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Autore: Aya_Brea    08/08/2012    4 recensioni
“Dai Jake, questi ci ammazzano di botte, scendi e non fare l’eroe!”
Ma il piccolo biondino non aveva alcuna intenzione di demordere, né tantomeno di arrendersi di fronte a quei brutti ceffi. Una folata di vento gli scompigliò i capelli, poi quando tutto tacque, le punte gli sfiorarono nuovamente le guance.
Dagli occhi di Gin non trapela mai nulla, ma i ricordi si sa, non possono essere cancellati.
 
Fanfiction sul passato del più carismatico fra gli Uomini in Nero.
Genere: Azione, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro Personaggio, Gin, Nuovo personaggio, Vermouth, Vodka
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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4. Quando il bianco divenne nero




Erano le due di notte e come di consueto Takashi si intratteneva con la sua nuova compagna Julie: erano entrambi seduti sul divano e dalla finestra aperta sul salotto proveniva un ventaccio che sollevava qualsiasi cosa presente sul tavolinetto di fronte a loro. L’uomo biondo dovette premere il palmo della mano contro la bustina trasparente ricolma ancora di polverina bianca. Cocaina, molto probabilmente.
“Attento tesoro, se ci vola perdiamo un sacco di soldi.” Proferì la donna con tono languido. Poi lo accarezzò dolcemente sul petto. Entrambi avevano già fatto qualche tirata di quella schifezza, a giudicare dal comportamento disinibito e spigliato che trapelava in ogni loro gesto e in ogni parola.
“Fossi matto! Ho dovuto ammazzare un paio di cazzoni cinesi per guadagnarmi un chilo di questa roba. Ma da una parte meglio così. La Triade ci sta dando troppi grattacapi ultimamente.”
La donna si slanciò verso di lui e salì a cavalcioni sulle gambe di Takashi, poi prese a baciarlo appassionatamente.
Pareva una scenetta di un film di serie B, e questo, Jake, non mancò di notarlo. Mentre loro infatti erano intenti a scambiarsi quelle squallide effusioni, non avevano avuto modo di sentire la chiave girare nella serratura e la porta d’ingresso aprirsi lentamente. Il ragazzo biondo arcuò la mano contro lo stipite della porta e si parò proprio dinanzi a loro, col braccio sinistro sollevato e la pistola stretta fra le dita.
Non appena Julie vide la fisionomia fiera di quell’alto ragazzone compì un balzo e sgranò gli occhi, terrorizzata e “catturata” dall’arma che brancolava a mezz’aria.
“Jake, Cristo! Ma che fai?” Takashi si allarmò e scattò in piedi immediatamente. “Abbassa quella cosa.”
Al biondo parve che quella situazione si stesse riproponendo con le medesime battute che aveva recitato ipocritamente lo stesso Robert, qualche attimo prima: in fondo quei due non erano poi così diversi. Erano dei cani, degli sporchi mercenari scaraventati sulla terra per dare tormento e per sputare idiozie, falsità, menzogne, ipocrisie. Non capiva perché quell’idiota di suo padre avesse creato sogni di carta, avesse sposato sua madre, avesse messo al mondo uno come lui. Proprio non riusciva a capacitarsene. Tutti i sogni che si era creato puzzavano di marcio e di stantio. Perché aveva seminato i germogli di qualcosa che non avrebbe saputo preservare, curare, salvaguardare ed amare? Perlomeno lui, Jake, era coerente.
“Papà, vorrei soltanto farti una domanda.” Il tono di lui era così dannatamente lontano, impersonale, piatto. “Mi spiegheresti perché mi avete partorito? Pura e semplice curiosità, non volermene.”
Takashi roteò gli occhi e scosse nervosamente il capo, come se quella domanda l’avesse disorientato: per qualche istante si sentì come disarcionato per sempre dal suo cavallo. Lui, il grande fantino della Mafia giapponese, era stato sbalzato sul selciato sabbioso e fumante da suo figlio. Il destriero regale che avrebbe sputato sui suoi stessi passi. “Che domande sono, Jake? Lo sai benissimo il motivo.”
Jake sorrise di scherno e poi rivolse uno sguardo sprezzante nei confronti di Julie. “Ma l’hai vista quella lì? Mi basta guardarla negli occhi per capire che razza di abominio sei. Sei solo spazzatura, caro paparino. Abbi almeno il coraggio di rispondere alla mia domanda.” Tornò nuovamente con lo sguardo negli occhi sgranati del padre.
“Credevo che tu potessi seguire le mie orme, figliolo. Ma mi sbagliavo.”
“La verità è che non mi hai mai amato abbastanza. Ma anche se ci fosse una minima possibilità che tu potessi farlo, ora quel tuo amore sarebbe inutile. E lo sai perché?” La stretta contro il calcio della Beretta divenne salda e serrata come la morsa di uno squalo. “Lo sai perché?” Ripeté, accentuando quell’impeto di rabbia con uno strattone violento del braccio.
“No, perché?” Takashi sollevò le braccia in alto, vedendo suo figlio sfigurarsi. Non si era neanche accorto che qualcuno l’aveva probabilmente massacrato di botte: il sangue gli scolava ancora lungo la maglietta. “Perché, Jake? Dimmelo. Non lo so.” Sussurrò a quel punto, imbelle.
“Perché Jake è morto, papà. E’ morto quando ha visto quel suo compagno morire di fronte ai suoi occhi. E’ morto quando mamma ci ha lasciati perché tu ti facevi d’eroina e tornavi a casa con qualche baldracca al seguito. E’ morto quando ti trascinavi il tuo lavoro a casa, quando dicevi a tuo figlio che era un idiota, un incompetente, una checca, un fifone. Jake è morto tanti anni fa. Il Jake che avrebbe potuto amarti non c’è più. E sei stato proprio tu a preparargli la sua sepoltura. Ma dopotutto ti ringrazio per tutto questo. Sembra buffo.” Si morse il labbro dolcemente, come se quel discorso l’avesse preparato durante tutti quegli anni della sua vita acerba. “Non ho più legami, non sarò più schiavo di niente e di nessuno. E sarò libero. Io non ho più bisogno di un fallito come te.” Deglutì. La saliva che aveva in bocca aveva il retrogusto del sangue. “Addio.”
Dopo quella sentenza, Jake premette il grilletto con forza e l’ultimo proiettile di piombo schizzò via dalla canna per andare a perforare il petto di Takashi, il cui corpo fu scagliato contro il divano per via dell’impatto violento. Julie arcuò le dita affusolate fra i capelli e tirò un urlo mostruoso.
“Sta’ zitta, le tue urla mi irritano.” Come se si fosse arrogato il diritto di far fuori chiunque si parasse dinanzi a lui, Jake sparò un altro ennesimo colpo, poi scaricò il caricatore sul corpo di quella donna. Nuovamente calò il silenzio, divenuto ormai compagno delle sue lunghissime giornate. Provò una sensazione indescrivibile di vuoto. Si sentiva appunto, svuotato di qualsiasi cosa.
La libertà era dunque quella? Era quello il sentore e il profumo della libertà?
Sentiva solo tanto freddo. Decise di richiudere la finestra e di andare a rovistare nella credenza per cercare qualche tranquillante. Le sue mani avevano preso a tremare vistosamente per via dell’adrenalina e dell’endorfina che oramai circolava senza sosta nelle sue vene.
Due cadaveri erano rimasti lì nel salone, ma decise di non curarsene ulteriormente; così, allo stesso modo di com’era entrato, Jake uscì dalla porta d’ingresso e fu nuovamente in strada.





Non sapendo dove recarsi si infilò nel primo pub malfamato che aveva incontrato lungo la propria via.
Era uno di quei localacci notturni frequentati dalla feccia più infima della città: malviventi, avanzi di galera, drogati. Perlomeno però, quel luogo gli avrebbe consentito di passare inosservato per il resto della notte. Sicuramente sarebbe incappato in guai molto grossi con la polizia. Non appena il biondo entrò nel locale si vide tutti gli occhi puntati addosso e in un certo qual modo dovette ringraziare lo sguardo criminoso che gli veniva rivolto: era pieno di sangue incrostato sulla maglietta ed era sbattuto come un cencio. Si sedette a gambe larghe sullo sgabello sgangherato al fianco del bancone, poi, come in trance, passò in rassegna le molteplici bottiglie di liquore che troneggiavano sulle mensole dietro al Barman. Nell’atmosfera vi era una cappa di fumo denso e un vociare confuso e rauco. Per non parlare del puzzo d’alcol che impregnava addirittura la mobilia dell’intero pub. Si chiese dove diavolo fosse finito.
“Ragazzo, cosa vuoi? Abbiamo finito tutto, purtroppo.” Il Barman si avvicinò al biondo, pur rimanendo dall’altro lato del bancone. Era intento a pulire un bicchierone in vetro con l’ausilio di una pezzuola sudicia. “Ci è rimasto soltanto qualche liquore, qualche acquavite …”
Jake si accese una sigaretta e poi appoggiò un gomito sul piano in legno del bancone, disseminato di piccoli residui di alcol. “Cosa ti è rimasto?”
L’uomo posò quel che stava pulendo e rivolse una rapida occhiata alle sue spalle. “Rum, amari vari, Vodka e Gin.”
“Ecco si, mi dia quest’ultimo. Gin.”
“Non so quanto sia buono se bevuto da solo.”
“Mi dia un bicchiere di Gin. Non fa differenza.”
Rassegnato, il Barman afferrò la bottiglia di Gin e gliene riempì un bel bicchierino traboccante di acquavite forte e trasparente. “Ecco qui.”
Jake osservò il vetro scintillare, poi si sfilò la sigaretta dalle labbra e ne scolò il contenuto in un solo unico sorso.
“Ehi! Ragazzo!” L’uomo che l’aveva servito sorrise. “Vacci piano!”
In effetti il liquore era scivolato giù lungo la sua gola senza alcuna difficoltà, ma doveva ammettere che era parecchio forte. “Me ne dia un altro.”
Ne bevve complessivamente due. Alla fine aveva raggiunto lo scopo di avere il cervello lievemente più sgombro di pensieri e di provare quel senso di leggerezza che solo l’alcol riesce a conferire all’animo umano. Se ne stava per scolare un terzo bicchierino, quando un colpo deciso dietro alla schiena non lo fece letteralmente sputare: parte di quella schifezza gli finì di traverso.
“Ma sei impazzito o cosa, Aniki? Tre bicchieri di Gin, vuoi forse andare all’altro mondo?”
Jake tossì violentemente e strinse gli occhi per poter mettere a fuoco l’uomo che gli si era avvicinato bonariamente: era un omaccione robusto e tarchiato e il suo abbigliamento era  il più strano e bizzarro che avesse mai visto; un completo nero, un paio di occhialoni scuri ed obsoleti e infine un buffo cappello dello stesso colore, che lo faceva rassomigliare ad un gangster degli anni ’30. Il tizio in questione prese posto al suo fianco e ordinò un bicchierino di Rum.
“Sei in missione per conto di Dio, o stai cercando il tuo Elwood Blues per riformare i Blues Brothers?” Jake fece una lunga tirata alla sua sigaretta: che strano incontro.
L’uomo sorrise ampiamente e gli rivolse un’occhiata complice. “Tu hai tutta l’aria di essere un ragazzetto in gamba, vero?”
Il biondo ciccò nel posacenere e sollevò le sopracciglia. “E cosa te lo fa pensare?”
“Beh, quella maglietta sporca di sangue, il tuo chiaro intento autolesionistico di farti del male con del Gin e …”
“Cos’hai contro il Gin?”
“Hai ammazzato qualcuno, Aniki?”
Jake serrò i denti. Per quale motivo quel tipo si arrogava il diritto di chiamarlo ‘fratello’? E come aveva tratto quelle conclusioni così veritiere? Era un poliziotto in borghese?
“Smettila di chiamarmi ‘Aniki’. Non ho ucciso nessuno, io. Piuttosto, cosa sei, un piedipiatti? Se è così, smamma. Mi stanno antipatici gli sbirri.”
“Oh, abbiamo qualcosa in comune allora. Guarda caso stanno antipatici anche al sottoscritto. Comunque piacere, Vodka.” Il bestione al suo fianco, pur essendo seduto e pur essendo molto più basso di lui, lo superava egregiamente per peso e per stazza. Gli tese la mano e Jake gliela strinse.
“Che razza di nome è Vodka?”
“E’ un nome come tanti, ma come nessuno.”
L’uomo completamente vestito di nero si sollevò in piedi con difficoltà, poi assunse l’espressione di colui che vuole congedarsi. “Allora ci si vede, Aniki.”
“Addio, Vodka.” Rispose Jake. Per quale arcano motivo avrebbero dovuto rincontrarsi? Un addio era decisamente più appropriato. Il biondo lo seguì con lo sguardo fin quando non ebbe varcata la soglia, poi, voltato nuovamente il capo nel suo bicchierino di Gin, udì chiaramente la porta richiudersi con un rumore pesante.
 
 
 
 
 
Il giorno seguente, Jake lo trascorse senza sapere effettivamente cosa fare e come comportarsi: la strada era dannatamente pericolosa, in più, le volanti della polizia pullulavano ovunque e c’erano sbirri dappertutto. Dopo essersi immesso in una delle tante stradine di Tokyo, egli si mise a passeggiare con disinvoltura, cercando di non destare sospetti in passanti troppo indiscreti. C’era gente di ogni genere in giro, nonostante i negozi fossero ancora in fase di apertura. Qualche istante più tardi sentì il suo cellulare vibrare nella tasca.
Sul display luminoso vi era un messaggio composto da un paio di righe.
“Ciao Jake, sono Lily. Sono ormai tre giorni che non vieni a scuola, sono preoccupata. Stai bene? Mi manchi.”
Il ragazzo trasse un sospiro seccato e premette il tasto finalizzato all’eliminazione di quell’sms. Nel preciso istante in cui l’indice si spostò per poter poi riporre il cellulare, Jake sentì chiaramente un allarme squarciare il silenzio di quella consueta mattina giapponese: una mattina come tutte le altre, ma che per lui si sarebbe trasformata ben presto nella più entusiasmante avventura che avesse mai vissuto. Da quel momento, la sua vita sarebbe cambiata.
L’aria vibrava con violenza e un tripudio di urla fece scalpitare parte della gente che popolava quella via così apparentemente tranquilla: un flusso caotico e disordinato si riversava fuori dall’edificio a pochi metri da Jake. Il biondo corse fra la folla e sgomitò ulteriormente per aprirsi un varco: fermatosi di fronte all’entrata sollevò il capo in alto: un gigantesco palazzone dalle vetrate scintillanti si ergeva come una colonna verso il cielo.
Quella era senza ombra di dubbio la popolare banca giapponese che la settimana prima era stata presa di mira da una banda di rapinatori.
Il biondo non riuscì a capacitarsi della situazione, poiché si senti disarcionato da un paio di poliziotti armati fino ai denti di grossi fucili d’assalto. “Levati ragazzo! Scappa. Dobbiamo presidiare l’uscita.” Jake li osservò, confuso. Osservò quei due agenti penetrare nell’edificio e richiudersi i portelloni alle loro spalle: una scarica di proiettili si udì distintamente, al punto che la gente riversatasi fuori prese nuovamente a gridare disperatamente.
“Ma che diavolo sta succedendo là dentro?”
 
 
 
All’interno della Banca era il delirio più totale: c’erano cadaveri dappertutto, schizzi di sangue e banconote in terra. Come se non bastasse, alcuni cumuli di macerie erano sparsi ovunque. Il pavimento, un tempo luminoso e sfavillante, era disseminato di vetri e schegge, costellato da microscopici residui di polvere e bossoli esplosi. Ovunque si sentivano raffiche e spari, ma via via sempre più diradati nel tempo e nello spazio.
La banda di malviventi era stata completamente sbaragliata: ne mancavano soltanto due all’appello: la polizia sapeva che altri due soggetti si stavano nascondendo abilmente lì dentro. Come topi. In trappola. Vodka si sentiva esattamente come un topo in trappola.
Schiena appiccicata contro il muro e pistola stretta nella mano destra, l’omone se ne stava silenziosamente e col fiato in gola, in un angolino, in un anfratto, ad aspettare che qualcuno arrivasse. Se quel qualcuno si fosse minimamente avvicinato, avrebbe sparato senza remore.
Sentì alcuni passi leggeri, poi improvvisamente comparvero di fronte a lui un paio di poliziotti: il primo si beccò la pallottola, ma il secondo sparò il suo colpo in direzione dell’uomo vestito di nero, colpendolo ad un braccio e costringendolo inevitabilmente a mollare la salda presa intorno al calcio della pistola. “Dannato sbirro!”
“Finalmente vi abbiamo preso. Ora che vi sbatteremo al fresco finalmente sapremo tutto di voi.” Sembrava essere finita per sempre. Poteva dire addio alla sua brillante carriera di Criminale.
Il poliziotto aveva tutta l’aria di volergli piazzare due belle manette ai polsi, ma non si rese conto che alle sue spalle un’ombra si stagliava nitidamente contro il muro dietro di lui.
“Io l’avevo detto che non sopportavo gli sbirri.” La voce di Jake si diffuse fiocamente in quella porzione della Banca, poi si sentì un forte sparo. La guardia crollò a terra con un foro nei pressi della schiena e Vodka, come animato dal sacro fuoco, schizzò in piedi. “L’uomo del Gin!”
“Fa’ silenzio, Vodka. Ci sono sbirri dappertutto.”
“Si. Si.” Cercò di ricomporsi, nonostante l’entusiasmo. Se lo sentiva. Se lo sentiva che quel ragazzo era un tipo in gamba. Entrambi sgattaiolarono da quel nascondiglio e Vodka serrò la mano alla maglietta di Jake. “Come faremo ad uscire da qui?”
“C’è un’uscita dall’altra parte della Banca. Gli sbirri non l’hanno ancora raggiunta. Consideralo il tuo giorno fortunato.”
“No, ragazzo. Questo è il tuo giorno fortunato.” Jake volse appena il capo: nonostante gli occhi di quell’uomo fossero celati dal solito paio di lenti scure, lesse nel suo sguardo e nella sua espressione, qualcosa di maledettamente misterioso.
“Appena saremo fuori di qui mi dirai quel che hai da dirmi. Ora muoviamoci.”
 
 
 
 
 
Vodka inserì il freno a mano e si fermò proprio nei pressi di una sperduta collinetta. L’automobile che avevano rubato aveva fatto il suo discreto lavoro, anche se si trattava di una vecchia Sedan sgangherata. Il motore era ancora caldo e la carrozzeria rilasciava nell’aria altrettanto bollente, un vapore umido, accompagnato da uno strano scoppiettio.
“Che macchinona. Abbiamo avuto fortuna” Vodka aprì la portiera e uscì dall’abitacolo, dando una pacca sul tettuccio. Anche Jake fece altrettanto: la sua folta chioma bionda venne agitata da una leggerissima sferzata di vento.
Jake giunse proprio sul ciglio dello strapiombo e si accese una sigaretta.
Oltre quella vallata si stendeva a perdifiato l’intero paesaggio cittadino, disseminato di enormi grattacieli e minuscole abitazioni, se confrontati con quei colossi che sfioravano le nuvole.
Era ormai il crepuscolo e al di là della città, il cielo si colorava di rosso cremisi. Finalmente c’era pace e tranquillità, finalmente c’era silenzio.
“Allora Vodka, per quanto tempo dovremo rimanere fuori città?”
L’omone si avvicinò al ragazzo dai lunghi capelli di platino e si infilò le mani in tasca: era stata una giornata decisamente stancante, oltre che piena zeppa di avvenimenti. “Non ne avremo bisogno, Jake.”
“Mi stavi dicendo dell’Organizzazione.”
“Devo ancora parlare con il Boss, ma credo che non ci siano problemi, Aniki. Mi hai salvato la vita.”
“Piantala con questa roba melodrammatica, Vodka. Dimmi piuttosto, ho bisogno di qualcosa di particolare per entrare nell’Organizzazione?” Jake si sfilò la sigaretta dalle sue labbra soltanto per poter buttare fuori una colonna di fumo.
“Un nome in codice. E dei vestiti appropriati.”
“Hai idee per un eventuale nome in codice?”
“Certo. Gin. Quale nome migliore per inaugurare il passaggio dalla vecchia vita alla nuova vita?”
Il cielo era ancora di un rosso intenso e vivido, ma già tendeva a scolorarsi assumendo la pallida colorazione del violaceo bluastro. Il giorno volgeva ormai al termine.
“Gin. Mi piace.” Sottolineò con voce bassa e roca. Anche la sua sigaretta stava lentamente morendo fra le sue labbra. La prese fra l’indice ed il pollice e lasciò che scivolasse giù dal dirupo. “Senti, per quanto riguarda i vestiti, voglio un cappello come il tuo.”
“Oh, questo?” Vodka se lo tastò con entrambe le manone, poi rise. “Effettivamente fa molto Blues Brothers.”
“Avrei un’altra richiesta da farti.” Jake volse il capo verso di lui e lo guardò, così terribilmente serio che anche Vodka dovette assumere un simile contegno.
“Dimmi.”
“Mi piacerebbe avere una Porsche 356A.” Affermò con voce piatta.
“Non credo sarà un problema. Solo che è difficile trovarne ancora qualcuna in circolazione.”
Jake trasse un lungo sospiro. “Andiamocene.” Senza proferire null’altro, il biondo si mosse nuovamente verso la Sedan: oramai il cielo era scuro.
“Ah, Gin!” Vodka lo richiamò. Era strano sentirsi chiamare con quel nome. Era come se lui dovesse rispondere dell’identità di un’altra persona. Jake era davvero morto, dunque?
“C’è un’ultima cosa che voglio dirti.” Vodka si avvicinò all’auto. “Tutti coloro che entrano nell’Organizzazione recidono un filo con la vita che conducevano prima. E per recidere intendo proprio tagliare. Tagliare qualsiasi cosa. Qualsiasi legame, nome o persona che sappia della nostra identità. Se il Boss dovesse scoprire qualcosa che ci lega ancora al passato sarebbe un vero grattacapo da togliersi di dosso.”
“Non c’è problema. Dammi una settimana di tempo e farò il possibile.”
“Va bene. Ti ho soltanto avvisato. Ora andiamocene sul serio, si sta facendo tardi e domani devi essere bello carico per il tuo primo incarico. Domani l’Organizzazione ti mette alla prova, Gin. Vedi di non deludermi.”
“Con chi credi di parlare, eh?” Jake sorrise beffardo, poi si infilò in macchina e nell’istante in cui la portiera metallica emise il suo clangore, egli diede addio a quel panorama, a quell’erba, a quel suolo, a quella vecchia vita, sepolta ormai all’ombra di una collinetta.
Sembrava come se tutto stesse svanendo. Tutto sbiadiva, tutto si scoloriva. Tutto stava inesorabilmente passando dal bianco al nero.
Tutto stava finendo per dare il benvenuto ad un nuovo inizio. 








Salve a tutti, gente, belli e brutti! XD ok, questo angolino fa pietà -.- seriamente... Non mi sto impegnando molto! Ahahahh!!
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto *.* E spero soprattutto di poter continuare a scrivere questo periodo, data l'immensa mole di studio per i test d'ingresso all'Uni :) Spero che possiate essere comprensivi :((( 
Tanto ci sono i soliti 4 gatti (poverelli XD) che mi seguiranno.. o come diceva Manzoni, i miei 24 lettori (erano 24? Comunque faceva il falso modesto.. tsk u.u)
Giiiiiiiiiin *.* Che bastardone! Ahauhuahauahua :)
Fatemi sapere cosa ne pensate, sono troppo curiosa di avere il vostro parere *.*
Un bacino a tutti voi, buone vacanze! Divertitevi :)

Aya_Brea
  
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