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Autore: Eirien    05/08/2012    5 recensioni
La notte degli inganni ha avuto ufficialmente tre vittime: il Gran Sacerdote Shion, Aioros di Sagitter, la sanità mentale di Saga di Gemini.
Questo, perché non tutti sanno che due giorni dopo Mitsumasa Kido è andato in cerca di un Cavaliere d'Oro. E che si può vivere due volte lo stesso destino, anche se una volta sarebbe già troppo.
Genere: Azione, Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Aquarius Camus, Chameleon June, Nuovo Personaggio, Phoenix Ikki, Un po' tutti
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Track #10:Time Of Your Life TRACK # 10

TIME OF YOUR LIFE

Another turning point;
a fork stuck in the road.
Time grabs you by the wrist;
directs you where to go.
So make the best of this test
and don't ask why.
It's not a question
but a lesson learned in time [...]
So take the photographs
and still frames in your mind.
Hang it on a shelf
In good health and good time.
Tattoos of memories
and dead skin on trial.
For what it's worth,
it was worth all the while...

(Green Day)




"Non è possibile…" Camus aprì gli occhi come se fosse la cosa più faticosa del mondo. Il minuscolo soggiorno si stava colorando appena, di quella luce tiepida e rosata che precede l’alba. Si chiese se parte non provenisse dal sorriso della ragazza bionda che l'aveva svegliato con un tocco leggero sulla spalla. Si era addormentato in una scomoda posizione tra il seduto e lo sdraiato. Provò a muoversi, le sue ossa protestavano tutte a gran voce e un mugolio indistinto proveniva dal peso che ora avvertiva sul petto. Abbassò lo sguardo. E quando riuscì a mettere a fuoco chi gli stava dormendo addosso il suo colorito divenne scarlatto.

Christine stava ridacchiando discretamente. — Non so perché, ma quasi me l'aspettavo. Chi è crollato per primo? — "Tu di certo. Altrimenti ti saresti volatilizzato prima che qualcuno potesse avvistarti." Gli strizzò un occhio. — Cerca di alzarti senza svegliarla. Il caffè è pronto— bisbigliò.

Pareva piuttosto divertita dal suo imbarazzo. A lui ricordò distintamente sua sorella al Tempio dell'Acquario. "Almeno questa volta sono vestito…" Scosse la testa, ancora frastornato. In un soprassalto di lucidità si ricordò delle buone maniere — Uhmm... grazie, Christine… —
Lei si voltò a metà, un sorriso di sbieco. — Vieni a far colazione… hai l'aria di chi non dorme da settimane. —

Camus si sollevò lentamente fino a mettersi del tutto seduto, reggendo contro la spalla la testa arruffata di Kelly. "Sei bella, ragazzina…" La sentì mormorare qualcosa, senza svegliarsi. Provò un istintivo e ridicolo fastidio, al solo pensiero dell'uomo che prima o poi avrebbe diviso le notti con lei. Che si sarebbe svegliato con i suoi capelli sul viso. Strinse i denti. "Forse qualcuno l'ha già fatto." Qualcuno che lei chiamava 'amore’ e che le portava il caffè a letto. Magari lo stesso insulso ragazzetto che l'abbracciava in quella fotografia… Qualcuno cui non doveva dedicare un solo pensiero, in effetti. "Non sono affari tuoi…"
Scivolò via, adagiandola con delicatezza sui cuscini. Diede un'occhiata all'orologio colorato sulla parete. Le cinque e mezzo del mattino. Che ore potevano essere in Grecia? "Fantastico. Milo mi aspetta da un’ora."
Si decise a raggiungere Christine in cucina, la mano tesa ad afferrare la tazzina piena di pozione del risveglio. Espresso, ristretto e mortale, che Zeus benedicesse quella ragazza. Esattamente ciò di cui aveva bisogno. "Una pentola intera, per favore."

 — Latte, zucchero, o entrambi? —

Si abbatté su una sedia. "Ci vorrebbe altro che un sonnellino fuori programma…" — Ne-nessuno dei due, grazie — rispose, strascicando le parole. "Un anno sabbatico, ecco cosa mi ci vuole. Posto che qualcuno di noi ne esca vivo."

 — Torno tra un momento... — Christine andò a prendere qualcosa con cui coprire sua sorella. Kelly sorrise nel sonno e si avvolse nella coperta, acciambellandosi come una gatta.
Camus non poté impedirsi di fissare quella ragazza con un rinnovato rispetto. Luminosa, ecco come si poteva definirla. E rassicurante. Non era nulla che avesse a che fare con l'età, no, era piuttosto una questione di animo, di predisposizione. Christine era una persona materna, forse la prima che avesse mai conosciuto. La sua voce bassa e morbida aveva qualcosa che invitava alla confidenza. La guardò riempire di latte e cereali al cioccolato una tazza adatta a servire un reggimento. — Mi spiace, credo che siano rimasti soltanto questi. —

"Mai amato il cibo per galline…" — Non preoccuparti, Christine, davvero. Anzi, è ora che me ne vada. —

Lei scosse la testa con disapprovazione — Se non fosse stato per te ieri non avrei saputo niente. Non posso permettere che tu muoia di fame — lo redarguì, con un tono che non ammetteva repliche. Brandiva un cucchiaio di legno, comicamente minacciosa. — Oppure preferisci combattere? Non sono male con la frusta… —

"Ce n’è uno che non sia svitato, in questa famiglia?"

 — È un piacere discutere con te… — Non aveva mai mangiato cereali in vita sua. Se Milo lo avesse visto in quel momento si sarebbe divertito come un matto, gli avrebbe rubato la tazza e avrebbe ribadito ancora la sua teoria sulle donne e sulla sua totale incapacità a trattare con loro.
"Milo."
Più probabilmente lo avrebbe ridotto ad un colabrodo per aver fraternizzato con il nemico. Tenerlo all'oscuro di tutto gli stava costando troppo. Per quanto ancora avrebbe potuto nascondergli le trame che stava tessendo contro il Sacerdote? Presto il momento della scelta sarebbe giunto per tutti loro, e il loro legame così come era cresciuto negli anni si sarebbe inevitabilmente spezzato. E chissà se sarebbe rimasto qualcosa che valesse la pena ricostruire. O, per lo meno, qualcuno con cui farlo.

Senza neanche accorgersene, si ritrovò a guardare oltre la soglia della cucina. Kelly era ancora addormentata su quel divano, le ginocchia raccolte e le mani abbandonate vicino al viso. Doveva ammetterlo, la situazione gli stava sfuggendo di mano. Ma non per i motivi che la ragazzina aveva creduto di indovinare, non solo. Quella notte era riuscita a spiazzarlo, completamente. Non l'aveva accusato, non aveva recriminato, non aveva fatto niente di quanto lui si sarebbe aspettato, e in una certa misura riteneva di meritare. Non gli era rimasto altro che accettare senza domande quella fragile fiducia che lei sembrava decisa a concedergli, cosa che gli era risultata fin troppo… sì, era stato sin troppo facile assecondarla, e tenerla stretta mentre parlava, un gesto che lei sembrava apprezzare, finché le sue frasi erano diventate più rare e incoerenti, un mormorio spezzato che non riusciva a decifrare. Un improvviso silenzio, il suo respiro più fondo, gli occhi chiusi… aveva compreso che era ora di andarsene. Ma non ce l'aveva fatta. Invece l'aveva sistemata meglio contro il torace per farla stare comoda. Lei aveva sospirato di soddisfazione, accoccolandosi. "Un attimo solo… voglio guardarti ancora…" non gli sembravano trascorsi che pochi minuti, quando sua sorella lo aveva svegliato. Con la schiena incordata e il suo respiro che gli solleticava il collo.

 — Ti è molto affezionata, lo sai? — Christine stava guardando lui. E con molta attenzione. Si sentì del tutto inerme, e molto poco disposto a permetterlo. "Oh, al diavolo…"

 — Christine… — incominciò. Si accorse di non trovare le parole giuste. Perché a lei non aveva voglia di mentire. Aveva mentito troppo sino ad allora.

La ragazza gli porse la tazza che aveva preparato. Era molto seria, e probabilmente non si aspettava una risposta. Almeno, non a parole.
 — Non deluderla più. È la prima volta che vedo mai sorella concedere una seconda opportunità. Forse in un'altra situazione non mi sarei intromessa, ma l'ho spinta io a farlo… e finora non me ne sono pentita. Ma tu non mettermi i bastoni tra le ruote. — Gli sorrise, di quello stesso sorriso con cui, lui ne era certo, avrebbe potuto ucciderlo, se lo avesse pescato a mettere a repentaglio la sua famiglia. — Non trattarla più come se non potesse capire, e dille sempre la verità, per quanto scomoda. Non è molto divertente lottare fianco a fianco con qualcuno di cui non ci si può fidare. Noi sappiamo che può costare la vita. —

In altri tempi si sarebbe risentito per quella intromissione: nessuno aveva mai potuto permettersi di dirgli cosa fare. Ma quella ragazza possedeva una rara capacità di farsi ascoltare.
 — Lo farò ogni volta che mi sarà possibile, Christine — le promise. Era quella, l'unica risposta che poteva darle. L'unica che valesse la pena darle.

Lei sorrise, questa volta con autentico calore. Qualunque prezzo le costasse mantenere quella parvenza di tranquillità era in grado di nasconderlo bene.
 — Gli amici, di solito, mi chiamano Chris… — "I miei amici…" La ragazza si passò una mano tra i capelli. Quella piccola parentesi era finita. Era ora di tornare al mondo reale. Ma quanto poteva essere reale un mondo fatto di sangue versato in nome di ideali di cui al loro non poteva importare nulla, di assurdi doveri verso una divinità sconosciuta, che si era portato via il loro David? E quanto senso poteva avere lasciare sua sorella in pasto ai leoni?
 — Tra poco dovrò andare via. Potresti aiutarmi? — Muoversi alla velocità della luce. Sembrava una follia, anche per lei che pure era una Prescelta di Athena. Ma il mistero della luce che circondava i Dodici era qualcosa che sarebbe sempre rimasto al di là della sua portata. Christine lo sentiva, a livello di puro istinto, percepiva l’immenso e letale potere che Camus teneva celato, appena sotto la pelle, assopito eppure pronto a scattare. "Tu sei fatto di un’altra pasta, come un lupo in un branco di pecore. Forse non dovremmo dimenticarlo."
Eppure, in quel momento tutto ciò che riusciva ad intravedere era soltanto un ragazzo assonnato, che quella notte aveva fatto per loro molto più di quanto sarebbe stato suo dovere. Gli sorrise, prima ancora di rendersene conto.

Camus si sforzò di ricambiarla, senza riuscirci. Avrebbe preferito tenerla il più lontano possibile dalla sua isola. Aveva un pessimo presentimento a riguardo. — Sono qui per questo, in fondo… —

La ragazza lo fissò, affrettandosi a mascherare lo scetticismo che le si stava dipingendo in volto. "Lo sappiamo entrambi, perché sei rimasto. E io non c'entro granché." — Davvero? — gli rispose, forse più beffarda di quanto avrebbe dovuto.

Il guerriero lanciò un'occhiata oltre la porta. Kelly continuava a dormire pacificamente. — Lei sa perché resti ancora all'Isola di Andromeda? — ritorse con aria innocente. "Neanche tu sei del tutto sincera…"

 — Si — rispose Christine in fretta. "Troppo in fretta, ragazza." — Più o meno. —

 — Più o meno… significa che non le hai detto proprio tutto, vero? — Camus sospirò. — Sarebbe molto meglio che tu ti tenessi alla larga da quel posto. Albion ultimamente non è molto popolare al Santuario. E lo conosco abbastanza da ritenere che te ne abbia parlato. Si preparano grossi guai, per lui e per tutti quelli che gli sono vicini. — si fissarono per alcuni minuti. L'unico suono a rompere il silenzio era il ticchettio dell'orologio a muro. — Ma è proprio per questo che non te ne andrai… —

La vide stringere le labbra. — Non posso fuggire soltanto perché il gioco si fa pericoloso — replicò decisa, ma senza acrimonia. — Non mi tirerò indietro. Anche se conosco perfettamente il pericolo che stiamo correndo

"Io non credo che tu lo sappia davvero…" Camus rigirò a lungo il cucchiaio nella tazza ormai vuota. — Christine, questa è la tua vita, e non cercherò di convincerti a fuggire. Non l'ho insegnato a tua sorella e non lo predicherò di certo a te. Ma presta attenzione al mio avvertimento. Al Santuario esistono forze di cui non sospettate neppure l'esistenza. Cavalieri potenti abbastanza da spazzare via la tua isola dalle carte nautiche facendo ricorso alla metà delle proprie forze. Sii prudente, per lo meno. —

La ragazza si rilassò — Lo farò — replicò dolcemente — Come si può ignorare tanta saggezza? — concluse con un sorrisetto divertito.

Camus si alzò. — Per me è davvero tempo di andare, Christine. Ma tu resta ancora qualche ora. — Abbracciò con un'ultima occhiata la figura distesa sul divano. — Quando tua sorella si sveglierà avrà bisogno di te. —

 — Lo vorrei, ma… — tentò di ribattere lei, con scarsa convinzione.

Il ragazzo più grande la zittì con un gesto. — Fidati di me, Chris. Qualunque iniziativa Arles possa prendere, non credo partirà oggi. — La bassa manovalanza non avrebbe potuto tenere testa ad Albion, l'aveva già considerato, e Arles non avrebbe sprecato tempo ad inviarne. Era troppo accorto per mettere la sua vittima sul chi vive. E quanto agli altri, ben più pericolosi… avrebbe avuto bisogno di un buon motivo per scomodare un sicario d'oro. "Chissà se Cepheus lo sa…" — Ma terrò gli occhi aperti, in modo da essere preparati. — "Non morirai anche tu. Non se posso impedirlo."

Christine rimase a guardarlo con le mani sui fianchi, divertita e incuriosita insieme. Camus reagì con una scrollata di spalle, un cenno di saluto che voleva ristabilire le distanze, ma che probabilmente era riuscito soltanto a farlo sembrare timido. Raggiunse la porta simulando una noncuranza da primato. "E ora cosa racconto a Milo?" Ma la voce della ragazza lo richiamò indietro.

 — Kelly ha bisogno anche di te… cerca di tenerlo a mente. —

"Ti sbagli, Christine. Il meglio, per te e tua sorella, sarebbe non avermi mai conosciuto."


~.~


Lo stava aspettando in cima alle scale che portavano all'Undicesima Casa, con il bavero del suo impermeabile di pelle sollevato per difendersi da quei primissimi freddi, in verità davvero miti. Per il Padrone delle Energie Fredde, e per chi era stato suo allievo, quel cambio di temperatura non aveva alcuna importanza. Ma il 'temibile Gold Saint dello Scorpioné’ soffriva il freddo in un modo quasi patologico.

Camus ebbe un sorrisetto assolutamente involontario, al riaffiorare di uno dei suoi ricordi più divertenti. Il mentecatto della Tredicesima gli aveva appena affidato la responsabilità di una bambina che gli era stata segnalata dai 'suoi' contatti giapponesi. Milo, e il suo dito medio sollevato con un sorriso amabile quando l’aveva invitato sul K2… Quella notte, l'aveva passata all'Ottavo Tempio. Ad impedire al suo occupante ebbro di retsina di fare il giro del Santuario vestito solo di un paio di boxer con la scritta: 'Chiuso per lutto'. Quell'oggetto di fine buongusto si trovava ancora in qualcuno dei suoi cassetti, ci scommetteva una mano, così come scommetteva sulla sua poco edificante provenienza. E ricordava ancora quanta fatica gli era costato riuscire a mettere a letto l'esibizionista. "Un po’ di sobrietà mi avrebbe giovato, però…"

Camus aveva ancora un'ombra di sorriso sul volto, mentre si fermava di fronte al suo amico. "Che la Dea me la mandi buona, adesso." — Buonasera — esordì.

 — Spero tu abbia un'ottima scusa… — sibilò l'altro in risposta, fulminandolo con gli occhi.

Camus si stupì per l'ennesima volta di quanto quelle iridi azzurre potessero rivelarsi inquisitorie. "Non oggi Athena, non oggi. Non sono nelle condizioni di sopportarlo." — Tipo una donna? — asserì in tono leggero. — Vorresti che ti raccontassi di essermi infilato nel letto di una bella ancella e di aver perso la nozione del tempo? —

"E da quando in qua tu fai battute così cretine?" — Cambia tattica, Aquarius. Quella scusa di solito la uso io… — "Perché, maledizione, perché mi stai trattando come uno stupido?"

 — E io non tenterei mai di portartela via, non temere — replicò lui, con una breve risata. Una risata forzata: non era allegro, per niente. Come avrebbe potuto esserlo? Aveva sbagliato tutto, dannazione. E in quel momento non gli importava un bel niente di Saga, né riusciva a dare la giusta importanza alla rediviva Athena, dovunque fosse. Vedeva solo gli occhi colmi di lacrime di Kelly e la foto di quel ragazzo morto perché i suoi amici vivessero. Non riusciva a toglierseli dalla testa neppure per un attimo.

 — Allora pensi che sarebbe troppo disturbo per te spiegarmi come mai ho passato quasi due ore all’addiaccio, rischiando il congelamento? —

La voce risentita di Milo lo riportò bruscamente alla realtà. "Non te lo meriti, amico mio. Ma non posso fare altro che continuare come ho sempre fatto. Non c'è solo la mia vita in ballo. C'è la tua, per esempio."
 — Addiaccio… che parola grossa. Non è certo colpa mia se tu saresti capace di congelare all’Equatore. E poi nessuno ti ha chiesto di aspettarmi qui. — "Nessuno tranne il tuo intuito… E vorrei tanto che sbagliasse." — Dai, andiamo. — Gli tese una mano, che l’amico parve accettare malvolentieri. — È tardi e ho davvero voglia di uscire stasera. — "E di non pensare a lei. Almeno per un po’."

 — Camus… — Era più tranquillo, ora. — Bah, lascia perdere. — O forse soltanto più stanco di lui. Negli anni Milo aveva imparato a non sprecare il fiato con domande cui non avrebbe ricevuto risposta.

 — Ne parliamo dopo, ora andiamo… — "e forse mi verrà qualcosa di intelligente da dirti."



~.~


"E adesso?" Camus sorseggiava lentamente la seconda pinta di birra scura, gli occhi fissi su qualcuno che, invece, si ostinava a non guardarlo. La solita osteria. I soliti saluti e le solite battute dell'oste che li conosceva da quando erano soltanto due poppanti, senza mai un pur minimo sospetto che loro due fossero qualcosa di diverso da ciò che apparivano. Com'era giusto, del resto. L'esistenza del loro Ordine era e doveva restare un segreto. Il sottile velo che separava l'esistenza della gente comune dalla loro non doveva essere sollevato. Un peso, a volte, altre una benedizione. Senza quel segreto, non avrebbero potuto godere di quelle serate senza pensieri che erano state sempre il loro modo per venire a patti con un dovere che troppo spesso reclamava sangue. Sangue altrui, fino a quel momento. Ma… presto o tardi anche il loro. "Sarà mai esistito un Santo morto di banale vecchiaia?"

Milo non gli parlava da più di mezz'ora. Forse era soltanto immerso nei propri pensieri. Forse lo stava semplicemente studiando. O forse stava tentando, come lui, di godersi quella serata e ignorare la sensazione che qualcosa si stesse irrimediabilmente incrinando tra loro. — Mi stai ancora tenendo il muso? — lo stuzzicò, tanto per tastare il terreno.
 — Avrebbe senso? — aveva borbottato il Santo di Scorpio, senza alzare gli occhi dal tavolo.

Anche un stupido avrebbe compreso che quello non era il modo più opportuno di rompere il silenzio. Ma all'improvviso, e senza una ragione, Camus scoprì di aver infantilmente bisogno del suo più caro amico. Aveva una domanda che non avrebbe desiderato porre a nessun altro. — Milo? —

L'altro finalmente accettò di guardarlo. Il tono di quella invocazione era quello delle grandi occasioni. — Spara. — accondiscese. "Ma sai che non è finita qui, vero?"

 — La vita non ha alcun senso, te ne sei mai reso conto? —

Milo quasi si strangolò con l'ultimo sorso del suo boccale di sidro. — Co-cosa? — "E questa, in quale cioccolatino l'hai trovata?"

Camus abbassò la testa. Quel pensiero gli ronzava per la testa, e non voleva andarsene. Inutile. Era tutto inutile. Lottare, opporsi, sanguinare… morire, come David. Anche se sapeva. Anche se aveva provato sulla pelle, come Aioros e Saga, come Sion prima di tutti loro, il benefico potere della vera Athena. Ma quel giorno era lontano, ormai, come il sentore del cosmo della Dea. E il peso della finzione, invece, fin troppo vicino e concreto. E allora, cosa restava?
 — Pensi mai a cosa vorresti lasciarti indietro, se dovessi morire domani? —

"Eh, no, vecchio mio, questi discorsi non sono proprio da te…" — Che vuol dire, se dovessi morire domani? — gli rispose Milo, scrutandolo attentamente. Che diavolo hai in mente, Camus? Un omicidio? Un suicidio rituale?

Il suo amico lo guardò come se fosse completamente trasparente. — Lo sai da sempre anche tu, Scorpio Gold Saint. Le nostre vite sono costantemente appese ad un filo — recitò con voce incolore.

Questo era un argomento cui Milo non avrebbe saputo come ribattere. Tanto più che Camus aveva ragione. Ma perché gliene parlava proprio in quel momento? E con quel tono? Come se quel giorno avesse perso qualcosa d'importante… Si incupì. — Come se la passa la tua allieva? —

Fu il turno di Aquarius di scuotersi violentemente, e di fissare il suo amico come se gli fossero spuntate due teste. — Che… e lei che diavolo c'entra, ora? —

"Nulla. Assolutamente nulla. Infatti il tuo famigerato 'aplomb' non fa una piega." — Credo che qualcuno qui stia perdendo il senno. E non si tratta certo di me. — Replicò Milo con calma. La stessa calma che precede la tempesta perfetta.

 — Non essere ridicolo… — sibilò Camus sottovoce, per nulla intimidito. Il tono era di quelli che non lasciavano prevedere nulla di buono.

Milo lo osservò con un sorriso sardonico. Ci voleva ben altro per impressionarlo. E finalmente ne aveva la certezza. Se solo non si fosse trattato di una traditrice, l'avrebbe trovato un ottimo motivo per festeggiare. Dopo tanti anni in cui sembrava aver perso ogni legame col mondo, il suo amico sembrava di nuovo vivo. E di fronte a questo, la sua rabbia svaniva. Ma non la preoccupazione. — Per quanto tu possa trovarlo ridicolo, dovrai inventarti di meglio per prendermi in giro. — Doveva esserci dell’altro, lo sapeva. Se Solo fosse riuscito a… a…

 — Pensavo avessimo chiarito la questione, Milo. — ribatté Aquarius, con un punta d'acido. — Non sto cercando di nascondere nulla, soltanto di salvaguardare la mia privacy. Ti ricordi ancora cosa significa questa parola? — Se ne pentì immediatamente, ma ormai la frittata era fatta. Il sorriso del suo amico si era spento, e tutto nel suo aspetto ora ricordava una statua. Persino gli occhi azzurri erano perfettamente immobili. Camus conosceva bene quell'espressione, l’aveva vista parecchie volte nel corso degli anni: Milo stava conducendo una dura lotta con se stesso per non spaccargli la faccia.
Prese a fissare la ragazza che serviva ai tavoli, anche lei una vecchia conoscenza. La figlia di Papadopoulos lo salutò con un cenno allegro, prima di tornare al suo lavoro. Lui la seguì con lo sguardo, registrando tutto quello che accadeva, ma senza vederlo davvero.


 — Non son, non son io quel che paio in viso
quel ch'era Orlando è morto et é sotterra —



Camus si voltò di scatto, e guardò ad occhi sgranati Milo, braccia levate ed un'espressione tragica dipinta in volto. "Che diavolo c'era in quel sidro?"

 — la sua donna ingratissima l'ha ucciso:
sì, mancando di fé, gli ha fatto guerra —


Li ricordava, quei versi, e a quanto pareva anche Milo. Sapevano di pomeriggi in biblioteca, del vecchio Shion e del suo amore viscerale per il cinquecento italiano, di lezioni soporifere e pomeriggi luminosi, di un tempo lontano e perduto. Come il sorrisetto di sfida con cui Scorpio lo invitava a proseguire. "Forza, pupazzo di neve."

 — Io… —

Milo, dannato. Milo, indispensabile. Milo e le sue uscite impossibili, e quel suo modo di capire al volo, sempre. Camus si arrese, lasciando che i buoni ricordi lo sommergessero, gli ricordassero per cosa valesse la pena andare avanti, e ritirandosi, lo lasciassero più pulito. Il loro retaggio, il periodo migliore della loro vita, non si sarebbe mai allontanato del tutto, finché fossero rimasti insieme per ricordarlo. E prima che la ragione potesse opporsi, la sua stessa voce cominciò a far eco a quella del suo amico, e per un attimo, folle e magnifico, tornarono ad essere due mocciosi appena consacrati, sicuri che la loro strada sarebbe stata lastricata di mattoni d'oro.

 — io son lo spirto suo da lui diviso
ch'in questo inferno tormentandosi erra
acciò con l'ombra sia, che sola avanza
esempio a chi in Amor pone speranza.* —



Appena terminata l'esibizione, il novello attore si allontanò senza una parola, ma con una espressione degna del gatto del Cheshire. Lo vide pagare e tornare indietro. Posò altri due boccali sul tavolo di legno malconcio, usurato dal tempo e fitto di iscrizioni partorite da generazioni e generazioni di coppiette. Il suo sorriso aveva qualcosa di inquietante.

 — Visto che hai buona memoria, tieni a mente anche questo, Orlando. Io ti tengo d'occhio. Ed ho già pronti i bagagli per un viaggio sulla luna. —

~.~


Erano passate due settimane da quella serata. Due settimane in cui gli eventi avevano incominciato a precipitare, tanto rapidi da riuscire a coglierne soltanto voci e dicerie. Quelle settimane, Camus le aveva trascorse seppellito nel familiare freddo del Tempio del Coppiere Divino, uscendone solo per allenarsi e tentando di non pensare alla caccia all'uomo che Saga aveva scatenato contro i presunti ribelli di Tokyo, impedendosi di contattare Kelly o sua sorella. Due settimane in cui il geniale Primo Ministro le aveva tentate tutte per riuscire a riportare al Santuario il Tesoro e spedire in Ade le cosiddette pecorelle smarrite.
Per primo, il corpulento Docrates, che era stato la causa della morte di David, aveva tentato di portare a termine il lavoro con un proditorio assalto alla residenza dei Kido. Nulla di fatto, a parte la seccatura un gigantesco cadavere da seppellire.
Tempo pochi giorni, e la vulcanica mente del nano dall'occhio fasullo aveva partorito la brillante idea di richiamare dall'esilio un quartetto di reietti, confinati da Saga nei Caraibi in uno dei suoi rari momenti di buonsenso. Geist, sembrava si chiamasse il loro capo, una Sacerdotessa che per i suoi trascorsi avrebbe visto bene a far compagnia allo psicotico della Quarta Casa. Un altro buco nell'acqua, aveva sentito dire, con una certa soddisfazione.
Pegasus e i suoi amici si stavano rivelando molto più coriacei di quanto Gigars si aspettasse. E a peggiorare lo stato delle sue coronarie finalmente Saori si era convinta a lasciare la città in compagnia dell'elmo di Aioros.
Almeno, questo era quanto Kelly gli aveva riferito la notte precedente, quando, preoccupata dal suo silenzio prolungato, si era intrufolata nel Santuario con molta più grazia della volta precedente. Era diventata davvero brava ad annullare il suo cosmo, rifletté. Forse le bastava pensare di essere tornata a casa, lontano da quella che lei chiamava follia e che lui sperava, prima o poi, avrebbe chiamato dovere. Persino Milo non si era accorto di nulla, o forse aveva semplicemente chiuso entrambi gli occhi. Dopo quella serata agrodolce ad Atene non avevano più abbordato l'argomento. E non sarebbe stato lui, di certo, ad interrompere la tregua.
Anche se, lo sentiva, avrebbe finito col pentirsene.
Camus si alzò in piedi di scatto, quando gli parve di percepire un cosmo familiare all'interno del Tempio. Un'aura gentile, che con educazione chiedeva il permesso di entrare. Camus sorrise nella semioscurità del tramonto, e scese rapidamente le scale, ad aprire la porta che dal piano inferiore conduceva all'abbaino che occupava. La luce del sole morente illuminava le spalle del visitatore, la leggera corrente d'aria giocava con il mantello candido. Dal giorno della sua investitura, non ricordava di averlo più visto senza la sua Armatura d'Argento. L'orgoglio di essere un Sacro Guerriero, e la dedizione alla giustizia… Il Santo perfetto. Forse ci credi più di me…

 — È un vero piacere rivederla in buona salute, Maestro. — fu il saluto del suo antico discepolo.

 — Il piacere è reciproco, Crystal, Santo dei Ghiacci. — rispose Camus, con serietà. — Immagino tu sia qui per via della lettera che ho avuto il compito di recapitarti giorni fa… — "E noto con piacere che neanche tu scatti sull'attenti ai capricci di Saga…"

Il Silver Saint chinò il capo in segno di rispetto. — Lei mi fa troppo onore. Mi sentirei più a mio agio se continuasse a chiamarmi per nome, come usava una volta. — disse con un sorriso cordiale.

"Ho capito, mi stai prendendo in giro…" — Se è così temo che la richiesta sia reciproca, Alëkšey Pàvlovic. I tempi della Siberia non sono poi così lontani. —

Il sorriso sul volto del giovane si allargò ancora di più, fino a renderlo identico al ragazzo che gli si era presentato davanti a gambe larghe, il giorno del suo arrivo a Kobotek, chiedendo con quella voce profonda se era lui quello che l’avrebbe aiutato a diventare un Eroe. — Non ritenevo certi… atteggiamenti adatti alla solennità del Santuario, Maestro… — ad accompagnare quella chiosa deferente, una bottiglia piena di liqiudo trasparente emerse dalle profondità della sua borsa da viaggio.

Camus ricambiò il sorriso, non poteva farne a meno. — Non sei più soltanto un mio allievo, Alëša. E comunque, mai cerimonie tra vecchi amici. Soprattutto se portano da bere. — Gli fece cenno di accomodarsi di sopra. — A proposito, hai già un posto per la notte? —
Quello era un incontro che andava festeggiato.



~.~


Kelly si guardava attorno. Conosceva quel posto. Non era il tetto del mondo, ma ci si poteva arrivare vicino. Il panorama era meraviglioso, anche se lei ancora non riusciva a non soffrire la rarefazione dell'ossigeno. Per quasi sei anni la montagna era stata la sua casa. Se si poteva chiamare 'casa' un luogo in cui aveva sofferto una fatica inimmaginabile e aveva sputato sangue, in cui aveva pensato mille volte che sarebbe morta prima di aver raggiunto il suo scopo. "Non proprio. Non era esattamente il mio scopo." Ma ce l'aveva fatta. E senza dubbio lo doveva a lui. L'uomo che l'aveva portata lassù per la prima volta. "Ogni volta che stavo per lasciarmi andare, c'era la tua mano pronta ad afferrarmi." Camus si chinò a raccogliere una manciata di neve da una bassa sporgenza piana. L'assaggiò, come faceva ogni volta che conquistavano la vetta, quindi si voltò a metà, lanciandole la solita occhiata in tralice. Un segnale tra loro due. Una volta lei annuiva, a quel gesto, sicura che lui intuisse il suo sorriso nascosto dal metallo. E una volta quel posto meraviglioso le avrebbe restituito la serenità. Ma da quando Dave non c'era più le sembrava che nulla avesse più molto senso.

 — Non mi stai ascoltando… —

Si scosse. Lui la stava scrutando, forse era da un pezzo che tentava di attirare la sua attenzione. "Sei preoccupato? Non ho intenzione di volare dalla finestra… non ce ne sono a portata di mano." Altro che calma sovrana e forza di carattere. Non riusciva neppure a guardarlo negli occhi. Per non leggervi gli stessi sentimenti che stava provando lei stessa. "Sono una delusione, vero?"
E ora cos'era quel calore attorno alle spalle?
L'odore familiare della lana grezza mista al fumo di una cappa che non aveva mai tirato granché bene. Le aveva messo addosso il suo maglione. Strinse i denti. Trovava così sciocco che si arrabattasse a fingere che nulla fosse cambiato e allo stesso tempo la trattasse con tanta circospezione… Avrebbe voluto urlargli che lei non era una bambola di porcellana. Ma senza quella premura era certa che la porcellana sarebbe andata in pezzi.
Continuò a guardarlo. Senza una parola si era allontanato, sedendo a gambe incrociate sulla neve. Non si sarebbe mai abituata del tutto a vederlo andare in giro sul cocuzzolo del K2 vestito soltanto dei suoi vecchi di pantaloni di cuoio e di quella maglietta sdrucita, con le maniche arrotolate. La stessa maglietta che tanto spesso lo aveva visto rammendarsi da solo, la sera davanti al fuoco. Non era l'unica che avesse, no, ma per qualche motivo tutto suo doveva tenerci parecchio.
Non aveva mai avuto il coraggio di scoprire se si fosse accorto di quante volte, dopo i tredici anni, s'era alzata nel mezzo della notte per spiarlo attraverso la porta socchiusa. Una ragazzina in piena pubertà che si era appena accorta di vivere con uno di quei fusti che di norma si incontrano solo nei sogni… "Lo sapevi, vero? Lo sapevi e non hai mai detto niente." Lo guardava leggere su una rozza sedia di legno intagliato, con i piedi allungati verso il camino quasi spento, finché non sbadigliava, spesso poco prima dell'alba, e spariva nell'altra stanza. Quella in cui lei non aveva mai avuto il coraggio di curiosare, fino al giorno in cui aveva recuperato i suoi ricordi. "Che spettacolo mi sono persa, però…" Col tempo aveva capito che le notti in cui restava sveglio erano molte di più di quelle che passava nel suo letto. Per anni si era chiesta perché. E avrebbe preferito continuare a non capirlo. "Quante volte ti sei sentito come me oggi?"

 — Stasera te la rimetto a posto io, quella maglietta — sussurrò, avvicinandosi. — Tu sei un disastro come uomo di casa… —

Si era seduta accanto a lui, ma Camus non si voltò neppure. — Neanche tu sei una gran sarta — considerò. "Non riesco a vederti così. Fa troppo male." Gli occhi spenti, lo sguardo assente. L'espressione di chi preferirebbe un coma irreversibile. Quanto era diversa dalla ragazzina che gli era saltata al collo, con l'intento di torcerglielo. Solo pochi mesi. "Ma lunghi come secoli."

Lei arrossì, imbarazzata. Non credeva di aver parlato a voce così alta. — Allora, cosa ci facciamo qui? — disse con un sorriso forzato. — Un bel pupazzo di neve perenne? —

"Lo devi fare. È la cosa più giusta." — Non proprio. Ti insegno il viaggio attraverso il Portale. — le annunciò, cercando di apparire il più naturale possibile. — Non sarà semplice, né immediato. Potrebbero volerci anni. Ma è un motivo in più per cominciare subito. — "Presto, finché abbiamo ancora del tempo…"

Lo fissò in silenzio, finché lui non si arrese e si decise a guardarla a sua volta. — Perché proprio ora? —

"Perché la vita va avanti, Kelly." — Perché non ora, piuttosto? Io mantengo le promesse. —

 — Non vedi l'ora di liberarti di me, vero? — disse la ragazzina, triste.

Camus rimase di sasso. "Piccola malfidata. Sapessi quanta voglia ho di liberarmi di te." — Eri tu quella che lo desiderava con tutte le forze… non mi dirai che ora hai cambiato idea — la punzecchiò, tanto per ottenere una reazione. "Va bene tutto. Ma ora torna in te, per favore."

 — Forse non importa più cosa voglio io, Camus… — bisbigliò lei, giocherellando svogliatamente con la neve. Alzò gli occhi contro il sole, luminoso e indifferente come sempre, così lontano dalle loro insignificanti questioni. La luce li faceva lacrimare, ma almeno si sentiva un pochino più viva. — Volevo tornare a casa con tutte le mie forze. Volevo ritrovare la mia vita intatta com’era, viverla insieme ai miei amici. Ma io non… sono più quella persona. E sono giorni che penso a come potrei affrontarli, a come farò a dire a Katie che non ho impedito al suo ragazzo di sacrificarsi. Posto che sopravviva abbastanza da rivederla, è chiaro. —

"Katie?" Nella mente del Cavaliere dell'Acquario si materializzarono all'improvviso un viso impertinente, capelli corti e un sorriso vicino, vicinissimo a quello di David, in un’altra di quelle dannate polaroid. Altro dolore, altre perdite da mettere in conto, e stavano diventando troppe. E questo gli faceva più male di quanto avesse previsto il giorno in cui Mitsumasa gli aveva messo la piccola Athena tra le braccia. Quando ancora non sapeva quale condanna sarebbe stata il suo ruolo di protettore nascosto. Ma Kelly non capiva, ancora non si rendeva davvero conto di cosa ci fosse in gioco. "Credi che non avrei voglia anch’io di nascondermi in un angolo, e farmi compiangere?"
Aveva paura per lei. Non ne aveva mai avuta tanta. Era come se dalla morte del suo amico Kelly avesse deciso che dopotutto non sarebbe stato un gran male seguirlo.

 — Di sicuro non è con questo atteggiamento che ci riuscirai. — Camus si alzò in piedi, puntandole contro il suo sguardo più inespressivo. — Se ti sembra che la tua vita non abbia senso, degnati di pensare anche a chi ha bisogno di te. Non hai scelto tu di combattere, è vero, ma ora devi. Per la tua vita, e per quella dei tuoi compagni. — "E per la Dea, anche se non siete ancora nella posizione di capirlo." Si allontanò di qualche passo. — Tirati su, adesso. —

Kelly gli ubbidì quasi contro la sua volontà, sorpresa da quel tono secco, che non sentiva da tanto tempo. Camus aveva cominciato ad espandere il suo cosmo. L'aura del suo potere si allargava attorno alla sua figura, dorata eppure mortalmente glaciale. Si sentì percorrere da un brivido del tutto involontario, che non avrebbe mai ammesso con anima viva: paura e ammirazione insieme.
Il suo maestro si allontanò di diversi metri. C'era qualcosa che la ipnotizzava in quel portamento determinato. "Il carisma dei Prediletti di Athena…" In quell'attimo fu certa che il Gold Saint di Aquarius possedesse la capacità, e la decisione, per abbattere qualunque ostacolo si parasse sul suo cammino. "È questa forza dunque, a distinguere quelli come te?" Tentò di prepararsi all'attacco che, ne era certa, sarebbe calato su di lei in brevissimo tempo. Le braccia sollevate, le mani che si intrecciavano. Come in sogno lo vide preparare il colpo, quello più potente, che le aveva mostrato soltanto una volta. "Saprò mai chi sei davvero?"

All'improvviso, tutto cessò com'era cominciato. Le braccia ricaddero lungo i fianchi, senza farle del male. Camus socchiuse gli occhi, lasciando che la sua energia si affievolisse e si disperdesse. In pochi attimi Kelly si ritrovò davanti nulla più che la solita, imperturbabile faccia di bronzo del suo maestro. "Non bronzo… oro. Diamo a Cesare quel che è di Cesare…" Lui le si parò davanti, le accomodò meglio sulle spalle il pesante maglione e incrociò le braccia con un’espressione assolutamente divertita.

 — Riposo, ragazzina. Se solo avessi saputo che bastava dare un po’ spettacolo per ammutolirti, l’avrei fatto più spesso — lasciò cadere quella canaglia in ghiaccio e ossa.

 — Tu… tu… — balbettò Kelly, presa in contropiede.

Camus sedette di nuovo sulla neve, con un movimento fluido ed elegante. Lei seguì il suo esempio con sospiro spazientito. Qualunque cosa facesse, non sarebbe mai stata altrettanto sicura di sé, altrettanto padrona della situazione. Lui era perfettamente serio mentre le parlava di nuovo. — Adesso che ho finalmente dirottato la tua attenzione su pensieri più produttivi… ti ho mai parlato del Settimo Senso? —

"Bastardo…" Fu in quell'attimo che Kelly comprese chiaramente un particolare di una certa importanza. Qualunque cosa fosse il fantomatico Settimo Senso, se ne sarebbe servita volentieri per strangolarlo.


~.~


Occhi neri, profondi e luminosi. Linee sottili e curve appena accennate sotto una divisa nera come la pece. Non era un esempio di femminilità classica. L'aspetto di un ragazzino, accentuato da quei capelli infuocati, corti e disordinati. Un'altezza di tutto rispetto e una magrezza eccessiva. Per lo meno da quasi quattro mesi a quella parte. Henry Wood, Generale in congedo dell'Esercito degli Stati Uniti d'America, direttore di uno dei programmi di spionaggio più incoscienti e segreti dai tempi della Guerra Mondiale, fissava dal basso della poltrona del suo ufficio quella che restava pur sempre una cavia piuttosto attraente. "Ah, bambina, se soltanto avessi trent'anni in meno…"

La cavia intercettò lo sguardo, ricambiandolo con sommo disgusto. "Non ci pensare neanche, vecchio porco…" Era furibonda. Uno degli effetti collaterali dell'esperimento. Il ridicolo attaccamento che i dieci ragazzini che avevano retto al meglio il pesante addestramento avevano sviluppato gli uni nei confronti degli altri. E nei confronti del loro istruttore.

 — Te lo ripeto ancora una volta, McArthur. Se in quella tua bella testolina color raperonzolo dovesse ancora farsi strada l'idea balzana di usare le risorse del Comando per continuare con le tue assurde indagini private, provvederò di persona a far sì che tu te ne penta amaramente. — sibilò l'uomo, fissandola intensamente — Non è tuo interesse sapere se e quando il tuo caposquadra tornerà. Qui si lavora, e duro, per la tua preparazione. Sei stata tu a voler rientrare nel programma di addestramento. Tutto ciò che ti è richiesto, pertanto, è eseguire gli ordini. Come iniziativa personale, al massimo, ti posso concedere delle flessioni supplementari. —

Gli occhi neri lampeggiarono. Le mani si strinsero convulsamente dietro la schiena, dove si erano poste già da tempo in una derisoria posizione di attenti. L'uomo si irritò ancora di più. — Puoi andare, soldato. E riferisci pure ai tuoi amichetti la nostra discussione. Non farà male neanche a loro una piccola rinfrescata alla memoria — sottolineò, col suo solito, borioso sarcasmo.

Katie scomparve in fretta dall'ufficio, soffocando il desiderio di urlare con tutto il fiato che aveva nei polmoni cosa pensava di quel viscido, arrogante burocrate. Una smorfia impertinente le sollevò il nasino all'insù. La ragazza raggiunse in fretta gli spogliatoi, e si sfogò pigiando con tutta la forza che aveva nelle mani su tastierino numerico del suo armadietto personale. Lo sportello si aprì con un cigolio familiare. Alla sola vista della foto che aveva incollato nella parte interna tutta la sua baldanza scomparve di colpo. "Dave…" Katie si cambiò in tutta fretta, ignorando il pesante involto posato sul suo monospalla arancione. Se ne accorse quando, strattonando con forza lo zaino che sembrava incastrato, questo cadde con tutto il suo peso e si aprì proprio sul suo piede sinistro, protetto soltanto dal calzino di spugna. Grugnendo di dolore, si chinò ad esaminare quello sfacelo, augurando in cuor suo mille disgrazie al buontempone che le aveva giocato quello scherzetto spiritoso. Si trattava di parecchio materiale: appunti battuti al computer, fotocopie e qualche cartina topografica.
La ragazza esaminò febbrilmente la carta da pacchi che era stata usata per confezionare quell'insolito regalo fuori stagione. Sul lato strappato, lettere tracciate da una mano elegante. Accostando i lembi lacerati, poté leggere il messaggio del suo benefattore misterioso: CREDO CHE TU E I TUOI LO TROVERETE INTERESSANTE.
Conosceva quella grafia. E per un periodo era stata certa di non rivederla più.



~.~


* Orlando furioso, canto 23








Angolo della vergogna™

L'ho fatto davvero.
Ludovico Ariosto.
No, dico, dopo Mel Brooks, Leroy Jethro Gibbs e Freddie Mercury, me la sono presa anche con Ariosto.
Il problema è che non me ne pento neppure un po'. Il suggerimento, tanti anni fa, me l'aveva dato un'amica di allora, che non sento più, ma che, ovviamente, merita che le si riconosca di aver partorito questa idea bislacca da cui non riesco a staccarmi. Sarà che l'immagine di Milo che recita versi rinascimentali con istrionica drammaticità mi scalda il cuore, oppure sarà colpa di questa immagine che mi balla nel cervello, in cui Shion ammorba i suoi allievi con tomi più pesanti di loro, non so davvero dirvelo, ma questa scena ha il potere di farmi ridere da morire. E quindi, viva Ariosto, il merito a chi di dovere, la colpa sempre a me. O a Philos, quando sono in vena di scaricare il barile, quindi sempre.
Cara amica, che continua imperterrita a cacciare svarioni, che si trovi al nord o al sud, è sempre pronta a partecipare al LOL. Oltre che a scovare il refuso lì dove la mia correzione non è mai stata prima.
A parte questo, spero che questo capitolo dalla sofferta gestazione piaccia almeno un pochino. Grazie a chi ha recensito, e a cui risponderò subito, promesso!, grazie anche per chi passa e legge soltanto o a chi lascia un commentino ogni tanto. L'importante è divertirci. Io mi diverto, e finché avrò l'idea che uno solo di voi si diverta, saprò che ne vale la pena.
Io, per lo meno. Per il povero francese di carta, credo che sia tutta un'altra storia…

 

   
 
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