Ecco il secondo capitolo!
Come si risolverà la situazione tesa fra Alessandra e Sesshomaru? Leggere per scoprire. E’ abbastanza lungo, e poi…Fae attenzione al titolo: non è quello che sembra!
Fatemi sapere che ne pensate.
Un abbraccio a tutti.
CAPITOLO 35
PASSATO
Rin si gettò sorridente sui cuscini. Era fradicia, ma felice.
Continuava a ripetere che pattinare le piaceva tantissimo, e che voleva tornare presto al laghetto. Prendeva Kiba e lo faceva rotolare con lei, saltellando per la stanza. Eccitata. Contenta. Irrefrenabile. Kagome l’osservava con un sorriso dolce. Era incredibile la vitalità di quella bimba. Un’allegria che contagia, che fa intenerire. Una gioia di vivere che entrava nel cuore e faceva dimenticare dolore e sofferenze. Sentimenti che esplodono violenti, travolgenti. Soffocandoti in respiri profondi.
Kagome fece scorrere le oshiire
e prese dall’armadio uno yukata verde, con piccoli
disegni di fogli e fusti di bambù. Doveva far cambiare la bimba prima che prendesse freddo e si ammalasse. Altrimenti, chi l’avrebbe
salvata dalla collera del demone? La ragazza era certa dell’esistenza di un
legame forte fra Rin e Sesshomaru, anche se ancora faticava a crederci. Era un
legame strano, fatto di gesti accennati e sguardi enigmatici da parte di lui e
di sorrisi aperti e parole continue da parte della bambina.
“Rin! Vieni a cambiarti, o prenderai freddo”
Rin a quelle parole si fermò nella stanza e si toccò
il kimono bagnato. Si accorse solo in quel momento di star tremando per il
freddo. Fissò la ragazza con in mano il vestito
asciutto, poi il suo kimono blu e di nuovo Kagome, regalandole un grande
sorriso. Non ci pensava nemmeno, a cambiarsi. Se davvero si sarebbe
ammalate per il freddo, forse allora Ale-chan
sarebbe andata da lei per curarla. E forse anche il signor Sesshomaru sarebbe
venuto.
Kagome rimase spiazzata. Quella bimba aveva un
cervellino davvero pestifero, a volte. Ma addirittura arrivare ad ammalarsi
perché l’inuyoukai e la ragazza andassero da lei era un piano tanto astuto
quanto incredibile. Cercò di convincerla a cambiarsi, che non era quello il
modo migliore per far venire da lei Alessandra. Le aveva anche promesso che se
si fosse cambiata sarebbero andate assieme da lei. Niente. Rin continuava a
scapparle. E a ripetere come una cantilena che si voleva ammalare.
“Non dire sciocchezze!”
Due mani forti, ma gentile,
le avevano afferrato le spalle, facendo cessare il suo girotondo entusiasta.
L’idea di poter attirare un po’ l’attenzione del suo signore e di Alessandra le
aveva messo addosso una frenesia incontrollabile. Ma
adesso qualcuno la teneva ferma. Rin si sentì sollevare in braccio e portare
verso Kagome.
Inuyasha era entrato dalla porta del giardino. Aveva
aspettato un attimo prima di intervenire, ma poi,
sentendo tutte quelle sciocchezze, aveva deciso di agire. L’aveva presa in
braccio e adesso la bimba era contro al suo petto, rannicchiata e con
un’espressione triste sul viso. Dannazione! In quel modo ci faceva la figura
del mostro cattivo che le toglie qualcosa che la
faceva contenta. No. Non voleva questo. Solo che la bimba si cambiasse.
Gli piaceva Rin, anche se a volte era un po’ troppo
rumorosa. Ma, probabilmente, era proprio quella sua allegria che contagiava ad
aver fatto breccia nel cuore di Sesshomaru. Anche se davvero l’hanyou non
riusciva a immaginarsi il fratello paziente con lei. Sesshomaru…Trovato! Ecco
come convincerla e farle tornare il sorriso.
“Se ti ammali, Sesshomaru non sarà affatto contento.
Ci hai pensato, Rin?”
Rin alzò gli occhi verso il ragazzo che la teneva in
braccio. Ambra. Si specchiò in due pozze d’ambra e oro. Fra sfumature che
conosceva bene, ma che le sembravano trasmettere più calore, più emozioni.
Inuyasha aveva gli stessi occhi del suo signore, ma erano più caldi. Il demone,
invece, aveva sempre quello sguardo freddo e lontano. Triste. Anche se un
sorriso gli avesse increspato le labbra.
Non voleva che il suo signore si preoccupasse. Che
fosse scontento di lei. Voleva che fosse orgoglioso di Rin e che la prendesse
ancora in braccio. Voleva che venisse un altro temporale, tanto forte da farle
così paura da andare di nuovo dal demone. Per poter dormire con lui. Come
quella sera. Non lo aveva detto mai a nessuno. Era il loro segreto: suo, di
Sesshomaru e Alessandra.
Adesso, però, la ragazza non andava più dal demone,
non andava più da Rin. Stava sempre nella sua stanza, e non mangiava neanche
con loro. Certo, Rin non poteva lamentarsi che le mancasse la compagnia: adesso
aveva molte persone attorno a sé, e poi Kiba non la
lasciava mai. Anche in quel momento, stava ringhiando contro l’hanyou, reo si
tener in braccio la sua padroncina e di aver spento il suo sorriso.
“Va bene: mi cambio. Ma poi lei gioca un po’ con
Rin, Inuyasha-san?”
Kagome represse con fatica una risata nel vedere
l’espressione fra l’imbarazzato e il sorpreso di Inuyasha. Che titolo gli aveva
dato, quella bambina? San…Nessuno gli aveva mai parlato con tanta deferenza.
Anche se sulle labbra di un bimbo poteva suonare più di scherzo che di valore
onorifico, il ragazzo ne fu sorpreso e commosso al contempo.
Consegnò Rin a Kagome e si dispose ad aspettare.
Aveva promesso. Adesso, non avrebbe potuto andarsene.
Tanto più che Sesshomaru non era ancora tornato dall’esplorazione cui aveva
voluto partecipare e lui si ritrovava senza nulla da fare. Aveva cercato Koga,
ma anche il demone- lupo era in perlustrazione. Si era imbattuto invece in quel
generale, mentre usciva dalla stanza di Alessandra.
Kumamoto lo aveva fissato, e gli aveva
rivolto un sorriso sincero. Paterno. Chissà se anche suo padre avrebbe sorriso
così. Homoe gli aveva raccontato che lui e Inutaisho erano stati compagni per molti anni e che erano
amici di vecchissima data. Kumamoto aveva vissuto a palazzo fino alla morte del Principe, aveva visto crescere
Sesshomaru, aveva conosciuto suo padre oltre la corazza. Inuyasha aveva
sospirato. Possibile che in mezzo a tutti quei demoni, lui solo dovesse mendicare delle parole, delle informazioni?
“Somigli molto a tua madre, ragazzo”
A quelle parole, l’hanyou aveva rialzato sorpreso la
testa. Non si era neanche accorto di averla abbassata. Aveva fissato il
generale e lo aveva visto accennare con il capo. Non lo stava prendendo in giro
e schernendo. Era la verità. Semplice. Naturale.
Lo aveva seguito verso i giardini interni,
ascoltandolo come si ascolta una persona più grande che ti svela realtà mai
immaginate. Kumamoto gli aveva raccontato di aver
incontrato la principessa Izayoi. Una donna
bellissima, dolce e delicata, che la maternità rendeva ancora più affascinante.
Già, perché l’aveva vista prima che il ragazzo nascesse. In una delle rare
occasioni in cui Inutaisho riusciva a incontrarla
senza rischiare di scatenare una guerra.
Il generale gli aveva raccontato le sue impressioni,
lo sguardo del padre quando la principessa gli era al
fianco. Il loro sorriso. Inuyasha ricordava bene il sorriso triste e
malinconico della madre. C’era sempre l’ombra di un rimpianto a velarlo. Ma gli
era molto difficile immaginare il padre senza un’espressione fredda e altera.
La sua perplessità era stata notata dal vecchio soldato. La capiva, in fondo il
ragazzo doveva essersi sempre rifatto a Sesshomaru per sapere qualcosa, e visto
l’atteggiamento del Principe Kumamoto non si era
sorpreso più di tanto che l’hanyou faticasse a credere alle sue parole.
“Ragazzo mio! Se vuoi sapere com’era tuo padre non
devi cercare poi molto. Basta che pensi al tuo carattere.”
Gli aveva detto battendogli una mano sulla spalla.
Se Inuyasha era confuso prima, adesso era nel caos più totale. Suo padre…suo
padre aveva il suo carattere? La sua arroganza, testardaggine, orgoglio…La sua
impulsività e avventatezza? Aveva scosso la testa totalmente incredulo. Quel
demone lo aveva canzonato per bene, e lui ci era cascato completamente. Lui
simile a suo padre. Delirio puro. Sesshomaru era il ritratto di loro padre. Lui solo. Per aspetto e carattere.
“Puoi anche non credermi, ragazzo. Sei libero di farlo. Ma io ho vissuto e combattuto con tuo
padre per secoli e ti posso assicurare che sei tu ad avere il suo carattere,
non Sesshomaru. Forse ancora un po’ acerbo e immaturo, ma anche tuo padre lo
era, alla tua età”
Lo aveva lasciato nei giardini, immerso nei suoi
pensieri, e si era diretto verso la guarnigione. Per quel giorno, aveva già
rivelato troppo all’hanyou. Verità mai sentite e che dovevano cozzare con
l’immagine che il ragazzo si era fatto del padre. Un’immagine con Sesshomaru
come unico referente. Sbagliato. Sbagliato. Se Voleva
sapere avrebbe dovuto chiedere al demone, ma anche guardare dentro di sé.
Inuyasha si passò una mano sul viso. Quel discorso
lo aveva un po’ scombussolato e non aveva fatto altro che accrescere la sua
voglia di conoscere. Per il momento, però, di domandare non se ne parlava.
Adesso doveva giocare con Rin. Perché una promessa è una promessa.
La bimba ritornò poco dopo, e lo prese per mano,
facendolo sedere. Inuyasha rimase sorpreso di come non temesse
i suoi artigli, di come non avesse paura a girargli attorno e a stuzzicarlo. O
aveva capito che l’assecondava più dell’youkai o era davvero abituata a
trattare con i demoni. Anche con quelli pericolosi. Rin adesso aveva preso Kiba in braccio: lo voleva presentare al ragazzo. Ma quando
Inuyasha allungò la mano per accarezzarlo, il lupacchiotto
ringhiò e si divincolò dalla presa. Sorpresa. Stupore. Non gli aveva fatto
nulla.
“Kiba! Torna qui! Inuyasha-san non è cattivo. Anche Koga-kun
è suo amico”
Koga-kun…Koga! Ma certo! Ecco perché il
cucciolo si era allontanato. Doveva venire dal branco dell’Ookami,
e a quanto sembrava l’antipatia per gli inugami era
comune. Sbuffò. Ci aveva messo parecchio ad avere un rapporto “civile” con il
principe degli Yoro. Adesso doveva ricominciare da
capo con quel cucciolo testardo.
Koga questa me la
paga!
All’improvviso, si era sentito toccare le orecchie.
Tornando alla realtà, aveva visto davanti a sé Rin. Gli stava accarezzando le
piccole orecchie canine, con grande curiosità. Inizialmente ne fu irritato e
pensò di allontanarsi, ma poi rimase e un piccolo sorriso si dipinse sulle sue
labbra. Certo che quella bambina era davvero strana.
“Inuyasha-san…Voi
resterete sempre qui, vero? Resterete con Rin?”
Inuyasha rimase spiazzato dalla domanda. Non aveva
mai pensato di potersi fermare a palazzo. Non era una possibilità cui aveva
fatto riferimento. Aveva sempre pensato a quella situazione come a qualcosa di
estremamente labile e temporaneo. Una parentesi da conservare con cura fra i
ricordi. Ma mai nulla di più. In fondo, non spettava a lui quella decisione.
Con Sesshomaru si sopportavano più che altro per quieto vivere, perché il
demone di lui aveva bisogno. Ma nulla gli impediva di pensare che appena fosse
stato in grado di nuovo di combattere, lo avrebbe cacciato. Se non peggio.
Alzò le spalle. Rin non doveva preoccuparsi per
quello. Le disse che non lo sapeva, ma che finchè
fosse rimasto lì sarebbero stati amici. Però la pregò di non dargli quel
titolo. Per lui Inuyasha bastava. Non era come Sesshomaru. Lui non voleva
titoli. Non gli importavano. Avrebbe voluto solo le sue radici.
…Restare…Lo vorrei
davvero?...
*****
“Ti disturbo?”
Alessandra sollevò appena la testa verso la porta e accennò col capo in segno di diniego, per poi invitare l’ospite inattesa a entrare.
Kagome si richiuse la porta alle spalle, e vi rimase appoggiata contro. Ferma. Aveva deciso di approfittare del fatto che Inuyasha fosse impegnato con Rin per andare a trovare la ragazza. Non le parlava da una settimana. Nulla, tranne un veloce saluto la mattina, se mai la incontrasse. Alessandra non si era quasi più mostrata. E Kagome supponeva che il morivo della sua reazione fosse da imputare a come l’aveva trattata il demone.
Si guardò attorno. La stanza era semplice, spartana. Come la sua. Solo molto più piena di libri e pergamene. C’era anche un tavolino ingombro di scatolette di lacca e alambicchi di porcellana e ceramica. La sera del suo arrivo a palazzo era troppo stanca per prestare attenzione a quelle cose. In quel momento, invece, la incuriosivano molto. Anche perché non ricordava di aver letto o sentito che Alessandra frequentasse una facoltà di medicina. Eppure, a palazzo del demone lei era l’archiatra.
“Sono venuta a riportarti questi. Grazie per avermeli prestati”
Solo in quel momento si era ricordata della scusa che aveva trovato. E adesso era lì, con il braccio disteso verso la ragazza e i pattini in mano. Era stata Rin ad andare a chiederglieli; perché Kagome potesse pattinare con lei. Ale-chan non pattinava più, e alla bimba dispiaceva, perché le piaceva guardarla pattinare.
Alessandra sollevò di nuovo la testa dal suo piccolo tavolino. Fissò per un istante i pattini. Bianchi. Un po’ vecchi, ma ancora in perfetto stato. Con le lame lucide che brillavano nella semioscurità della stanza. Ricordò la sensazione provata mesi prima. Quando li aveva reindossati dopo tanto tempo. Quando aveva sentito il richiamo del ghiaccio.
Quella volta, su un lago disperso fra le montagne, aveva danzato solo perché lo aveva desiderato. Per distrarre la mente. E, dopo quella ciarda, era iniziato quel gioco di silenzi e parole. Aveva iniziato a confidarsi con Sesshomaru; gli aveva aperto il cuore. Ora, quei giorni le sembravano ricordi sbiaditi. Sogni troppo lontani per essere reali. Il demone l’aveva ferita. Molo a fondo. Forse troppo. L’aveva umiliata. E, tuttavia, lei restava lì, incapace di andarsene per non perdere anche solo il sollievo di saperlo vivo.
…Perché non vuoi capire? Era l’unica soluzione…Io…non voglio che ti
succeda nulla…
Scosse la testa. Di nuovo, i pattini. Sospesi nell’aria. Avrebbe dovuto riprenderli. Non li voleva. Le facevano riaffiorare il ricordo degli occhi dell’youkai. Magia. Magia. Lo sguardo di quella sera. La voce sensuale di quella notte. L’incanto fra loro. La complicità.
Tutto infranto. Dissolto. Come neve al sole. Costruito su basi labili come cristallo. Sottili come la scia lasciata su una lastra di giaccio. Stargli accanto, va bene. Amarlo. Nel suo carattere freddo e distaccato. Nella sua dolcezza nascosta. Amare la sua determinazione audace e irriverente. La passione delle carezze e dello sguardo. Amare i suoi occhi. Magnetici. Ammaliatori. Vuoti e malinconici, ma sempre capaci di sedurre. Di avvolgere.
Lo aveva amato. Senza farsi domande. Senza preoccuparsi d’altro se non di non dargli preoccupazioni. Lo continuava ad amare. Alla follia. Perché solo una persona folle può decidere di restare accanto a qualcuno che ti considera poco più di un oggetto. Bello. Prezioso. Importante. Ma solo un oggetto. Eppure…eppure lei restava. Adducendo la scusa di un impegno preso. Una bugia perché era per lui che restava. Solo per lui.
“Tienili pure, se vuoi. Rin vorrà pattinare ancora e a me non servono”
Liberarsene. Non essere più costretta a vederli ogni volta che apriva l’armadio. Non essere più costretta a ricordare. A rimpiangere. Sbagli e illusioni. A sentirsi ripetere dalla testa una cantilena snervante: vattene. Mentre il cuore ti urla di non farlo. Ti grida di restare. Altrimenti, si spezza. Si infrange. Ti supplica. Ti non farlo di nuovo soffrire. Di non sottoporlo di nuovo a un distacco.
…Forse dovrei andarmene davvero...
“Ti va una tazza di tè?”
Kagome aveva posato i pattini al loro posto, nell’armadio a muro. Non voleva tenerli. Sapeva che per la ragazza dovevano essere importanti. Era stata quasi una campionessa, non ci avrebbe mai creduto che non li avrebbe più messi. Probabilmente, il vederli le facevano ricordare cose spiacevoli. Ma secondo lei non era un buon motivo per liberarsene. Le paure vanno affrontate, non accantonate.
Kagome non aspetto neanche la risposta. Si sedette di fronte ad Alessandra e le strappo da sotto le mani stilo e testo. Basta studio. Adesso, ci voleva una pausa. Come se fossero ancora nel loro mondo. Lontano da guerre, demoni, problemi. Solo loro due. Due ragazze che si fermano un istante. Che si scrutano negli occhi. Che cercano di capirsi a vicenda.
Alessandra fissò sorpresa il suo tavolino venir liberato da ogni ingombro. In un istante libri e fogli erano stati riposti con cura per terra, facendo attenzione a non sgualcirli, e stavano fiorendo tazzine, piattini, salviette e un bollitore caldo. Non fece niente. Lasciò che la sua ospite disponesse tutto senza la capacità di opporsi. O forse non ne aveva la volontà.
In quella settimana, si era chiusa a riccio. Aveva evitato accuratamente i contatti con gli altri, per impedirsi di cedere. Di mostrarsi provata e ferita. Si era mantenuta in contatto costante con Kumamoto e Koga, ma aveva anche evitato di partecipare al pranzo comune con Rin, Kagome e Inuyasha. Improvvisamente, si rese conto di essersi comportata da egoista, e da maleducata. Li aveva totalmente ignorati. Quasi accusandoli implicitamente di essere i responsabili del vuoto che sentiva dentro. E invece loro non centravano nulla.
Non sembravano neanche essersela presa. Altrimenti, perché adesso Kagome le sarebbe seduta di fronte, intenta versarle la bevanda profumata e calda? La fissò, concentrata in gesti lenti e raffinati. E delicatamente semplici. Non stava fingendo. Era sincera. Alessandra era sicura. In quel momento, nessuno la stava prendendo in giro.
Si rilassò. In fondo, era piacevole avere la compagnia di una persona della propria epoca. Kagome le stava raccontando quello che era successo dopo che lei era sparita. Le ricerche, le voci che circolavano scuola. Le disse la sua sorpresa nel vederla lì e le parlo anche della sua incapacità a capire la sua scelta. Sesshomaru, a detta della ragazza, era una persona estremamente fredda, quasi cinica. Era altezzoso, egocentrico, con una boria che non era tanto una facciata per imporsi, ma una convinzione ben radicata nel suo animo.
Alessandra ne rimase sorpresa e turbata. Tanto che Kagome si morse la lingua. Ma lei non poteva farci niente. Era sincera. Non sapeva mentire e non avrebbe mai imparato a farlo. Forse dissimulare, ma anche in quel caso non ce la faceva mai a lungo. E anche in quel momento aveva detto ciò che pensava. Alzò gli occhi sull’amica, anche se con un po’ di imbarazzo.
“Scusa. Non volevo essere maleducata. Ma proprio non riesco a immaginare come devono essere stati questi mesi con una persona insensibile com’è Sesshomaru. Devi esserti sentita molto sola”.
Alessandra fissò le sfumature d’ambra nella tazzina. Si attorcigliavano leggere, sbiadendo e brillando fra il vapore leggero.
Molto sola…
No. In quei mesi, dopo anni, finalmente non si era sentita sola. All’inizio, forse. Ma poi era cambiato tutto. Aveva trovato qualcosa che aveva dimenticato. Aveva trovato lui. Sesshomaru. La sua amicizia, i loro confronti silenziosi, il conforto che le dava, la sicurezza che le sapeva infondere. Kagome aveva ragione: il bel demone le era apparso distaccato e freddo. Ma aveva sempre in mente il grido soffocato che aveva letto nei suoi occhi. Non poteva certo esserselo sognato. Aveva un carattere difficile: orgoglioso e testardo. Ma erano proprio quelle le caratteristiche che più l’avevano aiutata.
Se l’inuyoukai non si fosse intestardito nel voler sciogliere l’arcano dei suoi occhi tristi, forse adesso lei sarebbe di nuovo nel suo mondo. Sarebbe di nuovo a casa sua. Sola. Depressa. Sconsolata. Di questo, Alessandra ne era certa. Se era riuscita a uscire dal tunnel in cui la morte dei suoi genitori e di Leone l’avevano gettata lo doveva alla mano che lui le aveva teso. Forse senza neanche rendersene conto.
“No…Sono stati mesi molto belli…”
Kagome dilatò gli occhi. Aveva capito bene? Davvero le era piaciuta la vita col demone? Non ci credeva. Non poteva crederci. La scrutava attenta, desiderosa di cogliere anche la più piccola emozione. Alessandra aveva un sorriso dolce e trasognate e lo sguardo smarrito. Sembrava rincorrere ricordi e sensazioni, smarrendosi negli arabeschi della memoria.
Sentendosi fissata, la ragazza sollevò gli occhi e si trovò il viso di Kagome a pochi centimetri dal suo. Due occhi scuri che la sondavano, curiosi. Doveva essere successo qualcosa. Qualsiasi cosa. In fondo, Homoe le aveva raccontato che Sesshomaru e Alessandra erano rientrati a palazzo più tardi rispetto a Jacken e Rin. Cosa inusuale. Un mese. I due erano rimasti da soli per un intero mese.
“Davvero Sesshomaru non ti ha fatto niente? Neanche quando siete rimasti soli per un mese?”
A quelle domande, a quelle insinuazioni dettate solo dal desiderio di assicurarsi che lei stesse davvero bene, Alessandra reagì con fierezza. Come aveva sempre reagito alle stesse amare accuse della corte. In quel momento, non pensò a nulla e parlò solo per dissipare l’ombra del sospetto. Come sempre aveva parlato. Raddrizzò le spalle e fisso la sua interlocutrice dritto negli occhi. Azzurro e marrone. Cielo e terra. Non la vedeva. Non rispondeva a Kagome. Rispondeva a voci lontane.
“Sesshomaru mi ha sempre trattata con rispetto. Non mi ha mai sfiorata con un dito”
Ha aspettato che fossi io a lasciarlo avvicinare…
Kagome si ritrasse spaventata dalla sua reazione aggressiva e balbettò delle scuse. Alessandra sembrò risvegliarsi da un sogno, come se solo in quel momento si fosse ricordata di chi avesse di fronte. Scosse la testa e chiese perdono del suo comportamento. Le raccontò quello che aveva vissuto i primi tempi che era stata a corte. Le insinuazioni pesanti e il disprezzo. Le accuse di essere un’amante. Di essere un oggetto di piacere. Null’altro.
Cosa sono per lui?...Cosa?...
“Mi dispiace…Se avessi saputo, io…”
Alessandra le strinse un braccio per tranquillizzarla. Non era successo nulla. Se ne aveva parlato, era perché lo aveva voluto. Altrimenti, lei per prima si sarebbe rifiutata di farlo. In fondo, ammise a se stessa, aveva bisogno di sfogarsi. Sesshomaru era sempre stato il suo punto di riferimento. Una sicurezza. Ma non poteva dipendere da lui per tutto.
“Però lui è stato insensibile! Prima non ti lascia cercare un modo per tornare a casa tua. Poi ti trascina qui e infine ti offende! Io, al tuo posto, gli avrei dato come minimo uno schiaffo!”
Alessandra sorrise. Aveva già schiaffeggiato il bel demone. Una sola volta e preda di collera e umiliazione. Lo aveva colpito con forza. Ma poi…dopo quello schiaffo, si erano baciati. Per la prima volta. Inconsciamente, si sfiorò le labbra. Quant’era che non sentiva il sapore di quelle di Sesshomaru? Quant’era che lui non l’abbracciava?
Troppo tempo. Anche per la rabbia e il rancore. Anche per un’umiliazione. Lei si era risentita molto e il demone era orgoglioso. Non le avrebbe mai chiesto scusa. Non subito almeno. Però, Alessandra l’aveva vista, nella notte, la lucerna accesa nelle stanze del demone. Un richiamo. Un sussurro. Forse inconsapevole, forse macerato. Ma costante. Per lei.
“Poteva evitare certe frasi. Non sa quello che hai passato, e se lo sapesse…”
“Tu cosa ne sai di quello che io ho passato?”
Calò un silenzio imbarazzato. Kagome si era accorta di essersi lasciata sfuggire una parola di troppo, ma ormai era detta. Come fare adesso? Dirle che lei già sapeva forse l’avrebbe fatta sentire spiata e compatita. E Kagome non voleva affatto che Alessandra pensasse che lei provasse pietà. Anzi, l’ammirava molto. Ma anche l’ipotesi che lei si torturasse nel tentativo di liberarsi da sola della sua angoscia, sempre se decidesse di farlo le sembrava ancora più deprimente come prospettiva. Restò con le labbra serrate, stringendo forte i denti.
“Io…me lo hanno raccontato…alla polizia…e ho i tuoi effetti personali…”
Aveva deciso. Se voleva diventare sua amica, doveva dirle tutto. Dirle che lei sapeva, che conosceva il dramma che l’aveva colpita, che le dispiaceva ma anche l’ammirava. Per la forza che aveva avuto e per come sembrava essersi rimessa. Niente menzogne. Niente bugie. Dire la verità. Magari passare per indiscreta, magari farsi odiare. Ma almeno avere la consapevolezza di non essere stata falsa.
Alessandra sospirò. Kagome sapeva. Kagome conosceva il suo passato, fatto di lutti e delusioni. Di depressione. Avrebbe potuto tacere, e approfittare della situazione per prendersi gioco di lei. per avvicinarla. Per ottenere da lei qualcosa. In fondo, nel suo modo, restava sempre la figlia di un medico d’importanza internazionale e di un generale dell’esercito del suo paese. Restava sempre la figlia di persone impostanti, l’ultima erede di una importante e ricca famiglia. Kagome questo lo doveva sapere, e avrebbe potuto approfittarne.
Invece, non lo aveva fatto. Si era lasciata sfuggire involontariamente la frase, ma poi non aveva cercato di nasconderle la verità. Era stata sincera. Diretta. Era stata pronta a rischiare e compromettere il rapporto che avrebbero potuto creare. Ma non aveva esitato.
La fissò. Tormentava il tovagliolo, appallottolandolo e stirandolo continuamente. Aspettava la sua risposta. Se l’avesse cacciata o se poteva considerarla sua amica. Si sentì stringere le mani. Erano fredde e tremavano impercettibilmente, e furono chiuse in uno scrigno caldo e rassicurante.
“Grazie…”
Alessandra le sorrise, riconoscente. Non si era arrabbiata. Non l’aveva cacciata. Anzi, l’aveva ringraziata. Kagome ne rimase sorpresa. Le aveva fatto ricordare cose tristi e spiacevoli e la ringraziava? Perché? Cosa aveva fatto di speciale. Balbettò qualche parola confusa, chiedendo spiegazioni.
“Perché sei stata sincera”
Kagome arrossì e chinò il volto, con u sorriso contento. Quella ragazza era capace di imbarazzarla come poche persone e di farla sentire una bambina. Si tranquillizzò. Adesso, erano amiche. O almeno erano cadute ambiguità e sottintesi.
Quel pomeriggio, Alessandra non studiò. Lo trascorse invece a chiacchierare e scherzare con Kagome. Come non faceva da molto. Una complicità femminile che non aveva mai provato. Nel suo mondo c’era sempre stato Leone e lì Sesshomaru. Ma più il tempo passava, più sentiva che voleva riallacciare il rapporto col demone. Non sarebbe stato semplice, perché non c’era in gioco solo una semplice scusa. Si trattava di perdonare senza essere sconfitti, senza mostrarsi troppo arrendevoli. Se lo avesse perdonato come se non le avesse fatto niente, sarebbe potuta sembrare sottomessa e totalmente dipendente da lui. E Alessandra non voleva questo.
Era disposta a vivere con lui in qualsiasi situazione, ma non si sarebbe mai adattata a essere considerata come le donne di quell’epoca. Umili e sottomesse. Insignificanti. Non lo avrebbe mai accettato. Sacrificare tutto sì, ma non sacrificare la propria dignità. Neanche a lui. Altrimenti, davvero lo avrebbe perso.
*****
Alessandra sbuffò.
Proprio non riusciva trovare quel quaderno di appunti. Eppure, non era passato molto tempo dall’ultima volta che lo aveva usato. Dannazione! Doveva trovarlo. C’erano registrati tutti i componenti che aveva usato per preparare i rimedi per lo youkai, i tempi di preparazione i giorni in cui glieli aveva proposti. C’erano riportati tutti i suoi sforzi per farlo guarire. E adesso lo aveva perso! Ma si può essere più distratti?
Aveva setacciato la sua camera. Aveva ricontrollato i libri che aveva riportato in biblioteca. Forse, era finito inavvertitamente fra le loro pagine. Niente. Svanito. Volatilizzato. Di lui non c’era traccia. Eppure, da qualche parte doveva essere finito. Si lasciò cadere sul futon, imponendosi la calma e cercando di ricordare quand’era stata l’ultima volta che lo aveva usato. Da più di una settimana non i appuntava nulla, ne era certa. Quindi, doveva averlo usato prima. Ma quando? Quando?
Se lo ricordò all’improvviso. Una sera tersa e fredda. La stanza di Sesshomaru. Gli aveva appena portato un nuovo rimedio e mentre lui lo bevevo, lei compilava qual quaderno. Poi…poi era rimasta con lui. Per tutta la notte. Koga non aveva bisogno di assistenza, e poi con lui c’era Ayame. Era rimasta a parlare con l’youkai, a scherzare. Non avevano ancora litigato. Non si erano ancora feriti a vicenda. Alla fine, si era addormentata con lui. E alla mattina, nella fretta di non essere scoperti, doveva averlo dimenticato lì.
Aprì la porta che dava sul giardino. Doveva andare a prenderlo. Anche se significava vedere Sesshomaru in quelle stanze. Anche se significava trovarsi sola con lui. Alessandra avrebbe voluto chiarire, ma non era ancora pronta. Aveva costruito mille discorsi e ne aveva demoliti altrettanti. Ogni volta, le sembrava di essere lei a uscire sconfitta. Remissiva. E non lo voleva. Accettava di aver sbagliato. Di poter averlo ferito, anche se non ne capiva il motivo. Ma non ammetteva di essere la sola a scusarsi. Perché anche lui aveva la sua parte di colpa.
Sospirò e si avviò lungo il corridoio esterno. La finestra dello studio nella torre era illuminata. Forse il bel demone era nei suoi appartamenti, ma non era una certezza. Con un po’ di fortuna avrebbe potuto recuperare il suo quaderno senza incontrarlo. Non se la sentiva, quella sera, di chiarire con lui. Di rischiare di litigare. Avrebbe rimandato. Di nuovo.
…Sto solo scappando…
Lo sapeva. Sapeva di essere una vigliacca. Una codarda in quel momento. E che avrebbe dovuto o infrangere tutto o ricominciare da capo. E si stava preparando psicologicamente a sopportare l’eventualità di un rifiuto totale. Sesshomaru avrebbe davvero potuto cacciarla. Magari non subito, ma appena conclusasi la guerra. Quando non gli sarebbe più servita. Allora, lei se ne sarebbe andata. Lo aveva già deciso. Ma forse si stava creando lei stessa paure infondate.
Respirò profondamente; ci avrebbe pensato. Per il momento, voleva solo riprendere il quaderno e farsi una bella dormita. La notte le avrebbe portato consiglio. E il giorno dopo avrebbe affrontato il Principe. Una volta per tutte.
Restò per un po’immobile sulla soglia. Con il cuore che batteva impazzito e la testa che le girava. Nonostante tutto, l’avvicinarsi a quelle stanze l’emozionava sempre. Troppo. Conservavano ricordi piacevoli, di notti trascorse a scherzare, a ridere. Di notti passate fra le sue braccia, protetta. Al sicuro. Di notti innocenti, e speciali.
“Posso?...” chiese bussando leggermente allo stipite. Fece scorrere la porta senza aspettare risposta e entrò con gli occhi bassi. Se lo avesse visto, probabilmente non avrebbe avuto la forza di andarsene di nuovo.
“Devo solo cercare il quaderno…”
Ancora silenzio. Alessandra, incuriosita, alzò la testa. La stanza era vuota. L’youkai non era ancora rientrato nei suoi appartamenti. Probabilmente, la lucerna era stata accesa da un inserviente. Come d’abitudine. Sospirò e salì le scale. Al paino superiore c’era la stanza da letto. Doveva averlo lasciato lì. Quando entrò, fu avvolta da un profumo buono. Maschile. Da un odore che conosceva bene. Muschio. L’odore di Sesshomaru.
Ignorò volutamente il futon nella penombra della luna e cercò di ricordare dove lo avesse appoggiato. La ricerca durò poco: eccolo, accuratamente riposto su un piccolo tavolino di legno di rosa laccato. Alessandra lo prese con un sorriso soddisfatto. Poteva andarsene. Sfuggire alla memoria. Almeno, ancora per una notte.
Ritornò nello studio q stava per andarsene quando la sua attenzione fu attirata da una porta socchiusa. Non sapeva che ci fosse un’altra stanza, eppure poteva dire di conoscere abbastanza bene gli appartamenti del Principe. Tentennò un attimo, ferma vicino alla porta. Non era mais tata curiosa, ma quello spiraglio era un richiamo cui sarebbe stato difficile sottrarsi. Sospirò; in fondo si trattava solo di una sbirciatina. Nulla di drammatico. Il bel demone non lo avrebbe mai saputo.
Fece scorrere la porta ed entrò
nella stanza buia. Nella lama di luce che irradiava dalla finestra, s delineava
una massa scura e lucida. Alessandra si avvicinò come affascinata e rimase
rapita ed estasiata della bellezza dell’oggetto. S una gruccia, era composta
una stupenda armatura. Uno splendido insieme di eleganza , bellezza ed efficienza, con le fettucce di seta e
broccati che univano tra loro le piastre d’acciaio e formare così un insieme
compatto e al contempo armonioso. Il kabuto, l’ho-ate, le kote, gli sune-ate, lo yoroi e i koshi-ate…ogni pezzo
era perfetto e prezioso, con sottili ed elaborate decorazioni a sbalzo, simboli
incisi; una sinfonia di ferro, cuoio acciaio e stoffa, preziosa e delicata.
Alessandra
sfiorò la corazza lucida, le stoffe fredde; si smarrì nelle ombre della
maschera, abbacinante nel suo colore opalescente. Aveva già visto le corazze
dei demoni; Sesshomaru stesso, la prima volta che lo aveva incontrato,
indossava una corazza. Ma quell’armatura era strana, diversa. Sembrava molto
antica. E da lei emanava come una forte energia. Qualcosa che la ragazza non
riusciva ad afferrare, ma di cui era cosciente.
“Apparteneva
a mio padre”
Un
sussurro lieve, malinconico. Alessandra trasalì, ritirando la mano di scatto
come se si fosse scottata. Nel rettangolo di luce della porta era comparso
Sesshomaru. E adesso la fissava, con la testa reclinata di lato, come sempre
quando voleva entrare nell’anima delle persone. Era senza vista, ma i suoi
atteggiamenti non erano mutati per nulla. E anche se vuoti i suoi occhi erano
capaci di mettere soggezione e di trasmettere emozioni forti, violente.
Alessandra
non rispose; si limitò a sviare lo sguardo, imbarazzata dal fatto di essere
stata scoperta. Se non le aveva mai mostrato quella stanza un motivo doveva
esserci. E lei, in quel moment, faceva la figura della curiosa e indiscreta.
Dopo che rimproverava lui di mancanza di tatto, a volte. Di essere troppo
diretto. Glaciale.
“…Me ne
vado subito…”
Si
avviò verso la porta, ma lui non si spostò. Rimase fermo a percepire i suoi
movimenti. Quando era rientrato, aveva sentito il suo profumo. troppo intenso per essere portato dal vento o il residuo dei
giorni passati. Lei doveva essere lì. E infatti l’ave
trovata. Nella stanza dell’armatura. Vicina alla corazza. Aveva sentito l’odore
di Alessandra confondersi con il potere emanato dal metallo. Sfiorarsi,
fondersi, annullarsi l’uno nell’altro. Aveva percepito una sensazione nuova, e
un brivido lungo la schiena. Solitamente lo youki
residuo nell’armatura allontanava chiunque fosse
umano. Invece, aveva lascito avvicinare lei.
Al
sentì avvicinarsi e fermarsi a poca distanza da sé. Era da una settimana che
non la vedeva. Che non le parlava. Eppure, nonostante si ripetesse che con lei
doveva essere in collera perché aveva scavalcato la sua autorità, perché lo
aveva offeso portando nella sua casa il suo fratellastro, non riusciva a
dissimulare interiormente una sensazione di piacere, di felicità, nel saperla
davanti a lui. Nel poter di nuovo assaporare il suo odore.
Ma lei adesso voleva
andarsene. Non c’era rabbia nella sua voce. Un po’ d’imbarazzo, e tristezza.
Come se anche a lei costasse doversi allontanare di nuovo da lui. La distanza
tra loro si era di nuovo annullata, nonostante il litigio. In quel momento la
rabbia era dimenticata, e anche le critiche erano passate in secondo piano.
Sembrava che, dopo aver assaporato il piacere di star bene insieme, non vi
potessero rinunciare nonostante i dissidi.
Sesshomaru
era cosciente del fatto che aveva esagerato. Sapeva di esser stato diretto,
tagliente, meschino. Sapeva di avere torto, perché, qualunque fosse stato il
motivo che aveva spinto Alessandra a portare a palazzo
Inuyasha, lei aveva gito in buona fede. Lui non le aveva mai parlato del
fratello, non le ave a mai detto dell’odio che provava nei suoi confronti. Lui
non aveva mai detto nulla. E la ragazza non poteva certo leggergliele nella
mente, tutte quelle cose.
Si era
sentito violato, tradito, ma in realtà Alessandra non poteva saperlo. E
comunque, lui non aveva il diritto di rispondere al dolore facendo soffrire
anche lei. aveva sbagliato a dire quella frase. A
dirle in faccia che avrebbe voluto veder morto il fratellastro. A dire quelle
parole, ben sapendo quello che lei aveva vissuto. Quello con cui aveva
combattuto.
Aveva
pensato più volte di chiederle scusa, ma era sempre stato un pensiero veloce e
subito accantonato. Lui era il Principe, un demone potentissimo, un essere
superiore…Non si sarebbe mai abbassato a chiedere perdono ad una ningen. Non
sapeva neanche come fare. Eppure, in quel momento maledì se stesso per non
riuscire a trovare le parole per esprimere tutto il suo dispiacere per quello
che le aveva fatto e la gioia che lei fosse lì.
“Posso
passare?...”
Alessandra
dondolava piano. Aveva aspettato che lui si spostasse, ma il bel demone non si
era mosso. Aveva continuato a fissarla, rincorrendo pensieri e parole che però
non si erano concretizzati in nulla. Allora, alla fine aveva parlato lei. voleva andarsene. Voleva rimandare. Anche perché,
l’espressione triste sul volto dell’youkai era una tentazione troppo grande.
Sesshomaru
sorrise debolmente. L’aveva persa. Non voleva più restare con lui. Di lui,
doveva aver paura. Una paura strana, che non ti fa tremare e non ti porta a
riverire e assecondare. Un paura diversa. Che ti
allontana. Che ti spinge a scappare, per non rischiare. Per evitare di soffrire
ancora.
Sorrise,
ma non si mosse. Era incredibile, era schiavo di quella ragazza fragile e
insignificante. Era in balia delle sue emozioni, che solo lei sapeva
provocargli. Sentiva la ragione sussurrargli di fargliela pagare. Di punirla
duramente per la libertà che si era presa. Si farle capire chi era lui. Ma
dell’altra parte l’istinto gli diceva di trovare un modo per farsi perdonare,
per farsi capire. Gli diceva di mettersi a nudo. Di raccontargli la storia di
quell’odio.
Cosa
fare? Seguire la ragione o l’istinto? Averla con la forza e perderla davvero o
azzerare il passato e ricominciare da capo? Di nuovo. Assieme. Su basi salde.
L’youkai continuava a restare fermo. Indeciso. Si riscosse all’improvviso,
accorgendosi dell’imbarazzo di Alessandra. Realizzando
che non lo stava guardano in viso. Non sapeva neanche lui come facesse ad esserne convinto, ma lo sapeva. Alessandra aveva
gli occhi bassi.
Decise.
Avrebbe seguito l’istinto. Forse l’avrebbe persa comunque, forse nulla avrebbe
più rinsaldato il loro legame incrinato, ma almeno non l’avrebbe più fatta
soffrire. Non lui.
“Perché
non mi guardi?”
Alessandra
esitò, combattuta fra il desiderio di sfiorare con lo sguardo i suoi lineamenti
puri e perfetti e la paura di perdersi di nuovo nelle sfumature d’oro dei suoi
occhi. Fra la volontà di amarlo e la paura di essere di nuovo
ferita. Si stropicciò la fronte. In quel momento, si pentì di essere
andata nella sua stanza. Di essersi attardata. Si pentì di non essersene andata
via subito. Temeva d’udire dalla sua bocca parole che non avrebbe voluto
ascoltare, ma sapeva che a quel punto non poteva rimandare oltre un chiarimento
che era necessario. Anche se in quel momento desiderò soltanto di esser lascia
in pace.
“Perché
ti comporti così?”
Alessandra
alzò la testa e in quell’istante incrociò i suoi occhi dopo un tempo che era
sembrato infinito.
“Non capisco cosa vuoi
dire” tagliò corto lei, voltandosi. Sesshomaru sorrise.
“Guardati! Non riesci
nemmeno a fissarmi. Cosa dovrebbe significare questo comportamento?”
Alessandra si strinse
nelle spalle e sbuffò. “Non so di cosa stai parlando, davvero”
“Perché
non mi guardi, allora?” insistette lui, sollevandole il viso con la mano e
costringendola ad allontanarsi e voltare di nuovo la testa. “Ti vergogni tanto
di quello che abbiamo fatto?” suggerì.
Alessandra scosse la
testa. “No…non mi vergogno. Non mi sono mai vergognata di aver dormito con te”
sospirò. “Ma è davvero difficile dimenticare quello che è successo, per me”
“Lo è per entrambi” lo
assicurò lui.
“…Perché?...Perchè ho scavalcato la tua autorità? È questo che non
riesci a dimenticare? Il fatto che io non sia disposta a ubbidire e basta?”
sussurrò la ragazza. Non avrebbe più urlato. Non ne aveva la voglia. La forza.
Forse, non voleva neanche sapere le risposte. Ma ormai il discorso era stato
avviato. Inutile rimandare ancora.
Sesshomaru
sospirò. In fondo, aveva ragione. Cosa gli era difficile sopportare? Non certo
la libertà che si era presa. A quella era abituato. Sapeva benissimo che non
l’avrebbe mai piegata. E l’aveva accettata così. Era stato quel suo lato
ribelle e al contempo delicato ad attrarlo. A sedurlo. No. Non era Alessandra
il problema. Era il passato. Quello che lei gli aveva portato di fronte, anche
se inconsapevolmente. Quell’umiliazione cui lo aveva costretto senza volerlo.
Si
allontanò dalla porta, andandosi ad appoggiare allo stipite della finestra.
Ora, lei avrebbe potuto andarsene. ma
non lo fece. Sapeva che il demone le avrebbe dato una risposta. E non la prima
cosa che gli passava per la testa. Le avrebbe detto la verità. Ne era cosciente
lui stesso. E si stava preparando a sopportare il dolore, il senso di vuoto e
di sbandano, tutte le emozioni che lo percorrevano
ogni volta che ripensava a quanto era successo.
“…Perché
non posso dimenticare l’errore di mio padre…Il fatto che è morto per salvare un
bastardo…Non posso dimenticar la morte ingloriosa che ha avuto…Cui lo hanno
trascinato Inuyasha e quella dannata femmina…Io avrei potuto fermarlo, e non
l’ho fatto…L’ho lasciato andare…”
Sesshomaru
si passò una mano sugli occhi, nascondendo il volto. Troppo dolore. Troppo.
Ricordare. Risentire il senso di colpa, la rabbia, la frustrazione. Riprovare il
sentimento di delusione. Di incapacità. Si era sentito un fallito. Inutile.
Inadeguato.
Suo
padre aveva preferito a lui un fratello mezzo-sangue. Aveva preferito a lui il
frutto di uno sbaglio, di una relazione clandestina. Aveva preferito morire per
una ningen e un hanyou, piuttosto che vivere con lui. Con il suo primogenito.
Si appoggiò
stancamente allo stipite, mentre raccontava quello che aveva vissuto, quello
che era successo. Mentre si svelava, mostrando una fragilità e una debolezza
che aveva sempre mantenute sepolte nel suo io. che
aveva sempre rifiutato. Se non fosse stato un demone, abituato da secoli a
controllare le sue emozioni, probabilmente avrebbe anche pianto. Si sarebbe
sfogato. Del tutto. Invece, i suoi occhi rimasero asciutti. Ma la voce si
spezzò più e più volte. Usciva roca e gutturale dalla bocca, strascicata e
dolorante. Come se le parole fossero strappate al suo cuore con forza. Con
violenza.
Quando
finì, rimase in silenzio. Intento a fermare il respiro che era accelerato,
concentrato a cercare di domare il battito folle del cuore. Non provava
vergogna di quello che si era mostrato. Era solo avvolto dal dolore. Tanto
forte, tanto soffocante che gli sembrava togliergli il respiro.
…Io…volevo solo che…mio padre…fosse fiero di
me…che mi volesse…bene…
Sentì delle
braccia avvolgerlo, delicate. E la testa di Alessandra sulla sua schiena.
Percepì il conforto che la ragazza voleva dargli. Non con le parole, ma con la
sua presenza. Rispettava il suo silenzio, il suo dolore, accarezzando la sua
anima come accarezzava piano le sue spalle. Un tocco che non voleva sedurre,
ammaliare. Un tocco che voleva confortare, consolare.
“Mi
dispiace…io…”
Sesshomaru
sentì l’odore del sale delle sue lacrime. Lui l’aveva offesa, lui l’aveva
trattata come un oggetto, lui l’aveva umiliata. Lui. Lui avrebbe dovuto
chiedere scusa. Lui solo. E invece…invece Alessandra era lì, e piangeva contro
di lui chiedendogli di perdonarla di scusarla per averlo fatto soffrire. Le
dispiaceva. Era sincera. Non lo stava compatendo. Le dispiaceva dal profondo
del cuore.
Continuava
a ripeterlo all’infinito, con il viso premuto contro la sua schiena. Come se
fosse successo per causa sua. Come se di quello che aveva sofferto lui
Alessandra avesse una qualche colpa. Si sentiva una stupida. Aveva pensato che
fosse sempre stato il suo orgoglio a parlare. Che il suo atteggiamento, il suo
rifiuto del fratello fosse imputabile solo alla sua
educazione. Ottusa e autoritaria. Non aveva mai pensato che quella sua reazione
potesse nascondere qualcos’altro. Qualcosa di più profondo. Di devastante.
“Non
piangere…Non è colpa tua…non potevi sapere…”
Si era
voltato e l’aveva abbracciata, lasciandola sfogare. La sincerità era una cosa
bellissima. Lui avrebbe potuto tenersi tutto dentro, nascondere il suo dolore e
continuare la sua maschera di menefreghismo e sicurezza. Alessandra non avrebbe
mai sospettato nulla. Invece, aveva scelto di parlare, di mostrarsi per quello
che era veramente. E adesso, riusciva a sentire il conforto che gli veniva
dalla vicinanza della ragazza. Sentiva le sue lacrime bagnargli il kimono, ma
non ne provò rabbia, ribrezzo o repulsione. Erano per lui, quelle lacrime. Lei
le stava versando per lui. Per lui. Per chi l’aveva offesa. Umiliata.
Quel
pianto non fece altro che acuire il suo senso di colpa. Era lui a dover
chiedere scusa. Era lui ad aver parlato per ferire. Con il preciso intento di
far del male. Senza preoccuparsi delle conseguenze, senza pensare alle
conseguenze. Aveva detto che avrebbe voluto morto il fratello, ignorando
volutamente la reazione della ragazza a quelle parole. Ignorando la
consapevolezza dello strazio che avrebbero creato. E adesso, invece di
scusarsi, di chinare la testa come non aveva mai fatto e di chiedere perdono,
si sentiva consolare. Strinse di più a sé la ragazza. Davvero non riusciva a
capire i ningen. Avrebbe dovuto godere di quello che gli aveva raccontato,
avrebbe dovuto odiarlo, ridere di lui perché gli si era mostrato debole, avrebbe dovuto andarsene soddisfatto di averlo visto in
quello stato. E invece era lì, fra le sue braccia, con la testa sul suo petto…Aveva
sentito il suo cuore accelerare quando lei lo aveva
abbracciato. Aveva… Si era sentito bene. si era
sentito accettato e non compatito. Le aveva parlato apertamente, come non aveva
mai fatto con nessuno. Aveva temuto il suo disprezzo, ma lo aveva fatto
comunque. E ne aveva ricevuto quel contatto disperato e avvolgente.
Alessandra
si lasciava cullare dal ritmico alzarsi e abbassarsi del petto del ragazzo nel
respiro, mentre sentiva il battito del suo cuore tornare ad un ritmo regolare.
Come quello di Sesshomaru. quel suono…quel pulsare
accelerato…Aveva dormito spesso sul suo petto, era stata spesso abbracciata a
lui, eppure…eppure non aveva mai notato il battito di quel cuore…Quasi come se
non fosse mai esistito…Come se fino a quel momento si fosse sempre vergognato
di mostrare la sua presenza. In quel momento, invece, era lì, a ricordare
timidamente la sua esistenza. A ricordare che anche il demone poteva sentire
quel muscolo cambiare nel suo ritmo vitale.
Avrebbe
voluto dimenticare. Cancellare tutto e fingere che non fosse mai successo
niente. Avrebbe voluto ricominciare. E sapeva di non poterlo fare. Non ancora
almeno. Sapeva di aver sbagliato, ad abbracciarlo. Di star sbagliano nel
chiedergli scusa. Perché stava mostrando un’arrendevolezza che si poteva
scambiare per remissività. Ma lei non voleva mostrarsi remissiva. Se fosse
stata ancora con lui lo avrebbe fatto perché lo voleva, non perché ne aveva
paura. Di lui, del demone che aveva visto uccidere davanti ai suoi occhi,
Alessandra non aveva mai avuto paura.
Sospirò,
allontanandosi un po’ dal suo petto. Un errore…Sesshomaru aveva usato quella
parola…errore…Ave definito la relazione fra suo padre e la madre di Inuyasha un
errore…la relazione fra un youkai e una ningen…Una relazione come la loro…
…Voglio sapere…
Si
allontanò ancora da lui, sciogliendo il suo abbraccio. Sesshomaru seguì
interdetto il suo movimento. La sentì scivolare lontano dal suo braccio,
staccarsi da lui con dolcezza, ma anche con fermezza. Cosa era successo? Perché
quel silenzio teso, all’improvviso? Perché quella sensazione di pericolo? Un sensazione uguale a quella su un campo di battaglia, ma,
per istinto, foriera di una minaccia più grande.
Di
tanto in tanto, la sentiva schioccare la lingua, apriva la bocca per parlare ma non le usciva la voce. Rimaneva ferma a
boccheggiare, con mille smorfie e la fronte corrugata, rilassata e ancora
aggrottata. Alessandra era alla disperata ricerca del coraggio necessario a
porgli quella domanda. Per sapere, finalmente, cosa davvero provasse. Cosa si
dovesse aspettare. E al contempo aveva paura a porla, quella dannata domanda.
Poche parole, che avrebbe potuto restituirle la sicurezza della felicità o
togliergliela completamente. Era cambiata. In quei mesi, era cambiata molto.
Era diversa. Ma era mutata a tal punto da non voler più nemmeno ascoltare?
Alessandra
si affacciò alla finestra. Erano l’uno accanto all’altra. Sentiva il suo
profumo pervadere ogni anfratto della stanza. Sentiva la sua presenza,
rassicurante, salda. Sentiva le sue domande. E tutto quello che il demone le
aveva fato provare esploderle dentro con una forza devastate.
… Nello
spazio d’un respiro mi hai fatto provato rabbia e vergogna…mi hai trattata come
l’ultima delle tue serve…come un oggetto… Ma hai anche
saputo far battere il mio cuore disilluso….Un battito doloro e bello e quell’agitazione che mi ha assalito, emozioni che
non provavo da troppo tempo… Accanto a te mi sento viva, emozionata
nell’incrociare quel tuo sguardo che mi suscita scariche di brividi che mi
pungono la pelle, sotto la pelle, che mi attraversano il corpo e mi scuotono.
Ma non posso dimenticare questa settimana… le notti insonni e il cuscino
fradicio di lacrime…La paura per la tua sorte quando ti ostini a uscire sul
campo…Non posso cancellare le voci che ho sentito…le domande che mi salgono
alle labbra…Io…cosa sono io?...Cos’è il nostro
rapporto?...Un errore? È anche un errore come hai definito quello di tuo padre?...
Il silenzio prolungato della ragazza agitò Sesshomaru. percepiva che c’era qualcosa di strano in lei. Come se si stesse preparando ad affrontare un nemico a vincere una battaglia. O forse, più semplicemente, stava aspettando le sue scuse. Sorrise fra sé e sé. Non aveva mai chiesto scusa a nessuno, ma per lei era pronto a farlo. Anche a mettersi in ginocchio e invocare il suo perdono. Era pronto a distruggere la sua immagine di fiero e spietato Principe dei demoni. Per lei. purchè fra loro tutto tornasse come prima. Purchè potesse di nuovo abbracciala, baciarla…
Per cosa
sono pronto a chiedere perdono?...Perchè voglio i suoi
baci, il suo corpo?...
Scosse la testa, disgustato. Quelli avrebbe potuto averli da una demone qualsiasi del palazzo. No. Non cercava Alessandra per il suo corpo. La cercava per la sua anima. Per quello che provava ogni volta che erano assieme. Per quel battito discreto del suo cuore, che avvertiva ogni volta che la ragazza gi era accanto e la pensava. Per quel suono ritmico che gli ricordava la sua esistenza. Che gli rammentava che anche lui era capace di provare sentimenti. Si passò una mano sul petto. Poteva sentirlo anche in quel momento. Il suo cuore. Batteva. Agitato. Trepido. Per lei.
“Cosa sono per te?...”
Sesshomaru percepì quella domanda appena sussurrata con estrema chiarezza. E gli esplose nella mente dolorosa e devastante. Era la stessa che lui si ripeteva da sempre. Quella che aveva sentito, ovattata fra la rabbia e il sangue che gli pulsava nelle tempie, la sera in cui avevano litigato. Era la domanda cui non voleva dare risposta definita. Perché la conosceva e non riusciva a capacitarsi di quello che avrebbe voluto…potuto…dire.
Il silenzio prolungato del demone fece sorridere
mestamente Alessandra. Non voleva dirle, cos’era. Non voleva perdere il suo
prezioso oggetto. Un qualcosa di importante, ma
indefinito, discreto…Un qualcosa di non ingombrante. I
suoi sospetti si fecero spessi e pesanti, difficili da accettare. Aveva chiesto
a Sesshomaru di rivelarle qualcosa che non era certa di voler sentire, qualcosa
che aveva sospettato fin dall’inizio.
“Sono un errore, vero?...Il nostro rapporto…è tutto…un errore…”
Alessandra incrociò le braccia sul petto. Si stava abbracciando, nell’inconscio tentativo di proteggersi, di proteggere il suo cuore dal dolore delle parole che si aspettava di sentire da un momento all’altro. Pregò perché quella tortura finisse al più presto. Perché lui le dicesse la verità, e poi la lasciasse andare. Voleva solo andare via da lui. Sfuggire al suo fascino, ai suoi modi autoritari e infinitamente dolci, al suo sguardo…Voleva fuggire dall’oro opaco di quelle iridi.
“Sì”. Voce fredda. Distante. La voce del demone. La voce della realtà. “Sì…è tutto un errore…”
Alessandra affondò le mani nelle spalle; artigliò la stoffa del kimono, cercando di ferirsi lei stessa, per soffocare nel dolore fisico quello che sentiva lancinante devastarle l’anima. Chiuse gli occhi e strinse forte i denti. Cercava di domare il respiro, il magone in gola e le lacrime che avrebbe voluto scorrere. Abbondanti. Di disillusione. Perché era doloroso ripensare a quanto provato e sofferto e paragonarlo alla leggerezza con cui lui doveva aver vissuto le medesime situazioni.
Lo sentì avvicinarsi e fermarsi dietro di lei. la testa piegata verso il suo viso, a sfiorare il suo orecchio. Il suo respiro caldo sul collo. I capelli d’argento a solleticarle la pelle. Stava per darle il benservito. Non si ribellò quando sentì la mano del demone cingerle la vita. Non si mosse. Non reagì. Non provò nulla. Né disgusto né emozioni. Orami, si sentiva completamene svuotata. Un involucro inutile su cui sarebbe stato facile infierire. Lei non si sarebbe ribellata. Non aveva senso ribellarsi.
…Perché
ribellarmi?...
“…Un errore che ripeterei ancora…”
Sesshomaru mormorò quelle parole con una voce suadente, roca. La voce di chi ammette qualcosa stupendosene lui stesso. Un tono impastato di emozioni, che sfumavano in inflessioni quasi impercettibili, ma estremamente seducenti.
Non stava mentendo. Avrebbe potuto farlo. Avrebbe potuto illuderla o averla con la forza. E invece, ammetteva di non essere pentito di averla accanto. Sottolineava che fosse un errore, ma si diceva pronto a compierlo ancora. Affermava e negava al contempo un sentimento che ormai no poteva più ignorare. Gli era sbocciato dentro lentamente, riportandogli alla mente il ricordo di un cuore capace di pulsare anche per qualcosa che non fosse la rabbia o l’odio.
Alessandra si voltò a fissarlo. Studiò le ombre sul suo volto. I riflessi d’argento che l’ultima falce gli donava. Analizzò quel viso perfetto che sembrava esser stato scolpito nel marmo per la sua freddezza, ma che in quel momento era profondamente umano. C’era un velo di trepidazione in quei lineamenti puri. Un imbarazzo diffuso, un’angoscia intrappolata in fondo agli occhi spenti. Teneva lo sguardo leggermente basso, con la testa appena reclinata di lato, lasciando che alcuni ciuffi di capelli gli ricadessero sul viso.
Alessandra lo sfiorò prima con esitazione. Quasi temendo che si potesse frantumare sotto le sue mani. Temeva che fosse tutto un sogno. Un’illusione della sua mente. Gli scostò i capelli e iniziò a disegnare con la punta del dito i suoi lineamenti. Sembrava volersi convincere della realtà di quello che stava vivendo.
Sesshomaru socchiuse gli occhi. Non lo aveva mai accarezzato così. Era un tocco innocente, curioso. Eppure lo sentiva bruciare. Lo percepiva inebriante. Ammaliatore. Seducente. Eppure, sapeva benissimo che la ragazza davanti a lui stava facendo tutto fuorché provare a sedurlo.
“…Cosa sono?...”
Si era fermata vicino alle sue labbra. Pallide e sottili. Invitanti. Poteva capire la sua confusione. Poteva capire che per lui fosse un’ammissione importante l’ammettere di esser capace di ripetere quello che definiva un errore, anche se nella sua voce non cera astio, rifiuto o repulsione. Alessandra credeva di capire che il bel demone usasse quella parola per comodità. Per non doverne impiegare un’altra che sembrava spaventarlo. Una parola di cui gli aveva detto non conoscere il significato.
“…Sei la cosa più importante che abbi mai avuto…”
Sesshomaru poggiò la sua fronte a quella della ragazza. Un rossore lievissimo gli colorò le guance e lo sorprese. Imbarazzo…Lui provava imbarazzo…nel dire quelle parole…nell’ammettere di avere qualcosa di importante. Non avrebbe usato una parola di cui ancora non conosceva l’esatto valore. Forse non l’avrebbe mai usata. Ma in quel momento promise a se stesso di riuscire a far capire alla ragazza quello che sentiva senza possibilità di equivoci.
“…Scusami…per quello che ho detto…e per come ti ho trattata…”
Le aveva chiesto scusa. Lui. Il demone dallo sguardo di ghiaccio; il Principe dell’Ovest. Lui. Sesshomaru. Aveva chinato il capo. E le aveva chiesto perdono. Per tutto. Per averla fatta soffrire. Per non averla voluta capire. Aveva dimenticato il suo orgoglio, la sua strafottenza. Eppure, non si sentì umiliato come credeva. Al contrario, si sentì soddisfatto, quasi realizzato.
Alessandra gli passò le mani attorno al collo elegante. Lo fissò negli occhi e sorrise. Anche se in modo inusuale, si era dichiarato. Non le aveva detto di amarla e lei ormai aveva capito che forse non avrebbe mai sentito sulle sua labbra quella parola. Ma non le importava. Le voleva bene per quello che era. Non gli importava che fosse una ningen. Che quel rapporto fosse un errore per la società in cui lui viveva. Per quello che gli era stato insegnato.
Non importava. Alessandra aveva visto il rossore leggero che gli aveva imporporato il viso. Un colore soffuso e dolcissimo. Non avrebbe mai pensato che quel ragazzo sarebbe stato capace di arrossire. Di mostrare imbarazzo tanto spudoratamente. Ma, in fondo, non significava altro che a lei ci teneva. Davvero. Che in quell’essere importante lui racchiudeva tutta una gamma di sentimenti e emozioni che non riusciva a esprimere altrimenti. In fondo, cosa importava che parola usasse? Le parole sono solo suoni convenzionali.
Quello che importava era il sentimento che si voleva trasmettere. Quello che lui voleva trasmettere. Le parole sono solo una sequenza si sillabe. Nulla di più. Non importava che non le avrebbe mai detto che l’amava. Le importava solo esser sicura che era quello il sentimento che li univa. Che era quello ciò che il demone cercava di farle capire di provare.
Intensificò la sterra sulle sua spalle, mentre sollevava la testa verso di lui, chiudendo gli occhi. Cercava le sue labbra, cercava quel sapore di fresco e di pino. Cercava un bacio per suggellare la fine di tutto e l’inizio. Sesshomaru le sfiorò le labbra dapprima con esitazione, tremando leggermente. Timoroso di esser respinto. Ma poi la travolse in un bacio in cui l’ingenuità e la passione si fondevano. Si abbandonò fra le sua braccia, si appoggiò completamente a lui. Non voleva lasciarlo. Non lo avrebbe lasciato.
…Amami…Non
m’importa se non me lo dirai mai…Amami come solo tu sai fare…Con la tua
freddezza e la tua insospettabile dolcezza…Amami per quello che sono…