Searching
“Stiamo oltrepassando un confine,
da qui non si torna più indietro …”
(tratta dal film “Sogni e delitti” di Woody Allen)
7. Kahlua: gusto
caffè e vaniglia
Quando
riaprì gli occhi, ci mise un po’ per mettere a fuoco ciò che la circondava. Era
stesa su un letto e si trovava in una stanza che non aveva mai visto. Si
massaggiò piano la testa, e scoprì di avere un grosso bernoccolo. Almeno non
era ferita.
Sollevò
piano il capo dal cuscino. La stanza era in penombra, pochi raggi di luce
filtravano dalle tende leggermente scostate. Era una luce flebile e biancastra.
Sembrava l’alba.
Si
girò in cerca di altri indizi e notò una sveglia digitale appoggiata su un
comodino: erano le cinque e mezza di mattina. Aveva dormito per tutta la notte.
Probabilmente dovevano averle somministrato qualche sonnifero o un farmaco del
genere. Provò ad alzarsi, ma era ancora intontita. In più, la testa le doleva
ad ogni santo movimento. Sbuffò e si lasciò nuovamente andare sul cuscino.
La
stanza dove si trovava era disadorna. Quel piccolo comodino di brutta fattura
era l’unico mobile, insieme al letto su cui provava a rigirarsi freneticamente,
nel tentativo di osservare nel miglior modo possibile quella che sembrava a
tutti gli effetti una cella.
L’intonaco
del muro era scrostato, e qua e là si intravedeva una crepa. Sugli angoli
c’erano anche evidenti segni di muffa.
Ma
dove si trovava? O meglio, dove l’avevano portata?
Alzò
gli occhi a guardare il soffitto e notò una lampadina che pendeva pericolante,
attaccata ad un filo rosso. Chissà se funzionava.
Chiuse
gli occhi e inspirò profondamente quell’aria che sapeva di prigione. Ripensò
agli ultimi avvenimenti, cercando di mettere ordine nella sua mente.
La
sua decisione di cercare Shinichi, il viaggio a Tottori e Kyoto, l’incontro con quei due uomini. La
scoperta della vera fine di Shinichi e del suo essere
Conan, la sua decisione di vendetta. Per un attimo si sentì persa.
Ma
cosa stava facendo? Si era infilata in una guaio troppo grosso, da cui non
sapeva se sarebbe riuscita ad uscire. Aveva agito di impulso, facendosi
trascinare dal rancore. Ma insomma, Shinichi non le
aveva insegnato nulla? Lui non avrebbe mai voluto che lei compisse un gesto del
genere.
Eppure,
più ci ripensava e più la rabbia cresceva. Quegli uomini le avevano tolto
tutto: che diritto avevano di restare impuniti? Nessuno. Perché dovevano sempre
essere i più deboli a soffrire? Ran cercò di farsi
forza, stringendo tra le dita quelle lenzuola ruvide. Ormai era in ballo e
doveva ballare. Anche se quella danza era a prima vista troppo difficile per
lei.
Ripensò
a tutto quello che si stava lasciando dietro. Suo padre, Sonoko,
i suoi amici. L’avrebbero cercata, ma non sarebbero mai arrivati alla verità.
Quegli uomini sembravano abili ad occultare ogni tipo di prova. Capiva
perfettamente che si stava imbarcando in una sorta di azione suicida: ma la
forza della disperazione la spingeva, la faceva andare avanti e avanti, sempre
di più. L’avrebbe spinta anche oltre l’orlo del baratro? Questa era la
questione. Ma ora non le importava. Voleva l’obiettivo: il prezzo sarebbe
arrivato dopo.
Così,
persa nei suoi pensieri, stava quasi per riaddormentarsi, quando vide la
maniglia della porta abbassarsi. Qualcuno stava aprendo con lentezza. Con estrema lentezza. Il suo cuore non poté
evitare di accelerare il battito e i suoi occhi non furono in grado di
staccarsi da quel rettangolo marrone che pian piano si scostava.
Ancor
prima di vederlo, ne sentì l’odore. Una sbuffata di alcool e nicotina, portata
da un vento inesistente. Era lui.
I
capelli lunghi e biondi e l’impermeabile nero confermarono la sua ipotesi.
Inizialmente
l’uomo non sembrò considerarla. Si avvicinò alla finestra e scostò piano le
tende, per poi aprire leggermente un’anta. Ran lo
ringraziò mentalmente, per poi pentirsi subito di quello strano pensiero. In
effetti, però, l’aria stava davvero diventando soffocante.
L’uomo
si girò, appoggiò le spalle al muro e si accese una sigaretta. Ecco perché
aveva aperto la finestra, pensò Ran. Un gesto di
altruismo era incompatibile con quell’uomo nero. Lei si limitò a fissarlo con
odio per qualche minuto. Anche lui la fissava. Uno sguardo che non le piaceva
per niente.
“Dove
siamo?” chiese poi, ansiosa di porre fine a quel silenzio. Gli occhi dell’uomo,
doveva ammetterlo, le facevano paura.
Lui
inspirò profondamente prima di rispondere.
“Non
ti interessa.”
“Invece
direi di sì, dal momento che abbiamo deciso di collaborare.”
Lo
sguardo di lui si fece ancora più penetrante.
“Senti,
ragazzina, non prenderti troppe libertà. Qui comando io, non tu. Ricordatelo.”
Non
si lasciò intimidire. Lottando contro il mal di testa e i postumi del
sonnifero, si alzò a sedere. Quell’uomo non era certo venuto per una visita di
cortesia. C’era dell’altro. Senza pensarci due volte, decise di chiederglielo.
“Perché
sei venuto? Cosa devo fare?”
Gin
spostò la sigaretta a un lato della bocca, mordendola mentre iniziava a
parlare. Solo allora Ran si accorse che portava con
sé una grossa sacca. Sembrava un borsone da sport. Rabbrividì, mentre le
peggiori ipotesi le attraversavano la mente: forse voleva farla fuori e poi
chiuderla in quella dannata borsa. Scacciò il pensiero dalla testa.
“Prima
di tutto, prendi questo.”
Buttò
il borsone sul letto, con grande sollievo di Ran, che
vide del tutto abbattuta la sua ultima ipotesi. Pensò di doverlo aprire. Fece
un po’ di fatica con la zip leggermente difettosa, ma alla fine riuscì ad
estrarre il contenuto. Si trattava di un tailleur nero, gonna stretta appena
sopra il ginocchio e giacca dello stesso colore. Si chiese se il suo ruolo
sarebbe stato quello di recarsi perennemente a dei funerali. Lo guardò con fare
interrogativo.
“Quelli
sono i tuoi nuovi vestiti.” disse l’altro, a mo’ di spiegazione, “Mentre il tuo
nome sarà Kahlua.”
Strinse
leggermente gli occhi, e sul volto gli si dipinse un sorriso sadico, mentre
sputava a terra la sigaretta. Poi aggiunse: “Kahlua:
dolce, ma forte abbastanza da far girare la testa.”
Ran
inarcò le sopracciglia, ripensando a quel liquore messicano di cui aveva
sentito parlare qualche volta. Un misto di caffè, zucchero, sciroppo di mais e
vaniglia. Tutto sommato, non era neanche così male come nome. Gin interruppe
nuovamente i suoi pensieri.
“Tra
poco ci sarà il tuo primo lavoro.”
Sussultò
e si girò a guardarlo. Che intendeva?
“Devo
essere sicuro di potermi fidare almeno in parte di te. Qui non c’è posto per
gente che si fa scrupoli.”
Spostò
nuovamente il suo sguardo sul tailleur. Per un attimo, le tornò in mente il
volto di Shinichi. Quel visto le provocava due
emozioni opposte: in primo luogo, una gran rabbia nei confronti di chi aveva
spento quel sorriso sicuro e birichino, un forte desiderio di vendetta. Ma poi,
subentrava uno strano sentimento. Shinichi che le
insegnava come la vendetta fosse inutile, come un bravo detective debba sapersi
distinguere dall’assassino. Cosa ne sarebbe stato di lei, ora? Sarebbe
diventata una criminale, esattamente come loro. Eppure lei non voleva uccidere
nessun altro. Voleva solo spegnere quel sorriso malvagio che caratterizzava
Gin. Era lui, l’uomo che le aveva portato via Shinichi.
Strinse
i pugni. Era troppo tardi per tornare indietro.
“Cosa
devo fare?” chiese, cercando di mantenere fermo il tono di voce.
“Sai
usare questa?”
Gin
estrasse una pistola dalla tasca del cappotto. Non era quella che aveva usato
contro Ran il giorno prima. La ragazza capì che era
destinata a lei.
Annuì,
mentendo spudoratamente. In realtà, una volta al commissariato le avevano
spiegato come si usava una pistola e il meccanismo con cui essa era innescata,
ma di fatto non l’aveva mai utilizzata.
“Allora
vestiti. Passerò a prenderti a mezzogiorno e ti illustrerò i dettagli. Nel
frattempo sei libera di girare per l’appartamento.”
Ripose
la pistola nella tasca e se ne andò a passo lento e cadenzato. Ran rimase immobile, seduta sul letto, fino a quando non
sentì la porta chiudersi con uno scatto. Solo allora si alzò, traballando un
po’ per il male alla testa, e iniziò a curiosare in giro. L’appartamento era
composto da quella squallida stanza, un bagno e un piccolo angolo cottura.
Niente di più. Che razza di postaccio, pensò, mentre entrava nel bagno. Almeno
quello sembrava pulito. C’era un asciugamano che profumava di nuovo poggiato su
uno sgabello, vicino al lavandino. Nell’angolo opposto c’era una doccia. Senza
pensarci due volte, si spogliò e si lasciò accarezzare dall’acqua. Il flusso
non era un granché, ma meglio di niente.
Ritornò
nella stanza avvolta da quell’asciugamano un po’ troppo piccolo e si decise ad
indossare i vestiti che l’uomo le aveva portato. Accidenti, non era abituata a
portare delle gonne così strette, le impedivano i movimenti. In corridoio trovò
uno specchio e si soffermò a guardarsi.
Quella
era davvero lei? Una donna stretta in un tailleur da funerale, con profonde
occhiaia scure che le contornavano gli occhi. E poi era pallida, molto pallida.
Un candore che contrastava nettamente con il nero degli abiti. In cosa si stava
trasformando?
Notò
che accanto allo specchio c’era la sua borsa. Lì, buttata per terra. E anche
aperta. Quei maledetti dovevano aver frugato alla ricerca di qualche
informazione. Iniziò a cercare, per vedere se mancasse qualcosa. Trovò tutto,
tranne il portafogli, con la carta d’identità e tutto il resto. Il cellulare
doveva ancora ricomprarlo, per cui non trovò strana la sua mancanza. Afferrò il
suo kajal e contornò di nero gli occhi. Giusto per
rimanere in tinta. Che cos’altro poteva fare? Erano più o meno le otto di
mattina. Si lasciò andare su una sedia e attese, cercando di non pensare a
quelle mille preoccupazioni che le martellavano il cervello.
Quando
sentì la serratura della porta scattare, Ran era
sull’orlo di una crisi di nervi. Il silenzio assoluto e la noia più totale che
le avevano fatto compagnia per quelle quattro ore erano ormai diventati
insopportabili. E in più, la sua mente continuava ad essere affollata da brutti
pensieri. Aveva paura di muoversi, sapendo di essere probabilmente circondata
da microspie e telecamere. I film polizieschi le avevano insegnato qualche
metodo dei criminali. E essere tanto amica di Shinichi
le aveva fatto imparare a tenere ben aperti gli occhi.
Gin
si fermò sulla soglia.
“Seguimi ” disse soltanto.
Ran
infilò le scarpe con i tacchi che aveva trovato nel borsone e si incamminò. Ci
mise un attimo a trovare l’equilibrio giusto. Non usava i tacchi da mesi e non
li aveva mai messi così alti. Maledizione. Quell’abbigliamento era quanto di
più scomodo ci fosse.
L’uomo
nero sembrava divertito dalla sua iniziale difficoltà. Avrebbe voluto tirargli
uno schiaffo ma, non sapendo nemmeno lei come, riuscì a trattenersi.
Scesero
la rampa di scale che li separava dall’uscita e approdarono in un vicolo semi
disabitato. La solita Porsche nera era parcheggiata davanti all’ingresso. Il
biondo salì in macchina e Ran immaginò di dover fare
lo stesso. Prese posto davanti, cercando di ignorare quell’odioso odore che
infestava l’automobile. Gin ingranò la prima, e partì.
“Dove
andiamo?” chiese, provando ad orientarsi.
“Ti
ho già detto che fai un po’ troppe domande?”
Che
situazione esasperante. Se almeno quell’uomo fosse stato un po’ meno
enigmatico.
“Andiamo
nei pressi della città antica. Devo farti vedere una persona.” rispose lui,
dopo qualche minuto. A quanto pareva, voleva solo tenerla sulle spine.
Arrivati
in vista dei templi, Gin accostò al lato di una strada poco frequentata. Pochi metri più avanti, c’era
un incrocio.
“Aspettiamo
qui. A breve dovrebbe passare una macchina decapottabile e parcheggiarsi
davanti quell’hotel. Lo vedi?”
Ran
annuì. Da quella piccola via riuscivano a vedere uno spaccato della strada
principale. Compresa l’entrata dell’hotel. Sembrava un albergo di lusso.
“Osserva
bene l’uomo che scenderà dal sedile posteriore. E’ il nostro. Anzi no.. è il
tuo.” si corresse, accendendosi un’altra sigaretta.
“Chi
è?” chiese lei, incominciando a capire cosa avrebbe dovuto fare.
“Il
capo di una grossa azienda. Sa un po’ troppe cose e non possiamo correre il
rischio che le vada a dire in giro.”
“Sa
di essere sotto tiro?”
Ran
cercava di calarsi nel ruolo nel miglior modo possibile. Non poteva permettersi
errori.
“Probabilmente
sì.”
“E
allora perché se ne va in giro con una macchina decapottabile?”
“E’
sempre stato un uomo stupido.”
Gin
inspirò avidamente, e poi si girò a guardarla: “Sei intelligente, Kahlua: inizio a pensare che potresti esserci utile anche
una volta risolta la pratica Kudo.”
La
ragazza sentì il sangue ribollirle nelle vene. La pratica Kudo. Da quando in qua la vita
di qualcuno era una pratica? Le
veniva la nausea. Stare vicino a quell’essere era un qualcosa di
insopportabile. Cercò di dissimulare i suoi pensieri e andare avanti con la
conversazione.
“E
io cosa dovrei fare?”
“Non
fingere di non aver capito. Ti conviene mettere da parte quel poco di bontà che
ti resta.”
Questa
volta non poté trattenersi. Che ne sapeva di lei? Come poteva parlare della sua
bontà o di altre qualità? Non poteva giudicarla. Non la conosceva.
“Tu
non sai niente di me.” sibilò.
“Hai
accettato di collaborare. Questo mi fa pensare che tu non sia uno stinco di
santo. Tuttavia, non sembri molto felice di svolgere il tuo primo lavoro.
Ricorda,” iniziò, piantando i suoi occhi in quelli di lei, “o la sua vita, o la
tua. Scegli.”
Ran
rabbrividì. Tornò a guardare la facciata dell’hotel. Non sapeva cosa
rispondere. Per fortuna, la famosa auto decapottabile arrivò e si parcheggiò
esattamente dove Gin aveva detto. Dal sedile posteriore scese un uomo di mezza
età. Capelli scuri chiaramente frutto di una recente tinta, baffetti, vestiti
distinti.
“E’
lui?”
Gin
emise un grugnito, che probabilmente corrispondeva ad un sì. Ran preferì non indagare oltre. Nel frattempo, l’uomo aveva
salutato un altro signore seduto sul sedile anteriore. Poi, l’auto era
ripartita e la preda era entrata nell’hotel con un accompagnatore.
“Lo
farai stasera.” disse Gin, lasciando andare il capo sul poggiatesta.
“Stasera?”
chiese Ran. Una domanda che sapeva più che altro di
sorpresa. Lei non voleva uccidere quell’uomo. Cosa le aveva fatto?
Assolutamente niente. Doveva sbrigarsi. Mettere in atto il suo piano prima di
dover davvero compiere il lavoro che Gin le aveva assegnato. Ce l’avrebbe fatta
in meno di dieci ore?
“Non
c’è occasione migliore. Il nostro uomo sarà a cena fuori. Dopo la cena,
dovrebbe tornare in albergo, ma è solito recarsi .. come dire.. in case poco
raccomandabili. Lo seguiremo fin lì. Il quartiere dove si trova quel posto è
malfamato, e nessuno farà caso a noi. Al massimo potrà vederci qualche ubriaco che
si scorderà di noi già la mattina dopo. Quando uscirà dal locale, tu farai
quello che devi fare. E poi ce ne andremo.”
Aveva
esposto il suo piano con una tranquillità assoluta.
“E
se dovessi fallire il colpo?”
“Ci
sarà un cecchino di fiducia appostato nelle vicinanze. Interverrà nel caso in
cui tu fallisca. E poi ci sarà Vodka nei paraggi. Tranquilla, non c’è
possibilità che il nostro uomo veda l’alba di domani.”
Che
razza di mostro, pensò Ran. Si limitò ad annuire,
girando il volto verso il finestrino. Le veniva da piangere e urlare. Si era
infilata in un mondo che non era il suo. A tratti si sentiva davvero persa.
Da
parte sua, Gin ingranò la prima e partì. Accese una piccola radiolina portatile
poggiata sul cruscotto. Forse voleva ascoltare il notiziario? La voce di una
donna stava annunciando le previsioni del tempo. Per quella notte e per il
giorno successivo era prevista pioggia. Gin si morse il labbro.
“Accidenti.”
“Con
la pioggia il tuo cecchino sarà inutilizzabile.” disse Ran,
più a se stessa che a lui. Aveva sentito qualcosa del genere in un telefilm
poliziesco, in cui la pioggia arrivava sempre in tempo per salvare la vittima
designata.
“Non
importa. Non è un’operazione difficile. Andremo avanti lo stesso.”
Un’operazione.
Sembrava tutto un calcolo. Gin trattava le persone come se fossero cose. Ran strinse i denti. Come poteva quell’uomo non comprendere
il valore di una vita? Avrebbe voluto tirare un pugno al vetro. Spaccare tutto,
compresa la faccia di quel mostro.
Ma
si limitò semplicemente ad ascoltare le previsioni del tempo.
Angolino autrice:
Ecco
qui il settimo capitolo! Spero che vi sia piaciuto :)
Ci ho
messo un secolo a trovare un nome in codice per Ran,
e alla fine la mia scelta è caduta proprio su Kahlua
.. che ne dite? A me sembrava uno dei migliori. Spero di non aver preso un
colossale abbaglio!
Ci
tengo moltissimo a ringraziare chi ha recensito lo scorso capitolo, cioè Aya_Brea, IAmSlightlyMad
e xthesoundofsea . Grazie mille davvero, leggere
i vostri commenti mi spinge sempre a scrivere e ad andare avanti per
migliorarmi!
Grazie
anche a chi ha la storia tra le preferite, seguite e ricordate e a chi si
limita a leggerla.
Ci si
risente al prossimo capitolo, che è anche l’ultimo. Alla fine della fan fiction
spenderò qualche parola sulla storia, così da chiarire magari alcuni punti
interrogativi.
Grazie
ancora a tutti!
Un
bacione grandissimo,
Flami