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Autore: Klavdiya Erzsebet    04/08/2012    1 recensioni
Parte della serie Until Death Do Us Part
(Tornano Greg e Sophia Lestrade protagonisti. È dichiaratamente romantico, anche se l’amore non è il genere principale. E pensare che non credevo di essere capace di trattarlo anche solo minimamente.)
Una strana malattia colpisce Sophia Lestrade, e un caso particolarmente inspiegabile approda nell’ufficio di Greg. Due misteri, collegamenti inaspettati, una corsa contro il tempo e una modesta ipotesi di come l’amore per la vita abbia potuto portare alla morte: tutto è contorto. Talvolta è difficile determinare l’impossibile.
{Attenzione: fanfiction Greg–centrica a livelli vergognosi}
Genere: Mistero, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Lestrade , Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Until Death Do Us Part'
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Cap.VI

Presentimenti

 

Greg uscì nel corridoio e si incamminò lentamente verso la macchina del caffè, infilandoci dentro una monetina; rimase ad aspettare e sbadigliò fino a farsi lacrimare gli occhi, portandosi la mano alla bocca solo qualche secondo dopo che l’ebbe chiusa.

“Va meglio?” gli chiese una voce femminile e ansiosa alla sua destra. Sally si era fermata in mezzo al corridoio a guardarlo e accanto a lei c’era Anderson che lo fissava con quel suo sguardo eternamente insoddisfatto, schifato.

“Sì” farfugliò Greg portandosi il bicchiere alle labbra. Bevve l’orribile caffè della macchinetta cercando di assaporarlo il meno possibile. “John sostiene che Sherlock sia sulla buona strada. Mi ha detto che è da venerdì che sta esaminando inserzioni sui giornali per cercare chi ha commissionato l’attentato”.
Il sergente Donovan sospirò e l’eterna infelicità di Anderson, se possibile, peggiorò. “Torna a casa, sei distrutto” lo ammonì Sally. Greg annuì.

Accartocciò il bicchiere di plastica e lo gettò in un contenitore ormai staripante. Non cercò di contare tutti i caffè che aveva bevuto solo quel giorno.
Tornò all’ufficio e con le mani cercò di fare delle carte un’unica pila ordinata, mentre cercava con gli occhi il familiare rigonfiamento del pacchetto di sigarette nella tasca della giacca. Le prese in mano e se ne accese una, con un tremore isterico nelle mani che sembravano avere fretta di aspirarne il fumo.
Uscendo da Scotland Yard trovò sepolte nelle proprie tasche le chiavi della Volvo e l’accese sentendo il motore che esitava. Si sforzò di non farci caso.

Era già buio, nonostante fossero le sei di sera, e il traffico gli fece cedere le ginocchia; accese la radio, sbagliando tasto. Partì uno dei cd preferiti di Sophia e fu tentato di spegnere, almeno finchè non si rese conto che era terribilmente rilassante.
In coda tentò di concentrarsi sulla profonda voce maschile che cantava. Era una canzone deprimente, alla fine, lo si capiva dal ritmo e dalle parole; ma preferì non soffermarcisi ed ascoltarla solo passivamente, per impedirle di penetrare la sua pelle, esercitare tutta la sua devastante tristezza. Era solo una bella musica e doveva rimanere tale.

Quando si rese conto di essere arrivato si stupì della brevità del viaggio. Valutò di estrarre direttamente la chiave ma guardando il display che indicava il titolo della canzone gli sembrò che la muta sagoma di Sophia lo stesse in qualche modo minacciando. Premette il tasto della radio, e solo dopo spense tutto. Scese dall’auto in silenzio e fu quasi urtato da una figura che usciva correndo dal palazzo.

Non ebbe voglia di fermarsi ad aspettare l’ascensore; non aveva voglia di fermarsi, in generale, perché ciò avrebbe solo significato pensare e immergersi nella tristezza morbosa della sua mente. Quelli di stanchezza e di noia erano forse i momenti peggiori e i più pericolosi delle sue giornate: le lunghe attese silenziose davanti a un telefono, un laboratorio, un binario ferroviario o più semplicemente tra le coperte e al buio, senza il coraggio di muoversi per paura di fare rumore o di svegliare Sophia. Atroce lucidità e monotonia di qualcosa che pensava ogni volta e a cui ormai aveva fatto l’orribile abitudine, come gli amanti di sua moglie, il suo lavoro, la sua insoddisfazione. Prima di addormentarsi era un momento della giornata in cui i nodi venivano al pettine e aveva imparato, col tempo, che quei nodi erano solo nella sua testa.

Greg salì le scale in fretta tenendosi al corrimano fino al secondo piano. Prese le chiavi e realizzando di non avere molta voglia di farlo entrò.
Salotto illuminato, questa volta. Udì un colpo di tosse di Sophia. “Benvenuto” lo salutò sua moglie con una voce leggermente roca. Greg non rispose.
“Ciao” le disse alla fine. Fece per sfilarsi la giacca mentre lei gli si avvicinava per baciarlo e d’improvviso sentì l’odore penetrante di un profumo da uomo con molte probabilità costoso, e non suo; una sbavatura nel rossetto che Sophia non avrebbe avuto motivo di indossare, e un velo di trucco sui suoi occhi verdi. Si irrigidì ed ebbe l’istinto di ritrarsi quando le labbra crudeli di lei baciarono le sue, dolci come una carezza, sferzandolo con quell’odore.

Greg alzò gli occhi e la presenza di Alec Martin era dappertutto – negli appendini storti e disordinati, nel letto appena rifatto. Rivide la sagoma che pareva scappare dal palazzo, e che lo aveva urtato mentre si avvicinava all’entrata; lo aveva mandato via quando era quasi troppo tardi.
“Io...devo andare” le disse. “Ti volevo avvertire...mi ha appena chiamato Sally, c’è una novità sul caso di Shaw...”

Si allacciò meglio la giacca e tornò alla porta mentre gli occhi di Sophia diventavano perplessi, al di sopra del correttore per occhiaie. Greg uscì in fretta e valutò di scendere le scale. Poi si accorse che le gambe gli tremavano.

Chiamò l’ascensore e prese il telefono, premendo la cornetta verde quando sulla rubrica comparve il nome di Sherlock.
“Pronto, Lestrade?” rispose il detective dopo qualche istante.
“Volevo sapere se c’erano novità sul caso, oggi non siamo andati granché avanti...hai trovato qualcosa in quelle inserzioni?”
Sherlock tacque. No che non ti interessa il caso, diceva la sua voce dall’altra parte della conversazione. “Non ho ancora trovato un annuncio plausibile” rispose però miracolosamente. “Sto cercando anche su tutte le riviste che Chris Lawrence leggeva”.
“Bene. Ottimo”.
“Sto giusto per andare a fare un esperimento per la bomba...”
“In che senso?” domandò Greg allarmato.
“...se ti interessa puoi venire, ti passiamo a prendere”.

L’ispettore aggrottò le sopracciglia. Poi sgranò gli occhi. A Sherlock Holmes non sfuggiva niente. “Okay. Sono a casa mia - lo sai dove abito, vero?”
Sherlock non rispose e mise giù. Greg uscì dal palazzo e si avvicinò alla Volvo, cominciando a tracciare piccoli disegni arzigogolati sul finestrino appannato.
Forse fu così che John lo trovò, quando scese dal taxi con l’evidente intenzione di suonare il citofono. Greg si accorse del suo sguardo fisso, e subito dopo anche del proprio tremore e della condensa ormai quasi sparita dal finestrino che ormai sembrava un quadro di arte moderna.

Nel taxi John si schiacciò al centro, con la testa di Sherlock che sovrastava abbondantemente la sua. Da sopra i capelli chiari del dottore, due occhi chiarissimi e taglienti squadravano Greg con il loro particolarissimo misto di malizia, curiosità e pacata superiorità. “Fa freddo” disse il consulente investigativo con nonchalanche. Greg ci mise qualche istante a tradurre.

Stavi aspettando fuori con due gradi quando è chiarissimo che ce l’hai, una casa. “Già. Dicono che nevicherà presto”.
Sherlock sussurrò qualcosa al tassista che parve stupito. Presto cominciò a inoltrarsi in strade che al buio Greg non riconobbe. “Dove stiamo andando?” chiese senza giri di parole. Non era in vena di buffonate ma come al solito Sherlock non si diede la pena di rispondere.
“Non lo so” ammise John al suo posto. “Ha passato tutta la notte a costruire qualcosa di strano e potenzialmente pericoloso in cucina”.
“Che cos’hai costruito?” domandò Greg, direttamente a Sherlock. Nessuna risposta. “Hai scoperto qualcosa?”
“Non è possibile che si sia sbagliato a costruirla: le sue conoscenze erano ottime e sicuramente era sua intenzione uccidere i ragazzi. Non cercava testimoni per il proprio suicidio”.

Il detective ispettore rimase perplesso da quella risposta: un’idea che mai lo aveva sfiorato, una nuova pista. Poi si rese conto di quanto quella frase potesse trasformarsi in un’arma a doppio taglio. “Non mi pare che tu abbia mai accennato al fatto che Chris Lawrence possa aver cercato testimoni per il proprio suicidio” gli fece notare senza riuscire a reprimere un sorriso. Sherlock rispose con un piccolo gesto della mano e uno sguardo profondamente irritato. Greg si abbandonò contro il sedile e chiuse gli occhi.

Quando li riaprì Sherlock gli tendeva una mano che lui con qualche esitazione afferrò, sentendosi trascinare quasi a forza fuori dal taxi; allungò una piccola mancia al guidatore e si sentì trasportare fino a oltre i bordi della strada deserta su cui erano finiti. John gli zoppicò dietro con qualche difficoltà.
Erano chiaramente in quello che una volta era stato un campo coltivato: un piccolo pezzo di un terreno sterminato, pieno di erbacce incolte. Sicuramente abbandonato. Greg si guardò in giro strizzando gli occhi stanchi, ma non vide alcuna abitazione a parte una stalla decadente e silenziosa.

“Che cos’è questo posto?”
“Oh, è un campo di un contadino a cui ho fatto un favore qualche anno fa per un brutto affare sul bestiame”.
Sherlock prese la borsa e ne sfilò qualcosa di scuro che Lestrade non fece in tempo a distinguere; lo gettò lontano, in mezzo alle erbacce, con le braccia sottili che a quanto pare nascondevano una forza inusuale.

Greg d’improvviso sentì un botto assordante; eppure la sua attenzione fu attratta solo e soltanto dalla luce, dal caos che si scatenò in mezzo al campo. Ebbe l’istinto di alzare il braccio per proteggersi gli occhi, ed ebbe una prova dell’effettiva entità dell’esplosione quando la manica della giacca arrivò ad accarezzargli le palpebre.

L’aria li oltrepassò mentre John si era chinato, e nei suoi occhi c’era come una paura vagamente esagerata che Greg impiegò qualche istante a capire. “E quindi qual era l’esperimento?” disse a voce fin troppo alta, seccato.

Sherlock se ne stava di profilo accanto a lui, a fissare la terra nuda dove l’ordigno era esploso; nemmeno aveva chiuso gli occhi e le sue labbra erano leggermente incurvate in un piccolo sorriso. “La signora Hudson mi ha categoricamente vietato di buttarlo in pattumiera”
John chiuse gli occhi, ancora con le mani sulle ginocchia. Greg provò lo stesso impulso.

Non capì con esattezza chi avesse cominciato a ridere; solamente si unì agli altri. Rise e spostò lo sguardo incredulo dal campo devastato al detective; rise e si sentì mancare, andando più velocemente che potè ad appoggiarsi a John.

Era notte fonda ormai. Che ore erano? Sherlock posò la mano ossuta sulla spalla del dottore, in una stretta delicata ed elegante. Greg dubitò fosse facile liberarsi dalle sue mani.
E il consulente investigativo rideva. Rideva. Senza sfottere, senza dimostrare di avere ragione, semplicemente rideva. Umano più che in ogni altro momento. Non trovò un perché a ciò, né si sforzò di cercarlo.

Evidentemente le sue dita dovevano essere più strette di quanto non apparisse. Guidò John verso la strada, ancora ridendo sommessamente; Lestrade li seguì. Accostato, accanto al campo, c’era un grosso camion bianco e rosso, vecchio e malandato. Circo dei fratelli Levy, c’era scritto sulla fiancata. Greg chiuse due volte gli occhi per esserne sicuro; alla terza si accorse che un omone grande e grosso li fissava dal sedile del guidatore, e si era appena allungato per aprire la portiera del passeggero.

“Grazie, Rob”. Sherlock ci si arrampicò senza il minimo sforzo; il camionista scese, invece, aggirando il muso del mezzo per raggiungere Greg e John e fargli segno di seguirlo. Camminava lentamente ed era appesantito da una ventina di chili di di grasso; il viso gioviale e rosso era contornato da basette e doppio mento, ed era totalmente bagnato dal sudore nonostante la temperatura: dai capelli neri e lucidi colavano orribili gocce che gli scendevano fino alla maglia a mezze maniche. Con la mano grassoccia, Rob mosse abilmente la maniglia ed aprì l’enorme cassa che doveva contenere il carico.

Era tutto vuoto, dentro, escludendo qualche attrezzo metallico che spuntava sinistro dall’oscurità. Greg salì per primo e faticosamente; per terra accanto a lui c’era un affare allungato e metallico che Rob lo invitò a prendere.

“Il vostro amico mi ha salvato da una condanna per omicidio” disse l’omone, aiutando John a salire; presto il detective ispettore lo sentì avvicinarsi a lui col suo passo leggermente asimmetrico. Tastò con le mani l’aggeggio trovato a terra finchè non trovò quello che sembrava un interruttore: muovendolo, un fascio di luce fuoriuscì dalla torcia.

Greg lanciò un’occhiata in giro, e non ebbe più dubbi di stare sognando.
Un piccolo cavallo bianco come quelli delle giostre, di ottima fattura, incastrato tra attrezzi di scena di ferro in una grottesca posa di battaglia, in un tentativo di libertà: le piccole zampe con gli zoccoli azzurri tese al soffitto o forse al cielo, il muso all’insù, orgoglioso. Il corpo era intrappolato tra ogni sorta di cianfrusaglie.

Lestrade si accasciò, quindi. Cadde con le ginocchia al petto contro al muro e accanto al cavallo; lasciò andare la testa all’indietro, fece cadere la torcia che rotolò e poi si spense. John posò la schiena contro la sottile parete che li separava da Sherlock e dal guidatore, ed entrambi chiusero gli occhi.

  
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