Disclaimer: i personaggi
appartengono a Fujimaki Tadatoshi.
La canzone da cui la raccolta prende il titolo e le citazioni su cui è basata,
è “What if” dei SafetySuit.
Note: ho semplicemente sentito la
canzone, e non ho potuto fare a meno di dirmi “è AoKise,
dannazione”.
Sei citazioni prese dal testo della canzone, per sei flashfic
– se il dono della sintesi mi assiste.
Sei momenti differenti, dai tempi delle medie a quelli del liceo.
E che Dio me la mandi buona (?).
Dedica: l’intera raccolta non può
che essere dedicata a LitaChan (Ahomine
<3), perché è stata minacciata di soffrire come un vitello con questa cosa e
io mantengo le minacce <3
Che
importa se ti poni delle domande
in ogni momento in cui non riesci a vedere?
La cosa che lo aveva innervosito, all’inizio non l’aveva
affatto inquadrata; per la verità era il fatto stesso che ci fosse qualcosa, ad
irritarlo: non era facile, quando ti abituavi ad una squadra che non era
squadra, o che – per meglio dire – smetteva di esserlo quanto tu imparavi
troppo in fretta, quando la prendevano sul personale, come se tu li stessi
lasciando indietro di proposito.
Non era facile, ecco, passare da quello ad una squadra sì con le sue stranezze –
c’erano cose della Teiko che ancora proprio non capiva e che forse non avrebbe
capito mai – ma in cui si potesse comunque formare un legame simile.
Uno in cui un titolare e uno partito come riserva di una riserva (perché quello
eri, nella terza squadra) riuscivano ad essere così diversi e così uniti; a
pensarla in maniera tanto diversa, eppure ad avere una simile sintonia in uno
sport.
E non lo capiva bene, Kise, quale fosse il problema: gli piaceva Kuroko, lo
rispettava come giocatore nel momento in cui aveva iniziato a capire il suo
basket, e non è che non avesse un legame – a sua volta – sia con lui che con Aomine… eppure c’erano momenti, fuori dal campo ma
soprattutto dentro, in cui li osservavi e non potevi fare a meno di notarlo.
Quel qualcosa a cui non sapeva dare un nome, qualcosa che si vedeva e non si
vedeva – come Kuroko, ironico no? –, qualcosa di cui lo stesso Aomine non
sembrava essere cosciente.
Era più della complicità, era più della semplice ma perfetta intesa di due
compagni di squadra; pugno contro pugno, era un gesto abituale per due
sportivi, ma ai suoi occhi fra loro sembrava diverso, era diverso.
E quando, finalmente, vinto dalla curiosità, dall’irritazione latente e
immotivata aveva chiesto ad Aomine, il moro l’aveva guardato con quel modo di
fare tipico di lui: un’espressione tra il confuso e il divertito, il sorrisetto
di un ragazzino troppo preso da un pallone da basket per perdere tempo con cose
noiose e “da grandi” come pensare; non aveva mai risposto, e forse non aveva
mai nemmeno capito davvero cosa Kise gli aveva chiesto.
È perché è il mio modello, si era
detto, è perché voglio raggiungerlo.
La spiegazione che si era dato era che si trattava della gelosia infantile
che si poteva avere per una persona che si stimava e che, in qualche modo,
sentivi ti privava dell’attenzione che avresti voluto ricevere da lei; e,
automaticamente, la persona che gli stava più vicina finiva per essere il tuo
personale capro espiatorio. Vedevi cose che non c’erano, e quelle che non
vedevi, diventavano enormi, fragili castelli in aria.
Non importava quante volte aveva distolto lo sguardo, quante volte nella sua
mente aveva ripetuto che non c’era proprio nulla, da notare o da spiegarsi.
Ma quel qualcosa – nulla che avrebbe potuto indicare, nulla che si vedesse –
aveva continuato a stare lì, annidata nella sua testa, e ci restava, senza
tregua; e aspettava, aspettava, lo consumava.
Dentro.