che le contornavano gli occhi. E poi era pallida, molto pallida. Un candore che contrastava nettamente con il nero degli abiti. In cosa si stava trasformando?

Notò che accanto allo specchio c’era la sua borsa. Lì, buttata per terra. E anche aperta. Quei maledetti dovevano aver frugato alla ricerca di qualche informazione. Iniziò a cercare, per vedere se mancasse qualcosa. Trovò tutto, tranne il portafogli, con la carta d’identità e tutto il resto. Il cellulare doveva ancora ricomprarlo, per cui non trovò strana la sua mancanza. Afferrò il suo kajal e contornò di nero gli occhi. Giusto per rimanere in tinta. Che cos’altro poteva fare? Erano più o meno le otto di mattina. Si lasciò andare su una sedia e attese, cercando di non pensare a quelle mille preoccupazioni che le martellavano il cervello.

 

 

Quando sentì la serratura della porta scattare, Ran era sull’orlo di una crisi di nervi. Il silenzio assoluto e la noia più totale che le avevano fatto compagnia per quelle quattro ore erano ormai diventati insopportabili. E in più, la sua mente continuava ad essere affollata da brutti pensieri. Aveva paura di muoversi, sapendo di essere probabilmente circondata da microspie e telecamere. I film polizieschi le avevano insegnato qualche metodo dei criminali. E essere tanto amica di Shinichi le aveva fatto imparare a tenere ben aperti gli occhi.

Gin si fermò sulla soglia.

Seguimi ” disse soltanto.

Ran infilò le scarpe con i tacchi che aveva trovato nel borsone e si incamminò. Ci mise un attimo a trovare l’equilibrio giusto. Non usava i tacchi da mesi e non li aveva mai messi così alti. Maledizione. Quell’abbigliamento era quanto di più scomodo ci fosse.

L’uomo nero sembrava divertito dalla sua iniziale difficoltà. Avrebbe voluto tirargli uno schiaffo ma, non sapendo nemmeno lei come, riuscì a trattenersi.

Scesero la rampa di scale che li separava dall’uscita e approdarono in un vicolo semi disabitato. La solita Porsche nera era parcheggiata davanti all’ingresso. Il biondo salì in macchina e Ran immaginò di dover fare lo stesso. Prese posto davanti, cercando di ignorare quell’odioso odore che infestava l’automobile. Gin ingranò la prima, e partì.

“Dove andiamo?” chiese, provando ad orientarsi.

“Ti ho già detto che fai un po’ troppe domande?”

Che situazione esasperante. Se almeno quell’uomo fosse stato un po’ meno enigmatico.

“Andiamo nei pressi della città antica. Devo farti vedere una persona.” rispose lui, dopo qualche minuto. A quanto pareva, voleva solo tenerla sulle spine.

Arrivati in vista dei templi, Gin accostò al lato di una strada  poco frequentata. Pochi metri più avanti, c’era un incrocio.

“Aspettiamo qui. A breve dovrebbe passare una macchina decapottabile e parcheggiarsi davanti quell’hotel. Lo vedi?”

Ran annuì. Da quella piccola via riuscivano a vedere uno spaccato della strada principale. Compresa l’entrata dell’hotel. Sembrava un albergo di lusso.

“Osserva bene l’uomo che scenderà dal sedile posteriore. E’ il nostro. Anzi no.. è il tuo.” si corresse, accendendosi un’altra sigaretta.

“Chi è?” chiese lei, incominciando a capire cosa avrebbe dovuto fare.

“Il capo di una grossa azienda. Sa un po’ troppe cose e non possiamo correre il rischio che le vada a dire in giro.”

“Sa di essere sotto tiro?”

Ran cercava di calarsi nel ruolo nel miglior modo possibile. Non poteva permettersi errori.

“Probabilmente sì.”

“E allora perché se ne va in giro con una macchina decapottabile?”

“E’ sempre stato un uomo stupido.”

Gin inspirò avidamente, e poi si girò a guardarla: “Sei intelligente, Kahlua: inizio a pensare che potresti esserci utile anche una volta risolta la pratica Kudo.”

La ragazza sentì il sangue ribollirle nelle vene. La pratica Kudo. Da quando in qua la vita di qualcuno era una pratica? Le veniva la nausea. Stare vicino a quell’essere era un qualcosa di insopportabile. Cercò di dissimulare i suoi pensieri e andare avanti con la conversazione.

“E io cosa dovrei fare?”

“Non fingere di non aver capito. Ti conviene mettere da parte quel poco di bontà che ti resta.”

Questa volta non poté trattenersi. Che ne sapeva di lei? Come poteva parlare della sua bontà o di altre qualità? Non poteva giudicarla. Non la conosceva.

“Tu non sai niente di me.” sibilò.

“Hai accettato di collaborare. Questo mi fa pensare che tu non sia uno stinco di santo. Tuttavia, non sembri molto felice di svolgere il tuo primo lavoro. Ricorda,” iniziò, piantando i suoi occhi in quelli di lei, “o la sua vita, o la tua. Scegli.”

Ran rabbrividì. Tornò a guardare la facciata dell’hotel. Non sapeva cosa rispondere. Per fortuna, la famosa auto decapottabile arrivò e si parcheggiò esattamente dove Gin aveva detto. Dal sedile posteriore scese un uomo di mezza età. Capelli scuri chiaramente frutto di una recente tinta, baffetti, vestiti distinti.

“E’ lui?”

Gin emise un grugnito, che probabilmente corrispondeva ad un sì. Ran preferì non indagare oltre. Nel frattempo, l’uomo aveva salutato un altro signore seduto sul sedile anteriore. Poi, l’auto era ripartita e la preda era entrata nell’hotel con un accompagnatore.

“Lo farai stasera.” disse Gin, lasciando andare il capo sul poggiatesta.

“Stasera?” chiese Ran. Una domanda che sapeva più che altro di sorpresa. Lei non voleva uccidere quell’uomo. Cosa le aveva fatto? Assolutamente niente. Doveva sbrigarsi. Mettere in atto il suo piano prima di dover davvero compiere il lavoro che Gin le aveva assegnato. Ce l’avrebbe fatta in meno di dieci ore?

“Non c’è occasione migliore. Il nostro uomo sarà a cena fuori. Dopo la cena, dovrebbe tornare in albergo, ma è solito recarsi .. come dire.. in case poco raccomandabili. Lo seguiremo fin lì. Il quartiere dove si trova quel posto è malfamato, e nessuno farà caso a noi. Al massimo potrà vederci qualche ubriaco che si scorderà di noi già la mattina dopo. Quando uscirà dal locale, tu farai quello che devi fare. E poi ce ne andremo.”

Aveva esposto il suo piano con una tranquillità assoluta.

“E se dovessi fallire il colpo?”

“Ci sarà un cecchino di fiducia appostato nelle vicinanze. Interverrà nel caso in cui tu fallisca. E poi ci sarà Vodka nei paraggi. Tranquilla, non c’è possibilità che il nostro uomo veda l’alba di domani.”

Che razza di mostro, pensò Ran. Si limitò ad annuire, girando il volto verso il finestrino. Le veniva da piangere e urlare. Si era infilata in un mondo che non era il suo. A tratti si sentiva davvero persa.

Da parte sua, Gin ingranò la prima e partì. Accese una piccola radiolina portatile poggiata sul cruscotto. Forse voleva ascoltare il notiziario? La voce di una donna stava annunciando le previsioni del tempo. Per quella notte e per il giorno successivo era prevista pioggia. Gin si morse il labbro.

“Accidenti.”

“Con la pioggia il tuo cecchino sarà inutilizzabile.” disse Ran, più a se stessa che a lui. Aveva sentito qualcosa del genere in un telefilm poliziesco, in cui la pioggia arrivava sempre in tempo per salvare la vittima designata.

“Non importa. Non è un’operazione difficile. Andremo avanti lo stesso.”

Un’operazione. Sembrava tutto un calcolo. Gin trattava le persone come se fossero cose. Ran strinse i denti. Come poteva quell’uomo non comprendere il valore di una vita? Avrebbe voluto tirare un pugno al vetro. Spaccare tutto, compresa la faccia di quel mostro.

Ma si limitò semplicemente ad ascoltare le previsioni del tempo.

 

 

 

 

 

Angolino autrice:

Ecco qui il settimo capitolo! Spero che vi sia piaciuto :)

Ci ho messo un secolo a trovare un nome in codice per Ran, e alla fine la mia scelta è caduta proprio su Kahlua .. che ne dite? A me sembrava uno dei migliori. Spero di non aver preso un colossale abbaglio!

Ci tengo moltissimo a ringraziare chi ha recensito lo scorso capitolo, cioè Aya_Brea, IAmSlightlyMad e xthesoundofsea . Grazie mille davvero, leggere i vostri commenti mi spinge sempre a scrivere e ad andare avanti per migliorarmi!

Grazie anche a chi ha la storia tra le preferite, seguite e ricordate e a chi si limita a leggerla.

Ci si risente al prossimo capitolo, che è anche l’ultimo. Alla fine della fan fiction spenderò qualche parola sulla storia, così da chiarire magari alcuni punti interrogativi.

Grazie ancora a tutti!

Un bacione grandissimo,

Flami

  
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