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Autore: Alkimia    08/08/2012    2 recensioni
"C'era stato il tempo del dubbio, poi era venuto il tempo della speranza, poi era stata la volta della delusione, della rabbia, e infine della follia.
Erik si chiese cosa rimaneva di un uomo, una volta trascorsa anche la stagione della pazzia."

Anno 1871: non è più Parigi, non è più l'Opera Populaire, niente più angeli o muse, eppure l'uomo che si cela dietro la maschera sa che deve andare avanti, anche se non sa più il perché. Anno 1892: un giovane straniero arriva in Francia, con un vecchio diario da leggere e una storia di cui scoprire i misteri.
E sulle loro vite aleggiano i medesimi fantasmi.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo diciannovesimo
Sotto la polvere


~ Napoli, 09 maggio 1872 ~

Il mare cominciava a riflettere l'incerto riverbero azzurrino delle prime luci dell'alba. C'era poco vento e l'acqua era solo leggermente increspata mentre rifletteva il colore indistinto del cielo che ancora non aveva preso i toni distinti e luminosi del giorno.
Erik ascoltava le onde infrangersi con il loro ritmo cadenzato contro gli scogli, cercava una musica da accordare a quel suono ripetitivo, come se fossero le battute di un metronomo.
In quei due giorni, da quando aveva lasciato l'Araba Fenice dopo aver raccontato la sua storia a Lucia, aveva cercato disperatamente di mettere ordine nei suoi pensieri. Quello che era accaduto gli sembrava simile a una pugnalata sferrata con una lama molto ben affilata che lascia che il bruciore del taglio si propaghi tempo dopo rispetto a quando il colpo è stato inflitto.
Per una parte, Erik trovava giusto quello che era accaduto. Non poteva sfuggire per sempre agli effetti delle sue azioni, era normale che prima o poi sarebbe accaduto qualcosa che gli avrebbe imposto di scontare in qualche modo la sua pena. D'altro canto, la rassegnazione e l'arrendevolezza non erano mai stati atteggiamenti che facevano parte della sua indole: aveva dovuto sopportare troppe cose irrisolvibili per arrendersi a tutti gli altri tiri mancini che il destino gli aveva giocato nel corso della sua esistenza.
Adesso l'uomo si chiedeva cosa fosse giusto fare. E la risposta era sempre la stessa: la cosa giusta è non far nulla.
Per ogni volta che formulava questo pensiero, però, la voce che si agitava nella sua mente lo sfidava, sarcastica e pungente.
Da quando in qua ti interessi di cose giuste, Figlio del Diavolo?
E ogni volta quella voce riusciva ad averla vinta, perché faceva montare dentro di lui quell'antica rabbia, quella furia cieca che lo portava a lottare contro ciò che non era in grado di accettare, con la stolida convinzione che gli fosse dovuto qualcosa di diverso.
La reazione di Lucia lo aveva ferito, annientato. Ma era l'unica reazione plausibile, l'unica che si sarebbe potuto aspettare, l'unica che meritava. Reagire, imporsi, dar voce alla propria rabbia lo avrebbe fatto sentire uno stupido. Certe lezioni sono fatte per essere imparate, certe cicatrici servono da monito, anche se la sua, di cicatrice, continua a sanguinare.
La consapevolezza del dolore che la ragazza gli aveva procurato mandandolo via lo aveva costretto a fare i conti con i propri sentimenti. Gli importava di lei, forse gli era sempre importato, altrimenti l'idea che qualcuno avesse cercato di farle del male non lo avrebbe reso così furioso, altrimenti la sua assenza adesso non avrebbe prodotto un simile eco tanto assordante.
Ma la cosa giusta è non far nulla...  
Era giusto. O forse c'erano altri modi di non arrendersi, di combattere. Ma l'uomo che era stato il Fantasma dell'Opera non aveva conosciuto altri mezzi che il ricatto e l'omicidio.
Oh, torna in te! Fa' ciò che sai fare, va' a prenderti ciò che vuoi...
La voce sibilava nella sua mente, come le spire di un serpente incantatore, mischiandosi ai versi acuti dei gabbiani che volavano spediti incontro all'orizzonte.
Non lo avrebbe fatto, non c'era alcun motivo per farlo. Lui non voleva l'amore di quella ragazza, né voleva che lei soccombesse a lui, non aveva mai cercato di soggiogarla, aveva sempre voluto un rapporto alla pari per provare a se stesso la sua umanità, la sua capacità di essere come tutti gli altri. E ci era riuscito, fino a un certo punto. Non era stato l'uomo a distruggere quell'affetto, era stato il Fantasma, con il suo alito di morte che arrivava da un passato tanto lontano quanto indelebile.
A questo lui non sapeva porre rimedio. Se anche avesse voluto imporre la sua presenza alla ragazza fino a quando lei non si fosse rassegnata, se anche avesse voluto insistere a farsi ricevere da lei in veste di cliente, avrebbe comunque perso quella sorta di complicità, la spontaneità con cui Lucia lo trattava.  
Ho perso. Di nuovo.
Avrebbe dovuto essere dispiaciuto per il grave turbamento che aveva provocato a Lucia, ma in realtà riusciva a pensare solo a ciò che lui aveva perduto. L'unica cosa che poteva fare per lei e per se stesso era lasciarla in pace, per non dover subire di nuovo il peso dello sguardo freddo e distante della ragazza.
La luce del giorno adesso cominciava già a riflettersi sullo specchio d'acqua, facendo luccicare le increspature di bagliori che ferivano la vista.
Erik decise di tornare sui suoi passi e si incamminò verso il teatro.
Si era dato così tanto pensiero nel riflettere su Lucia, nel riportare ordine dentro di sé, che non aveva ancora pensato all'altro aspetto della faccenda: Graziana. Se era stata lei a mandare quegli uomini ad aggredire la ragazza – e non poteva essere altrimenti, dato che Lucia non aveva altri nemici – Erik non avrebbe permesso che una cosa simile restasse impunita. La questione aveva importanza per lui, a prescindere da Lucia. Era stato lui a innescare una tale reazione in Graziana, per quanto gli apparisse folle, e a lui adesso toccava fare giustizia.
Era appena giunto a teatro. Entrò da una porta secondaria e raggiunse i suoi alloggi, immerso nei suoi pensieri. Come danneggiare Graziana senza fare danno al San Carlo e senza mandare a monte quei mesi di lavoro per la rappresentazione della Traviata? Mancavano solo due settimane e non c'era tempo per architettare qualcosa che avesse senso.
Erik osservò il suo riflesso sbiadito contro il vetro di una finestra. Mai come quella mattina si era sentito così vuoto e rassegnato.
Quando era giunto a Napoli e si era risvegliato in quel letto a casa del duca dopo una lunga convalescenza, aveva desiderato di essere morto e si era piegato al destino semplicemente perché non gli importava più di nulla, perché era convinto di aver distrutto tutto ciò che aveva e che non ci sarebbe mai stato un posto nel mondo per lui, che ora che la sua dolce musa era andata via, nessun altro avrebbe potuto provare affetto o pena per quell'angelo dell'inferno.
E poi il destino lo aveva sorpreso, gli aveva mostrato che si sbagliava, che se solo fosse stato disposto ad accettare le regole di quella normalità che aveva sempre rifuggito, il mondo avrebbe potuto accoglierlo, le persone avrebbero potuto, se non amarlo, quanto meno stimarlo. Ma anche così, c'era qualcosa di distorto e manchevole nel suo fato. Erik non voleva tornare ad essere il Fantasma e, allo stesso tempo, non era capace di restare semplicemente un uomo.
I suoi stessi pensieri sembravano sfinirlo. Si chiuse la porta della sua camera alle spalle, poggiandosi contro lo stipite di ciliegio e sospirando stancamente. Quando alzò lo sguardo, si trovò davanti Fede, con in mano le lenzuola che aveva cambiato e che doveva portare a lavare.
La ragazza aveva il viso pallido, segnato dall'accenno di occhiaie di chi aveva passato tutta la notte sveglia. Ebbe un sussulto quando lo vide e immediatamente abbassò la testa per sfuggire al suo sguardo.
«Scusatemi» mormorò come se fosse una supplica. «Io... stamattina ho fatto tardi».
Erik la fissò quasi attonito. Certo che aveva fatto tardi, stava passando le notti a prendersi cura della sorella allettata e, comunque, le tempistiche entro le quali veniva sistemata la sua stanza non gli erano mai sembrate importanti.
«Non devi aver paura di me» le disse a bruciapelo.
«No, io non ho paura di voi» replicò lei immediatamente, per un istante riuscì anche a guardarlo in viso. «Solo che voi...».
«Sì?» Erik la esortò.
«Solo che voi, sembra che riuscite a vedere tutto».
L'uomo fissò la ragazza, un po' stupito da quell'affermazione che non riusciva a comprendere.
«Se anche fosse, non vedo niente di male in te, Fede».
Lei ebbe uno strano sussulto di sorpresa, come se non si aspettasse che lui conoscesse il suo nome, poi accennò persino una specie di timido sorriso. Fece una rapida riverenza, strinse la matassa di lenzuola e coperte e lasciò la stanza mormorando un saluto a mezza voce.
Erik restò qualche secondo in piedi, a fissare il vuoto davanti a sé. L'idea arrivò improvvisa, come un lampo e lui l'accolse con un sorriso di soddisfazione, un sorriso che avrebbe spaventato chiunque si fosse trovato a guardarlo in quel momento. Dopotutto poteva ben definirsi un genio e in quanto tale era assolutamente avvezzo alle illuminazioni.

*

Madame Fantine non sapeva né leggere né scrivere, sapeva a malapena far di conto, ma si era fatta insegnare da Lucia a scrivere e riconoscere i nomi di tutte le ragazze della casa. Lucia forse era convinta che gli servisse per annotare i guadagni di ogni singola prostituta, ma non era solo per quello.
La stanza della maîtresse dell'Araba Fenice era un ambiente angusto e spartano, distante dalle camere dove alloggiavano le ragazze, ricavato da un angolo della cucina che era stato separato dal resto con un muro irregolare.
Nella piccola camera non c'erano finestre, solo un piccolo lucernario rotondo sulla parete di fondo, e ci voleva una bella forza a far girare sui cardini lo sportellino arrugginito. Per il resto, l'arredo consisteva in un armadio tarlato, in una cassapanca e in un letto.
La donna si alzò dal letto cigolante su cui si era stesa a notte fonda, con la faccia ancora impiastricciata dal trucco ridotto ora a una maschera di chiazze rosa. Le faceva male la schiena, ogni mattina un po' di più.
Brutta cosa farsi vecchia, brutta assai...
E come se non bastasse, ci si mettevano di mezzo pure le preoccupazioni. Non pensava che essere la tenutaria di una casa di piacere fosse una cosa semplice, avrebbe dovuto essere meno buona e affezionata alle sue ragazze, forse, ma in quelle ultime settimane sembrava che la malasorte si fosse accanita tutta su di lei e sull'Araba Fenice. Prima il Maestro francese che si fissava con la povera Lucia e adesso l'aggressione a quella disgraziata di Speranza. E lei si sentiva in dovere di trovare una collocazione alla piccirella, perché non ce la faceva a buttarla in mezzo alla strada, non aveva mai buttato fuori nessuno. Forse poteva usarla come cameriera, o chissà se la ragazza sapeva cucinare... non era quella più sveglia e intelligente, questo era sicuro, ma qualche soluzione si sarebbe trovata. Certo, non avrebbe più guadagnato bene come prima, ma almeno non sarebbe morta di fame.  
Premendosi una mano all'altezza dei reni, Madame Fantine raggiunse la cassapanca e alzò il coperchio, tirò fuori un vestito dismesso e rattoppato che portava durante la giornata per stare più comoda. Gettò l'abito sul letto e restò qualche secondo a fissare i fogli appuntati sulla parte interna del coperchio di legno: pagine di calendario con i nomi delle ragazze scritti nella sua calligrafia imprecisa, e forse pure scritti con qualche lettera messa male. Avrebbe dovuto far controllare a Lucia, ma non voleva che lei sapesse dove teneva il suo calendario dove segnava le date delle regole delle sue ragazze. Se qualcuna rimaneva incinta, lei voleva saperlo prima e comunque, voleva essere certa che a nessuna di loro venisse in testa l'idea di tenerglielo nascosto; quello del calendario era un trucco che tutte quelle come lei usavano.
Era capitato in passato che qualche ragazza rimanesse incinta. Era sempre impossibile stabilire chi era il padre e se anche si fosse saputo, il padre in questione probabilmente se ne sarebbe del tutto disinteressato.
Madame Fantine era indulgente su un sacco di cose, ma non sull'idea di tenere bambini in quella casa. Allo stesso tempo però, quelli che usavano i ferri per tirare via i bambini dalla pancia delle donne le facevano orrore, l'idea di strappare via una creatura dal grembo di sua madre come si sradica un'erbaccia dall'orto le sembrava mostruoso e impossibile da tollerare. I bambini malauguratamente concepiti tra quelle mura erano venuti tutti alla luce, le ragazze che li avevano partoriti erano state curate e coccolate per tutto il tempo della gravidanza e della convalescenza. L'orfanotrofio di Pompei era pieno di creature nate in un letto dell'Araba Fenice. Essere orfano o a essere figlio di una puttana non è che facesse molta differenza, comunque. Madame Fantine era solo contenta di non avere sulla coscienza nessuno di quegli affarini innocenti, per il resto doveva pensare in termini pratici perché la fame era una brutta cosa ed evitare la fame a se stessa e alle ragazze era la sua principale occupazione.
La donna scorse i fogli del calendario e i nomi annotati tra le righe.
«Carla il 2 del mese, Annarella e Giovanna il 4... tutto a posto» mormorò, elencando nomi e date come se stesse recitando un rosario. «Tina la prossima settimana. Lucia...».
Di Lucia da un po' di tempo a questa parte aveva smesso di avere pensiero, ma aveva continuato ad annotare il suo nome sul calendario per semplice abitudine. E aveva fatto bene, visto che poi era arrivato il Maestro francese... era arrivato e se n'era pure andato, o almeno questo era quello che Madame Fantine aveva sospettato. La ragazza non gli aveva detto niente, ma doveva essere successo qualcosa di cui lei non voleva parlare; la sera dopo la sua ultima visita il Maestro non era tornato.
«Lucia a giorni» disse, e poi passò oltre, continuando a scorrere la lista di nomi.
Alla fine richiuse il coperchio con un sospiro e si decise a vestirsi.
Mentre si abbottonava l'abito, Madame Fantine si ritrovò a pensare, come era capitato altre volte, a cosa sarebbe successo se fosse stata Lucia a rimanere in attesa di un figlio. La donna era certa che lei non lo avrebbe messo al mondo e poi lasciato in un orfanotrofio, a costo di tornare a fare la sarta sull'isola dalla quale era venuta. Lucia era diversa dalle altre ragazze, questo Madame Fantine lo aveva sempre saputo, e in tutto quel tempo non aveva capito se la cosa dovesse essere motivo di orgoglio o di ulteriore preoccupazione.

*

Cecilia stava parlando con delle ballerine quando gli si avvicinò l'inserviente, quella ragazzetta piccola e minuta che sembrava aver paura della sua stessa ombra. La ragazza le porse un biglietto, la salutò timidamente e si dileguò.
Il foglio di spessa carta era piegato a metà, lei lo aprì e quasi le venne un infarto quando lesse la singola riga annotata in una calligrafia elegante ma frettolosa.

Signorina,
vi prego di recarvi nel mio ufficio appena vi è possibile.
Erik.

Erik. Certo, il vero nome del Maestro che nessuno osava mai pronunciare, come se il solo dirlo lo rendesse più umano e meno straordinario.
Era stata molto contenta di essere riuscita a incontrarlo un paio di sere prima. E non le era parso affatto così permeato di elegante fascino come sembrava dai racconti dei musicisti dell'orchestra con i quali spesso parlava. Naturalmente, era tanto elegante quanto affascinante, ma c'era qualcosa in lui, una certa impacciata rigidità che lo faceva sembrare quasi buffo, se non fosse stato per quegli occhi gelidi che non si accaloravano minimamente nemmeno quando accennava un sorriso o provava a dire qualcosa di cortese. Ma aveva sentito dire cose straordinarie su di lui e tanto le era bastato per incuriosirla, tra l'altro, doveva ammettere con se stessa che le aveva provocato una strana infantile emozione incontrarlo faccia a faccia. E adesso essere stata convocata da lui la rendeva euforica oltre ogni misura.
La richiesta in quel biglietto suonava tanto come un ordine che non ammetteva repliche e Cecilia era certa che quel «appena vi è possibile» significasse in realtà «prima di subito», ma non le importava. Lasciò le ballerine ai loro pettegolezzi e si diresse di gran carriera verso l'ufficio del Maestro francese.
Non sapeva cosa aspettarsi da quell'incontro. Cecilia si era iscritta al conservatorio e aveva completato gli studi con buoni voti; era entrata al San Carlo con la raccomandazione di uno dei suoi insegnati ma era sempre rimasta relegata al ruolo di sostituta, così minuta e priva di fascino non aveva mai mostrato le doti necessarie per calcare la scena come si conviene a un artista di un teatro tanto importante, anche se quando cantava tutti restavano ammirati dalla sua voce, così potente per una donnina tanto piccola.  
La giovane donna prese un paio di lunghi respiri quando giunse davanti alla porta chiusa, sperando di non avere l'aria di una che si era precipitata di corsa. In un gesto istintivo, si tastò i capelli raccolti in due trecce sollevate sulla nuca, per sincerarsi che fossero a posto, ma i suoi dannati capelli non erano mai abbastanza in ordine. Solo dopo qualche secondo si decise a bussare e attese educatamente il permesso di entrare.
Il Maestro, Erik, era seduto dietro la sua scrivania. C'era un pittoresco disordine di fogli male impilati in un angolo dell'elegante piano di legno e sulla superficie liscia e lucida spuntavano di tanto in tanto, come funghi in un prato, dei fogli appallottolati e lasciati lì. Su una mensola, cecilia notò anche una scatola di legno aperta con uno strano ingranaggio che sembrava tanto essere il meccanismo interno di un carillon. Tutto si poteva dire di quell'uomo tranne che non fosse assolutamente singolare, e la mezza maschera bianca che si ostinava a portare non era nemmeno il particolare più bizzarro.
«Buon giorno, signorina Mauriello. Sedete, prego» la invitò l'uomo, indicandole con un cenno la sedia libera davanti alla scrivania. Lei obbedì e lo guardò in attesa che le dicesse il motivo di quell'inaspettata convocazione.
Ora sì che sembrava davvero misterioso e affascinante. Forse era capace di rendersi tale solo quando sceglieva lui il come e il quando di un incontro oppure solo nei momenti in cui poteva esercitare la sua autorità su chi gli era sottoposto, come in quel caso.
Sei un prepotente, eh, Erik?
«Innanzitutto devo porvi le mie scuse» esordì l'uomo, con un tono di infinita squisitezza che fu capace di confondere la ragazza.
«Le... vostre scuse, Maestro?» domandò lei, titubante.
«Sì. In tutto questo tempo non vi ho dato la giusta considerazione, ed è stato molto scortese da parte mia, oltre che negligente da un punto di vista professionale»
«Maestro, sono solo una sostituta...»
«Togliete quel solo. Non vi ho mai chiamata per le prove, scioccamente non ho preso in considerazione la possibilità che la signorina Rovesti potesse non essere in grado di cantare la sera della prima»
«Da che ricordo, la signorina Rovesti non è mai mancata a un evento importante»
«Non vuol dire che ciò non possa accadere» replicò Erik con una punta di durezza. Non gli piaceva essere contraddetto, dietro la sua maschera di perfetta cortesia doveva celarsi una persona molto impaziente e forse anche assai brusca, ma la sua voce aveva qualcosa di strano, Cecilia si convinse subito che lui avrebbe convinto la Terra a girare al contrario solo con il giusto tono di voce.
«Vorrei provare con voi» aggiunse il Maestro.
La donna aggrottò le sopracciglia,
«Mi fa molto piacere, ma devo farvi notare che mancano meno di due settimane alla sera della prima» gli disse in tono pratico.
«Siete così poco dotata che un paio di settimane non basterebbero?» la provocò lui, diretto e perentorio. «Sono certo che non è così. Non voglio lasciare nulla al caso, non voglio andare alla cieca nell'eventualità in cui la signorina Rovesti dovesse avere dei problemi la sera della prima».
La Rovesti salirebbe sul palco anche moribonda piuttosto che farsi sostituire!
Cecilia dovette fare un grande sforzo per non scoppiare a ridere,
«Voi avete carta bianca e tutto il teatro è al vostro servizio» asserì. «Se voi volete provare con me, io sarò ben lieta di accontentarvi, ma posso esprimere la mia opinione?»
«Prego. Anche perché credo che la esprimereste comunque»
«È inutile, e quando la signorina Rovesti lo saprà si farà venire una crisi di nervi e voi non avrete altro che tanta tensione tra la compagnia».
Erik si lasciò cadere con le spalle contro lo schienale della sua poltrona. All'improvviso sorrise, anche se non era un vero e proprio sorriso, era una smorfia tirata che sembrava quasi minacciosa. Mosse la mano in un gesto di disinteresse, con la stessa grazia di un felino che si prepara ad attaccare una preda.
«La signorina Rovesti non lo saprà. Voi e io proveremo quando gli altri saranno andati via» concluse, tranquillo. «Cominceremo oggi stesso»
«Sembra una congiura»
«Forse lo è. Buona giornata, signorina Mauriello».
Cecilia restò impietrita a fissare l'uomo sbattendo ritmicamente le palpebre. Si alzò goffamente, tanto il suo atteggiamento l'aveva spiazzata, e lasciò la stanza mormorando un saluto in modo così confusionario che quasi sembrò che la lingua le si fosse annodata contro il palato.
Uscì dall'ufficio e si appoggiò con le spalle contro il muro dell'anticamera.
Non sapeva cosa il Maestro francese stesse tramando, ma era quasi del tutto certa che la cosa aveva a che fare con lei che cantava ne La Traviata al posto di Graziana Rovesti la sera della prima.  

*******

~ Parigi, 20 maggio 1892 ~

Il visconte De Chagny sembrava davvero amareggiato a causa di quell'impegno imprevisto che lo aveva costretto a partire quella mattina, qualcosa che aveva a che fare con dei possedimenti di famiglia in Normandia. Si era sporto fuori dal finestrino quasi con tutto il busto, per chinarsi verso Gustave e dirgli: «Mi raccomando, prenditi cura di tua madre», poi aveva dato a suo figlio un affettuoso scappellotto in mezzo alla testa ed era partito.
Gustave sembrava compiaciuto; non che trovasse niente di piacevole nel fatto che sua madre fosse stata poco bene, ma se non fosse stato per quella eventualità, suo padre lo avrebbe trascinato con sé ad occuparsi di qualcosa che, a detta del giovane biondo, doveva essere molto noioso.
Louis non aveva idea di cosa volesse dire avere dei possedimenti di famiglia a centinaia di chilometri da casa. Il lavoro di suo padre gli aveva permesso una vita agiata e di certo non poteva dire di aver provato sulla sua pelle la miseria, però ne aveva vista tanta, di miseria, nel suo paese. Una miseria contro la quale nessuno aveva ancora mai alzato un dito, nemmeno quell'Italia per cui le generazioni prima di lui avevano dato la vita, il sudore e il sangue.
Ma non era quello il momento di indugiare in simili riflessioni. Louis era del tutto intenzionato ad aiutare Gustave a prendersi cura di sua madre, se c'era qualcosa in cui loro due potevano essere d'aiuto a madame De Chagny, dato che ancora si sentiva in colpa per quello che era successo durante la festa di compleanno del suo amico.
Christine salutò Raoul con la tenerezza malinconia di una moglie ancora molto innamorata, che al solo pensiero della partenza già sente la nostalgia del marito. Restò a guardare la carrozza allontanarsi lungo il viale alberato e poi si voltò e rientrò in casa con l'aria di qualcuno che sta pensando a qualcosa di macchinoso da attuare.
«Mi è venuta un'idea!» esclamò all'improvviso, battendo le mani con l'aria entusiasta di una bambina e guardando i due ragazzi che si erano seduti su un sofà.
«Madre?» domandò Gustave un po' perplesso.
Forse Christine voleva semplicemente tenersi impegnata per non pensare alla mancanza del visconte.
«Era da tempo che volevo sistemare la soffitta, ora che ho del tempo a disposizione e posso contare sull'aiuto di due giovanotti, credo proprio che ne approfitterò, se a Louis non dispiace»
«Ma voi dovete riposare, madre!» protestò il giovane De Chagny. «La soffitta possono pulirla i domestici»
«No! I ricordi sono nostri, tocca a noi fare ordine. È una lezione che dovresti ricordare, Gustave» lo rimbeccò lei, voltandosi con una specie di piroetta che fece disegnare un cerchio perfetto alla sua gonna di raso. Rise e la sua risata sembrò quella di una bambina.
Louis restò a fissarla mentre si avviava verso le scale. Era perplesso, c'era una strana vitalità che animava lo sguardo della donna, una specie di euforia propria di chi ha tra le mani qualcosa di nuovo con cui cimentarsi o di chi sta per partire per una qualche straordinaria avventura.
«Beh, magari sarà divertente» disse alla fine il ragazzo, dando una gomitata al suo amico.
Gustave si arrese con un sospiro e insieme a Louis seguì sua madre fino in soffitta.

La soffitta della casa seguiva il perimetro del corpo centrale della villa, era un'enorme stanza quadrata con sottili lucernari, ingombra di scatoli e vecchi mobili coperti ci polvere.
Louis si tolse la giacca e la appese a un gancio, al riparo dalla fuliggine.
«Cosa ne dite, amico mio?» domandò Christine, guardandolo con un mezzo sorriso.
«Che sarà un lungo lavoro»
«Avete forse altri impegni?».
Il giovane sorrise, se anche ne avesse avuti, vi avrebbe rinunciato più che volentieri.
«No, Christine» concluse.
La donna cominciò ad aprire elle scatole dalle quali estrasse una serie di statuine di porcellana avvolte dentro a degli stracci perché non urtassero tra loro. Le depose una ad una sulla superficie di un vecchio tavolino tarlato che era addossato al muro. Il risultato fu che in dieci minuti c'era una fila di orribili pastorelli, donnine e madonne di porcellana allineate sotto ai loro occhi.
«Queste immagino fossero della nonna» borbottò Gustave, guardandole con una smorfia.
«Non so nemmeno perché le ho tirate fuori da quello scatolo» commentò Christine scuotendo il capo. «Potremmo portarle da un qualche rigattiere. Ah, ma cosa abbiamo qui?».
Christine si diresse verso l'angolo più remoto della stanza, dove il soffitto si inclinava e lei era costretta a procedere curva.
«Oh, no, Dio Onnipotente, ti prego...» bofonchiò Gustave riconoscendo l'oggetto che sua madre stava faticosamente trascinando verso il centro della soffitta.
I due ragazzi si affrettarono a darle una mano, sporcandosi le dita di polvere e inalando l'aria viziata che c'era nella stanza.
A Louis venne in mente di quando lui e Gustave erano stati a visitare il teatro dell'Opera. Anche lì aveva respirato quell'aria polverosa e stagnante, ma ogni angolo di quel posto gridava malinconia – e forse qualcosa di ancora più drammatico. E scendendo le scale non si andava verso la luce, verso una casa abitata da una famiglia felice, ma verso un luogo fatto di buio, dove un'anima era rimasta a patire la solitudine, perché Louis era convinto che in quei sotterranei fosse davvero vissuto qualcuno.
L'oggetto che madame De Chagny aveva scelto di ispezionare era una culla. Una culla con il dondolo verniciata di bianco, tenuta al riparo dalla polvere grazie a un telo grezzo.
«Oh, che tenerezza» esclamò Louis canzonatorio, battendo una mano sulla schiena di Gustave. In realtà si stava chiedendo se a casa sua, nella soffitta, sua madre avesse conservato la sua culla.
«Non capisco la necessità di conservare una cosa simile, è ingombrante» borbottò il ragazzo biondo.
Sua madre lo guardò scuotendo la testa,
«Un giorno, se Dio vorrà concederti la benedizione dei figli, forse capirai» sospirò.
Dentro la culla, sopra al materasso leggermente ingiallito dal tempo, erano sistemate due scatole che Christine tirò fuori, intenzionata ad esaminarne il contenuto.
Da una scatola uscirono fuori delle biglie di vetro colorato e una cartellina piena di fogli. Louis fece per prenderla, ma l'amico gliela strappò di mano e si avvicinò a uno dei lucernari, sfruttando la poca luce che filtrava dai vetri impolverati per esaminare il contenuto della cartellina, sicuramente i suoi primi disegni da bambino. Louis lo lasciò a scorrere quei fogli, osservando per qualche secondo la sua aria assorta, senza capire se fosse emozionato, divertito o disgustato da quello che vedeva. Piuttosto, lui aiutò Christine a sollevare l'altra scatola che era molto più pesante. La donna gli fece cenno di posarla sul ripiano di un vecchio comò e l'aprì, tirando fuori un carillon con sopra un pupazzo a forma di animale piuttosto irriconoscibile, non si capiva se era una pessima imitazione di uno scoiattolo o una mancata riproduzione di un cane.
Louis osservò perplesso lo strano oggetto mentre Christine lo puliva alla buona con le dita.
«Ne ho visti di migliori» gli disse lei all'improvviso. «Fatti meglio, con molta più cura per i particolari». Poi diede la carica e il carillon cominciò a suonare un motivo di Mozart, mentre l'animale muoveva meccanicamente le zampe anteriori su e giù.
«Anche io ne ho visti di migliori. Ne avevo uno che mi aveva costruito mio padre, era veramente ben fatto»
«Vostro padre sapeva costruire carillon? Ma mi avevate detto che era un musicista». La voce di Christine aveva un tono allegro, leggero, ma i suoi occhi sembravano molto seri e concentrati su quello che lui stava per dire.
«Era un musicista, ma sapeva costruire un sacco di cose, credo che sarebbe stato in grado di costruire anche una città se fosse stato necessario» rispose il ragazzo, scuotendo la testa con un mezzo sorriso. Gli piaceva ricordare le cose migliori di lui.
«Che uomo era? Gli somigliate?»
«Oh, è una buffa domanda, sapete. Era un uomo complicato, come tutti gli artisti immagino. Mia madre dice che gli somiglio solo nelle cose migliori... e nella testardaggine»
«Un testardo, certo...».
Lo sguardo di Christine si fece cupo e lontano. Nelle sue parole c'era qualcosa che pesava e di colpo Louis si sentì turbato.
«Avete dimestichezza con i testardi?» le chiese, con aria ironica, cercando di alleggerire quella strana tensione che di colpo era caduta su di loro.
«Ne ho conosciuto uno, diciamo così...» mormorò lei, senza ricambiare il sorriso del suo giovane interlocutore, ma poi si riscosse all'improvviso e il suo sguardo tornò sereno. «Mi stavate dicendo di vostro padre. Era felice?».
Louis aggrottò le sopracciglia e strinse le labbra. Era una domanda strana, insolita e di colpo anche lui si sentì cupo
«Mi piace pensare che io e mia madre gli bastassimo. Aveva parecchi dispiaceri da dimenticare e voglio credere che ci sia riuscito prima di morire».
Christine sorrise, non era un sorriso allegro, era più che altro malinconico e tenero allo stesso tempo, e fece sentire a Louis un colpo al cuore.
«Sono sicura che nessuno può avere un figlio come voi ed essere infelice» concluse la donna.

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Da oggi sono più o meno in vacanza e non avendo altri capitoli pronti non sono sicura che riuscirò ad aggiornare entro una settimana (ma ciò on toglie che ci proverò). Se non ci leggiamo mercoledì prossimo vi prometto comunque che non vi farò aspettare secoli per l'aggiornamento ^^
La lista dei motivi per cui voglio concludere la stesura di questa fanfiction si va infittendo, quindi non mancherò di provvedere.

Your obidient servant.
   
 
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