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Autore: piuma_rosaEbianca    11/08/2012    5 recensioni
Prima che tutto iniziasse. Cosa può esserci stato dietro quella rischiosa avventura nata quasi per gioco, che adesso chiamiamo Arctic Monkeys.
Un arrivo che sorprenderà tutti, e cambierà abitudini e routine in quel di High Green.
Due ragazzine e una band che inizia a formarsi.
Un teen drama all'inglese, con un'ottima colonna sonora.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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TS - The antiseptic to the sore. Buonasera.
Vi do il benvenuto all'inizio di questa follia.
In collaborazione con Bi_Lu, santissima ragazza che sopporta, non so come, i miei scleri e tutti i miei problemi mentali.
Credo che mi sgozzerà prima della fine di questo progetto, ma vabbè. Ti voglio bene, Cogh. ♥
Questa storia comincia nell'estate del 2000, prima dell'inizio di tutto quello che noi conosciamo ora come Arctic Monkeys.
Non vi tolgo altro tempo alla lettura, riservo ulteriori note e spiegazioni alla fine.

Buona lettura.
~

Guardavo la pista mentre l'aereo decollava, e mi sentivo straordinariamente calma.
Ignoravo deliberatamente la hostess a cui ero stata affidata e fissavo l'asfalto allontanarsi velocemente e l'orizzonte incurvarsi.
Non pensavo a niente se non che finalmente me ne andavo.
Non avevo pianto salutando i pochi legami che avevo, non avevo risposto all'abbraccio di mio padre, non avevo detto niente da quando mi avevano dato la notizia.
Solo un abbraccio alla mia migliore amica, l'unico contatto che avrei mantenuto, ed ero partita senza ripensamenti.
Non sapevo dove stavo andando, non conoscevo le persone che mi avrebbero ospitato e non avevo idea di quanto sarei dovuta rimanere lì.
L'unica certezza che mi dava conforto era che le cose sarebbero cambiate sicuramente in meglio, perché niente poteva essere paragonato all'ultimo anno di agonia passato con quell'uomo che ormai facevo fatica a riconoscere come mio padre.
Rimasi in silenzio per quelle due ore e mezza, senza staccare gli occhi dal finestrino, senza mangiare né bere, e cercando di non pensare a niente, di non immaginarmi niente.
Rannicchiata sullo spazioso sedile, la fronte appoggiata allo spesso vetro del finestrino, ascoltavo la musica a tutto volume dal mio lettore CD portatile e pensavo che la musica era tutto quello che mi rimaneva di buono. L'unica eredità concreta lasciatami dai miei genitori.
Quando l'aereo atterrò sentii distintamente un peso sollevarsi dal mio petto.
Scesi di corsa, neanche sentendo le grida della hostess attraverso le cuffie, e respirai a pieni polmoni quell'aria nuova.
I primi istanti della mia nuova vita sapevano di pioggia, erba tagliata e benzina.
In una scena che sembrava da film mi fermai in mezzo alla gente, ridendo e sorridendo al cielo coperto, aspettando che la hostess venisse a riprendermi.
La seguii distrattamente, giocando con il manico del mio bagaglio a mano, guardandomi intorno come una che è vissuta sotto terra e dopo anni vede finalmente la luce del sole.
Un sacco di persone mi passavano accanto senza neanche vedermi, un sacco di vita mi scorreva vicino senza neanche minimamente sfiorarmi.
Erano ormai più di cinque ore che nessuno mi chiedeva come mi sentissi, cosa stessi provando, ed era semplicemente magnifico per me, avendo passato gli ultimi mesi fra psicologi e assistenti sociali preoccupati.
Andammo a recuperare le mie due enormi valige e poi, all'uscita, fui affidata a un autista silenzioso con un cartello in mano che riportava il mio cognome in maiuscolo.
Mi aspettavo una limousine, o almeno una costosa macchina dai finestrini oscurati, ma fuori dall'aeroporto c'era solo un grosso autobus già pieno di persone, diretto, a quando diceva un cartello, verso “Sheffield, South Yorkshire, England”.
L'autista caricò i miei bagagli sull'autobus e mi fece salire, obbligandomi a sedermi nel piccolo, scomodo sedile reclinabile accanto alla porta.
Per tenermi d'occhio, disse.
Annuii sistemandomi alla meno peggio e guardando la strada.
Per l'ora e i dieci minuti seguenti non pensai assolutamente a niente, se non a quanti alberi ci fossero là intorno.
Quando l'autobus si fermò dovetti aspettare che fossero scesi tutti e che tutti avessero preso i loro bagagli, prima di scendere e recuperare i miei.
Qui l'autista mi disse semplicemente come uscire dalla stazione. Poi ritornò sull'autobus e ripartì.
Mi diressi lentamente verso il grande varco a mattoni dietro al quale si spalancava Sheffield, enorme, viva, bellissima.
Il cielo era coperto di nuvole scure, probabilmente sarebbe iniziato a piovere entro poco, ma sapevo che lì era normale e sorrisi come si fa di solito al cielo nelle belle giornate.
Amai da subito quel cielo, segno distintivo della mia nuova terra, della mia nuova vita.
Abbassai lo sguardo sulla strada, perdendomi un attimo fra autobus, taxi e macchine sfreccianti, e vidi un altro cartello con il mio cognome sopra, sorretto da una donna sorridente appoggiata a una Ford.
Iniziai ad avvicinarmi, e non appena capirono che Cassandra Allen ero io un uomo mi venne incontro per aiutarmi con le valige.
Mentre le caricava nel bagagliaio della macchina, la moglie si presentò.
Mary Cook, felicissima di conoscermi, era una donna piuttosto bassa, magrolina, con capelli lisci e lunghi castano chiaro, tenuti indietro da un sobrio cerchietto nero, e occhi piccoli e azzurri.
Io sorrisi appena rispondendo timidamente al suo abbraccio, senza proferire parola.
Il signor Cook era un uomo più riservato della moglie. Alto, spalle larghe, con folti capelli biondi e occhi verdi dallo sguardo intelligente, mi strinse la mano guardandomi da sopra gli occhiali e abbozzò un sorriso, dicendo di chiamarsi Tony e che vedermi di persona, finalmente, era davvero un piacere.
Con lui non mi premurai neanche di sorridere: mi limitai a stringergli la mano con ostentata sicurezza e non rompere il contatto visivo prima che lo facesse lui.
Pensai che forse era sbagliato dimostrarmi così fredda con quelle persone che mi avevano accolto con tanta gentilezza, ma per quel primo giorno potevo avere la scusa del trauma della partenza e della stanchezza del viaggio.
Avevo tempo per sciogliermi, per il momento potevo rimanere in silenzio appoggiata al finestrino, guardando il frenetico centro della città sparire velocemente per cedere il passo alla più tranquilla periferia.
High Green, come scoprii dopo che si chiamava il posto in cui avrei vissuto, unita a Chapeltown, risultava un complesso intricato di vie,e sembrava quasi una città separata da Sheffield. Circondata da campi e boschi, neanche collegata con un autobus a Sheffield, era il posto ideale dove rifugiarsi per crescere dei bambini lontani dal caos della metropoli.
La macchina si fermò al 6 di Renshaw Close.
Appena scesa notai la diversità da Sheffield.
La strada era completamente libera dal traffico, l'aria aveva un odore molto più pulito, e, a quell'ora del pomeriggio, c'era quasi totale silenzio.
Il signor Cook scaricò le mie valige e le trascinò verso casa.
Io, tenendo il mio bagaglio a mano, restai fuori un altro po' per guardarmi intorno.
La casa, identica a tutte quelle di tutta la via, era bianca, bassa e ben curata.
Il prato era stato tagliato recentemente, e le peonie che sbocciavano tutte intorno al basso portico erano chiaramente fiori a cui qualcuno, probabilmente la signora Cook, doveva tenere molto, per come erano tenute.
La bassa siepe di gelsomino che correva tutta intorno alla casa era fiorita ed emanava un profumo fortissimo che dava alla testa, e i fiori bianchi si mescolavano alla ghiaia chiara del vialetto.
Mentre il signor Cook parcheggiava la macchina dentro il garage, posto sulla destra della casa, notai che nel giardino dell'abitazione accanto c'era un ragazzo seduto su una sdraio.
Mi avvicinai cautamente, come se fosse un animale feroce di cui non volevo richiamare l'attenzione.
Era davvero piccolo, pallido, sembrava quasi malaticcio rannicchiato su quella sedia di plastica verde.
Aveva i capelli scuri, tenuti un po' lunghi, schiacciati sulla fronte, e un'ombra strana negli occhi.
Portava delle enormi cuffie calate sulle orecchie, e fra le pieghe di un bianco, informe maglione si notava un lettore CD identico al mio.
Fra le mano si rigirava un disco che riconobbi come (What's the Story) Morning Glory? degli Oasis, e cantava sottovoce Wonderwall, seguendone il testo sul booklet dell'album.
Sentii un vago sorriso prendere forma sulle mie labbra, e senza neanche accorgermene mi ritrovai a cantarla anche io, a memoria.
Forse cantavo a voce un po' troppo alta, perché il ragazzo se ne accorse.
Alzò lo sguardo su di me, e mi guardò strizzando gli occhi, forse per capire chi fossi, o magari per intimidirmi, non l'ho mai capito.
Non mi mossi, paralizzata dall'ansia. Quello strano ragazzo mi metteva decisamente paura. In più, tutti i ragazzi che conoscevo erano tutti cattivi e violenti, capaci di picchiarti anche solo perché li stavi guardando.
Alla prima occhiata, mentre quello si toglieva le cuffie, si alzava, lasciando il lettore sulla sdraio, e avvicinandosi lentamente, pensai che anche lui fosse un tipo del genere.
Ma non appena fu abbastanza vicino per vedermi bene sgranò gli occhi dalla sorpresa, e un sorriso dolcissimo gli si allargò sulle labbra.
-Tu sei Cassandra!-, disse con voce stranamente profonda per il suo aspetto tanto fragile.
Annuii, combattuta fra l'istintivo timore e l'improvvisa tenerezza che quel ragazzo mi suscitava.
-Io sono Alex, piacere.-, disse tendendomi la mano e sorridendo ancora.
-Piacere.-, mormorai con voce roca, stringendogli la mano.
Era la prima parola che dicevo da ore.
-Benvenuta ad High Green.-, disse poi in un italiano stentato che mi fece sorridere.
Era il primo vero sorriso che facevo da mesi.
Doveva essersela preparata da tempo, per fare colpo.
-Grazie.-, risposi
Restammo in silenzio, sorridendo entrambi un po' imbarazzati, cercando qualcosa da dire.
Guardandomi intorno, lo sguardo mi cadde sul CD lasciato sulla sedia.
-Ascolti gli Oasis?-, chiesi curiosa.
Lui si voltò a guardare il disco, poi guardò di nuovo me.
-A dire il vero no. Me l'ha prestato Matt, un mio amico. Li ascolta suo fratello. Io è la prima volta che li sento.-, rispose, masticando le parole con il tipico accento strascicato della zona.
Ero cresciuta sentendo parlare mio padre in quel modo, quindi non avevo alcun problema a capirlo.
-E ti piacciono?-, chiesi, e il mio accento risultò eccessivamente londinese. Colpa della scuola.
-Beh, non sono proprio il mio genere, ma sì. Sopratutto quella Wonderwall. Ha un bellissimo testo.-,  disse con un sorriso e uno sguardo quasi sognante.
-Concordo, è una delle mie canzoni preferite.-, commentai.
Restammo ancora in silenzio, ma un po' più leggeri di prima. Parlare di musica, evidentemente, sollevava entrambi.
Prima che potessimo trovare qualcos'altro da dire, però, una donna si affacciò da casa di Alex, urlandogli di rientrare subito.
-Scusami, devo andare.-, mi disse.
-Non preoccuparti. È stato un piacere, Alex.-, dissi sorridendo.
Era il primo vero contatto umano piacevole in troppo, davvero troppo tempo.
-Piacere mio, Cassandra.-, rispose, e corse via, riprendendo lettore e CD dalla sdraio ed entrando in casa.
Rimasi in piedi davanti alla ringhiera fissando la porta dietro alla quale era sparito finché anche la signora Cook non si affacciò dal portone per dirmi, con estrema gentilezza, di entrare in casa.
Obbedii subito. La ghiaia del vialetto scricchiolava sotto i miei piedi, e il profumo di gelsomino all'interno del piccolo giardino era quasi insopportabile.
Entrai timidamente in casa, senza sapere cosa aspettarmi.
La prima sensazione che mi colpì non appena mi fui chiusa la porta alle spalle fu di calore.
Forse era dovuto ai colori caldi che predominavano ovunque, o al fuoco che, sebbene fosse fine giugno, scoppiettava nel camino in salotto, oppure al profumo di torta che proveniva dalla cucina.
Subito davanti alla porta c'erano delle scale che portavano al piano di sopra.
Sulla destra si apriva il salotto, piccolo e accogliente.
Il pavimento era parquet scuro, ad asticelle larghe.
La carta da parati era a fiori rosa corallo su sfondo color crema, coordinata ai due divanetti di broccato con lo stesso motivo e ad un basso tavolino di vetro.
A sinistra del camino c'era una bella, ampia libreria di legno scuro, alta quasi fino al soffitto, che girava sull'angolo della stanza e percorreva tutta la parete, e vicino ad essa, girata verso il fuoco, stava una vecchia poltrona color crema.
Alla fine della libreria, accanto alle scale, c'era una porta bianca, che supposi conducesse ad un bagno, o ad un seminterrato.
Sulla destra del camino, su un mobiletto stracolmo di videocassette, c'era un piccolo televisore, e su un ripiano sotto di esso stava un videoregistratore.
La stanza creava uno stranissimo contrasto con il cielo grigio che si vedeva dalla grande finestra affacciata sul davanti.
-Cassandra!- esclamò qualcuno alle mie spalle.
Sobbalzai e mi girai di scatto.
Una ragazzina stava in fondo alle scale e mi fissava.
Aveva capelli biondo miele, raccolti in due treccine, grandi occhi azzurri e un sorriso immenso.
Sulla pelle pallida del viso, intorno al naso spiccavano delle lentiggini, che le davano un'aria incredibilmente innocente.
Era piuttosto alta e magrissima. Assomigliava un sacco al padre.
Indossava, a fare contrasto con l'aria angelica, un paio di jeans strappati e una maglietta dei Red Hot Chili Peppers decisamente troppo larga.
-Tu sei Cassandra!-, disse, avvicinandosi.
Annuii.
-Io sono Emery.-, disse e tese la mano.
La strinsi timidamente.
-Allora, come ti sembra la zona?-, chiese sciogliendo la stretta e andando a sedersi sul divano.
-Tranquilla. E silenziosa.-, risposi sedendomi accanto a lei.
-Ah, sì. Se non pensi che è così solo perché siamo isolati praticamente da tutto riesci ad apprezzarlo.-, disse con un sorrisetto sarcastico.
-Ma non vi pesa tanto, no? Voglio dire, vi conoscete fra vicini di casa, avete comunque qualcosa da fare.-, dissi incerta. Era solo un'idea che mi ero fatta, avevo paura di dire una sciocchezza.
-Beh, sì. Il vicinato non è male, no. Anche se ci sono pochissime ragazze, e sono tutte delle oche pazzesche. Io passo quasi tutto il tempo da sola, o con mio fratello e i suoi amici.-, rispose, ed arrossì un po' sulle ultime parole.
-Tuo fratello?-, chiesi. Probabilmente me ne avevano parlato negli ultimi giorni, ma ovviamente non stavo ascoltando.
-Jamie. Ha quindici anni. Ora è giù a giocare a carte con i suoi amici.-, rispose.
-E il ragazzo della casa qui accanto? Non è suo amico?-, domandai, non riuscendo a trattenere la curiosità.
-Alex?-, chiese, arrossendo ancora.
Annuii, fingendo di non averlo notato.
-Sì, sono amici. Oggi non c'è perché è in punizione, di nuovo.-, disse.
Ridacchiai. Sembrava proprio il tipo da cacciarsi nei guai in continuazione.
-Come fai a conoscerlo?-, domandò poi, il tono vagamente accusatorio.
-Era in giardino quando sono arrivata. Abbiamo scambiato giusto due parole.-, risposi.
Emery sorrise, rassicurata.
-Che tipo ti sembra?-, chiese.
-Un po' strano. Ma in senso positivo, credo.-.
-Ah, sì. Lui è così.-, disse con un risolino.
Sospettai qualcosa, ma evitai di dirlo per non fare una figuraccia. Magari era solo una mia impressione.
Proprio in quel momento un gruppetto di ragazzi uscì dalla cucina, parlando e ridendo.
Io ed Emery ci voltammo a guardarli, e tutti ammutolirono quando videro me.
Uno, piuttosto alto, riccio e brufoloso, vestito da rapper, prese in giro Emery.
-Ehi, guarda un po' Jam, tua sorella ha smesso di fare la spocchiosa e ha trovato un'amica!-, esclamò, sgomitando uno dei ragazzi che doveva essere Jamie.
Emery lo fulminò con lo sguardo.
-Lei è Cassandra, la ragazza italiana che si è trasferita qui.-, spiegò in tono duro.
Tutti mi fissarono, ed io arrossii.
Jamie si fece avanti tendendo la mano con un sorriso imbarazzato.
-Io sono Jamie, piacere.-, disse.
Gli strinsi la mano sillabando:
-Piacere mio.-.
Lo guardai attentamente.
Era molto simile a sua madre: basso, capelli castano chiaro, lisci, e occhi piccoli e azzurri.
Non assomigliava per niente alla sorella, ma c'era qualcosa, forse nella sua espressione e nel suo modo di fare, che aveva la stessa profonda dolcezza che entrambi, evidentemente, cercavano di nascondere.
Quello che aveva preso in giro Emery sorrise e disse, sventolando in aria la mano:
-Io sono Matt!-.
Un ragazzo al suo fianco disse di chiamarsi Andy. Era il più alto di tutti, e anche il più grosso, ma sembrava estremamente timido e riservato.
-Che peccato che Alex sia in punizione proprio oggi.-, rise Matt.
-Già, aspettava il tuo arrivo con più ansia di noi.-, mi disse Jamie.
-L'ho incontrato prima qui fuori.-, risposi.
Tutti risero fragorosamente.
-Te l'ha detta quella frase in italiano? Se la prepara da una settimana.-, disse Andy, il primo a smettere di ridere.
Non risposi, notando che Emery si era irrigidita al mio fianco.
-Ohoh, smettiamo di parlarne, che la piccola Em si ingelosisce.-, disse Matt in tono canzonatorio.
-'Fanculo Helders.-, ringhiò a denti stretti.
-Dai, Matt, smettila. Andiamo.-, disse Jamie, lanciando un'occhiata alla sorella.
Salutarono tutti e uscirono, lasciandoci di nuovo sole.
Emery tratteneva a stento le lacrime.
-Ehi, tutto bene?-, chiesi piano.
Lei annuì, ma stringeva i pugni e i denti, per trattenersi, credo, dal piangere, o dall'urlare, o magari dal fare entrambi.
-Sono ragazzi, dai. Fanno tutti così.-, dissi cercando di consolarla.
Lei rise, prima amaramente, poi con più leggerezza.
-Quindi anche in Italia è così? Pensavo di essere io l'unica sfigata.-, commentò ironica.
-È così dappertutto. Non ho mai conosciuto un ragazzo intelligente. Non di quell'età almeno.-, dissi.
-Alex lo è.-, mormorò, dando conferma ai miei sospetti.
Sorrisi, rimanendo in silenzio.
Dopo un po', quando si fu totalmente calmata, Emery recuperò il suo sorriso.
-Ti va di vedere la casa?-, mi chiese.
Accettai con entusiasmo. Non vedevo l'ora.
Ci alzammo, e uscite dal salotto mi condusse al piano di sopra.
Le scale sfociavano su un ampio pianerottolo.
Sulle pareti la carta da parati era la stessa del soggiorno, e il pavimento era lo stesso identico parquet.
C'era una grande finestra sporgente, con un sedile imbottito che poteva essere chiuso da una spessa tenda scura. Ora era tirata su un lato, e si vedeva interamente il bel giardino sul retro, con un piccolo orto e una rete da calcio.
Sul pianerottolo si aprivano cinque porte, tutte bianche.
La porta appena accanto alle scale dava su un bellissimo studio, interamente rivestito di legno. Lungo tutto il perimetro della stanza correva una libreria.
In un punto si apriva una scrivania con un computer sopra, e in un altro una piccola finestra che dava sul giardino sul retro. Sotto di essa stava una poltrona blu scuro dallo schienale alto, con un basso poggiapiedi davanti, intonato.
Dall'altro lato del pianerottolo c'erano due porte, la prima della camera di Jamie, la seconda della camera di Emery, e adesso anche mia.
Quella di Jamie era chiusa a chiave.
L'altra, che io mi aspettavo estremamente femminile, aveva le pareti quasi completamente coperte di poster, ritagli di giornale, foto stampate e disegni, tanto che quasi non si distingueva la carta da parati violetta sottostante.
Il pavimento era coperto da una folta moquette rossa.
Fra i due letti appoggiati alla parete di sinistra c'era un tavolino ingombro di libri che faceva da comodino per entrambe, con due lampade da lettura sopra.
Sopra di esso una finestra.
Sulla parete opposta c'era un grande armadio scuro, con un'anta coperta da un grosso specchio e il resto, come le pareti di fogli, foto e scritte.
Accanto alla camera un piccolo bagno, e alla sua sinistra una porta conduceva alla camera dei signori Cook, dove, mi disse Emery, era generalmente vietato entrare.
Scendemmo di nuovo le scale ed entrammo nella cucina e sala da pranzo.
I banconi, posti all'angolo adiacente a quello della porta, erano di legno chiaro, anticato ad arte, che faceva contrasto con il frigorifero e il forno, entrambi modernissimi e rosso acceso.
Vicino all'angolo opposto c'era un tavolo di legno scuro con le gambe riccamente decorate, chiaramente un pezzo d'antiquariato che contribuiva alla generale aria vintage che permeava in tutta la casa.
Le sei sedie intorno, simili al tavolo, avevano tutte un soffice cuscino rosa a fiori.
Attaccato al soffitto proprio al centro della stanza c'era uno splendido lampadario in ferro battuto, decorato con fiori e foglie, come le gambe del tavolo.
Era un insieme strepitoso.
Anche qui c'era la solita carta da parati, e il parquet si interrompeva solo in una piccola area intorno ai banconi, dove veniva sostituito a delle mattonelle di un colore piuttosto simile.
Fra il tavolo e i banconi si apriva una porta che dava sulla dispensa.
Qui c'erano diversi scaffali chiusi da lunghe tende, e un grosso congelatore. Accanto ad essi una porta a vetri portava al giardino sul retro. In un angolo, sul pavimento, si apriva una botola.
Scendemmo la rozza scala di legno e ci ritrovammo in una tavernetta dall'aria un po' trascurata, ma pur sempre accogliente.
Sul pavimento c'era una moquette verde bottiglia, consunta e piuttosto sporca. Le pareti di mattoni erano coperte quasi interamente di poster e locandine di film e concerti e ritagli di giornale, come se fossero una sorta di coloratissima carta da parati.
C'erano due divani sfondati in un angolo, e delle sedie spaiate intorno a un rozzo tavolo ricavato da una tavola di legno appoggiata su due cavalletti.
Davanti ai divani, su un mobiletto identico a quello del salotto ma pieno di videogiochi, stavano una televisione e una play station. In un cestino si identificavano tre controller normali, e un DualShock.
Accatastati lì vicino c'erano una pila di giochi da tavolo e scatoloni di giocattoli. 
Un bidone della spazzatura ammaccato straboccava di bicchieri di plastica e cartoni di pizze.
Era chiaramente un posto totalmente gestito dai ragazzi.
Sul tavolo c'erano ancora le carte con cui dovevano aver giocato prima, e dei bicchieri con ancora qualcosa dentro.
Sorrisi di tutto quello. Era in qualche modo affascinante vedere come alla fine, sotto tutte quelle stanze pulitissime e arredate con estrema attenzione, c'era quel seminterrato dall'aria di averne passate troppe.
Tornammo su, mentre Emery diceva:
-Non è un granché, ma è casa.-, con un sorriso un po' imbarazzato.
-Io la trovo magnifica.-, risposi, sorridendo.
In salotto c'era Jamie, disteso sul divano a sfogliare un numero di NME, mentre alla TV, su M2, passavano una classifica di canzoni punk rock.
Emery si sedette al suo fianco e gli rubò la rivista, mentre io mi avvicinai all'enorme libreria per vedere cosa contenesse.
Pensai a quanto ero fiera di quella che avevo nella mia camera a Firenze, e mi sentii un po' una stupida.
I miei dieci scaffali traballanti, neanche del tutto pieni, erano niente in confronto a quello splendore di legno pregiato e libri importanti.
Libri, fra l'altro, tutti divisi per argomento e autore.
Sorrisi, accarezzandone le coste e cercando titoli che conoscevo.
Alle mie spalle Jamie, dopo una breve lotta,  mollò il giornale ad Emery e si alzò per raggiungermi.
-Quelli sono tutti di mia madre. C'è un po' fissata.-, disse, notando che stavo guardando la sezione dedicata all'arte, la fotografia e l'architettura.
-Ho perso il conto di tutte le mostre a cui ci ha trascinati quando eravamo piccoli.-, aggiunse, ridacchiando.
-A te non piace l'arte?-, chiesi, voltandomi a guardarlo.
-Non quella che piace a mia madre. A me interessa la musica. E il cinema, un po'.-, rispose, indicando tre scaffali pieni di biografie di musicisti e registi, raccolte di testi e spartiti, manuali.
Poi mi mostrò dei cassetti alla base della libreria strapieni di riviste specializzate.
-E non sono tutti. Ne tengo alcuni anche in camera.-, disse con aria compiaciuta.
Sorrisi, felice di aver trovato finalmente qualcuno simile a me.
Emery si alzò dal divano, lanciando la rivista sul tavolino e avvicinandosi a me e Jamie.
-Fa tanto l'intelligente, ma in realtà ne avrà letti meno della metà di tutti quei libri.- commentò ridacchiando.
Jamie le tirò una gomitata nelle costole, piano.
-Ma se li so praticamente a memoria. Tu piuttosto, i tuoi grandi classici, ne avrai letti al massimo tre.- rispose, lanciando un'occhiata agli scaffali dedicati.
Seguii il suo sguardo, e i miei occhi si illuminarono a vedere quella splendida raccolta di narrativa di ogni genere, nazionalità ed epoca.
Riconobbi tanti titoli che possedevo, e tanti altri che volevo da sempre e che adesso potevo finalmente leggere.
-Orgoglio e Pregiudizio è uno dei miei libri preferiti.- dissi, osservandone la copia rilegata ovviamente in lingua originale, così diversa dalla mia spiegazzata ed ingiallita tascabile.
La mia attenzione cadde poi su una collana di opere di Shakespeare dall'aria piuttosto antica.
Finalmente avrei potuto leggerli tutti.
-Qual'è il tuo preferito?- chiesi ad Emery.
-Non li ho ancora letti tutti, ma per ora Romeo e Giulietta.- rispose, indicandomelo.
Non potei impedirmi una smorfia di disappunto, che fu notata.
-A te non piace?- mi chiese Emery, un po' offesa.
-Sì, è bello, ma lo trovo un po' sopravvalutato. Per quanto toccante, la trama è un po' scarsa. Preferisco di gran lunga La dodicesima notte.- risposi, addolcendo il tono involontariamente saccente con un sorriso.
Jamie rise all'espressione accigliata della sorella, ed io mi apprestai a cambiare argomento.
-Chi è che legge fantasy?- domandai, notando, nello scaffale accanto, Le cronache di Narnia, tutti i libri di Tolkien, ed i primi tre libri di Harry Potter.
-Noi due. In realtà io sono più per la fantascienza.- disse Emery, indicando praticamente l'intera bibliografia di Asimov, qualche scomparto più in basso.
Stavolta riuscii a celare un po' meglio il disappunto.
-Tra pochissimo esce il quarto libro di Harry Potter.- disse Jamie, con un sorriso enorme.
Emery alzò gli occhi al cielo e sbuffò esasperata.
-Esce esattamente l'otto luglio, per il suo compleanno, per mia immensa sfortuna.- rispose al mio sguardo interrogativo.
Ridacchiai.
-Che bello. Ora che sono qui non devo aspettare la traduzione italiana per leggerlo.- dissi, sorridendo lanciando un'occhiata complice a Jamie.
Ricambiò, ridendo.
Emery ripeté lo sbuffo esasperato.
Aprì bocca per dire qualcosa, ma proprio in quel momento i signori Cook scesero le scale ed entrarono in salotto.
-State facendo amicizia?- chiese la signora Cook sorridendo teneramente.
-Jamie ha trovato un'altra fissata col fantasy.- disse Emery sbuffando, ancora.
Il signor Cook scambiò uno sguardo strano con il figlio, e lui si mise a ridere.
-Em è solo gelosa perché una volta tanto non è passata per il genio di turno.- disse Jamie, spettinandole affettuosamente i capelli.
Sorrisi con una certa malinconia nel vederli scherzare insieme.
L'unico vero rimpianto della mia infanzia era di non aver mai potuto condividere un rapporto come quello con nessuno.
Adesso, forse, potevo finalmente avere la mia occasione.
Adesso, magari, con quella famiglia, sarei riuscita a vivere la vita che avevo sempre sognato.
Il signor Cook fu l'unico ad accorgersi dell'ombra che mi aveva scurito lo sguardo, e mi chiese se stessi bene.
Annuii, ritornando presente a me stessa.
Smetti di pensarci, mi dissi. Cerca di essere felice.
-Comunque potete andare a lavarvi le mani. Fra cinque minuti ceniamo.- disse la signora Cook, dirigendosi verso la cucina seguita dal marito.
Jamie ed Emery mi guidarono verso la porta bianca che avevo notato prima.
Dietro c'era un piccolo disimpegno sul quale si aprivano altre due porte, una sulla destra e una esattamente parallela a quella affacciata sul salotto.
Una portava ad un ripostiglio, e l'altra ad un bagno con lavanderia.
Un paio fili appendi abiti, appesi a dei ganci sul muro, appena sopra la parte di parete coperta di piastrelle in finto marmo, correvano attraverso il bagno, carichi di bucato ad asciugare.
Dietro di essi la lavatrice e il wc, e davanti, sul lato della porta, due lavandini e un grosso specchio.
Ci lavammo le mani – sapone liquido alla lavanda e asciugamani azzurri – e tornammo in salotto.
Un delizioso odore di arrosto aleggiava per tutto il piano terra.
Appena entrati in cucina ognuno andò a sedersi al proprio posto, ed io rimasi in piedi a guardarli.
Il signor Cook sedeva a capo tavola. Alla sua destra la moglie, alla sinistra Emery. Jamie stava accanto alla madre.
Seduti in un silenzio leggero, con il cibo caldo e appetitoso disposto davanti su vassoi e ciotole pulite, sorridenti. I piatti quasi splendevano per quanto erano bianchi, senza graffi o aloni di vecchie macchie. Le posate e i bicchieri, colorati, diversi per ciascuno, avevano chiaramente l'aria di essere tenuti con cura.
La tovaglia candida e il cestino del pane completavano la scena, e contribuivano al suo essere così irreale.
Sembrava una di quelle foto di prova nelle cornici, una scena di una commedia americana, una pubblicità della Mulino Bianco.
Stavo lì immobile a fissarli, con la paura che muovendomi avrei rovinato tutto.
Fui colpita dall'impulso di correre via, prima di corrompere minimamente quella perfezione, quella serenità.
Prima che potessi anche solo pensare di fare qualcosa, Emery scostò la sedia al suo fianco, e lo stridio del legno duro contro il parquet mi richiamò alla realtà.
Mi accorsi di avere gli occhi lucidi e di star trattenendo il fiato.
Trassi un profondo respiro, ricacciando indietro le lacrime, sfoderando il miglior sorriso che riuscivo a fare, e andai a sedermi.
Solo il signor Cook vide il mio passo incerto, e le mie mani che tremavano, ma dovette capirne il motivo perché non disse niente a riguardo.
Piuttosto, si alzò in piedi e iniziò a distribuire pollo e purè di patate a tutti.
In breve, il tintinnio di posate e il dolce suono di una conversazione tranquilla e cortese sostituì il silenzio.
I genitori si informarono delle giornate dei figli, ed entrambi si lamentarono, ma non troppo seriamente, della loro invadenza, per poi iniziare a parlare di scuola e di altre cose.
Io stavo zitta, occupando la bocca solo nel mangiare, ed ascoltavo, in attesa di un qualsiasi suono che tradisse quella calma irreale.
Ma forse, mi dissi dopo un po' che aspettavo invano, tutto quello era irreale solo per me.
Solo a me, nella mia realtà distorta, quel momento sembrava impossibile.
Un sogno creduto irraggiungibile per anni.
Quasi tutte le cene della mia vita erano state un concerto di urla, litigi furiosi, stoviglie infrante e silenzi insostenibili.
Da più di un anno le stoviglie erano diventate bottiglie più o meno vuote, e i litigi frenetici monologhi, sfoghi deliranti di un ubriaco, di un folle.
O silenzio. Assordante silenzio fra cibo da microonde o cartoni di pizza. Silenzio che contrassegnava la mia solitudine, e la relativa calma della cosa.
Lì, in quella casa, in quella nuova realtà, non ritrovavo niente di quello che avevo sempre conosciuto, e questo mi disorientava e mi rassicurava allo stesso tempo.
Immersa nelle mie riflessioni avevo smesso di ascoltare la conversazione che stavano tenendo, quando la signora Cook pensò di chiedermi un parere.
-Cassandra, tu che ne pensi?- esordì sorridendomi.
Alzai la testa di scatto.
-Riguardo a c-cosa?- chiesi, arrossendo.
La signora Cook ridacchiò.
-Stavamo parlando di cosa potreste fare domani. Avevo proposto ad Emery di portarti in centro a Sheffield, ma...-.
-Ma ho pensato che sarebbe meglio farti conoscere High Green e Chapeltown, prima di Sheffield.- la interruppe Emery, guardandomi in modo strano.
-Dopotutto è carino, il centro di High Green.- la spalleggiò Jamie, ghignando in direzione della sorella.
Mi sentii come messa all'oscuro di qualcosa, ma pensai che Emery mi avrebbe spiegato tutto lontana dalle orecchie dei genitori.
-Tu cosa preferisci fare?- mi chiese di nuovo la signora Cook.
-N-non lo so. Forse, sì, è meglio che conosca un po' H-high Green.- balbettai, in imbarazzo.
Emery sorrise vittoriosa, e Jamie abbassò lo sguardo sul piatto per non mettersi a ridere.
-Bene, allora. A Sheffield potremmo andare sabato tutti insieme.- disse il signor Cook, sembrando serio, ma trattenendo a stento un sorriso.
-Veramente io avrei già programmato di andarci con gli altri. Matt deve comprare un regalo per i suoi.- disse Jamie veloce, probabilmente mentendo, scambiando uno sguardo allarmato con la sorella.
-Potremmo andare con loro. Matt non è capace di scegliere un regalo del genere da solo.- disse Emery, cogliendo la palla al balzo.
Tutt'ora non ho capito se la signora Cook fosse davvero così ingenua o lo lasciasse credere ai figli.
-Benissimo, allora. Non vorrei mai che Jill e Clive ricevessero l'ennesima pianta carnivora.- decretò la signora Cook, alzandosi e iniziando a sparecchiare.
Tutta la famiglia si accinse ad aiutarla.
Osservandoli, notai che ognuno aveva il suo compito ben preciso, ed erano tutti coordinati gli uni agli altri.
Per la prima volta, mi sentii di troppo. Ero una presenza ingombrante in quella famiglia felice. Un'intrusa arrivata da chissà dove ad intralciare le loro abitudini, i loro modi di fare.
Mi sentivo una stupida, rimasta seduta da sola al tavolo, guardandoli fare con tanta naturalezza gesti che a me sembravano assurdi.
E mi chiesi che impressione dovessi fare, vista dai loro occhi. Forse una vittima, un qualcosa che si è tenuti ad accudire per non perdere la faccia, come un uccellino caduto dal nido, o un cane trovato abbandonato in autostrada.
Sentii pesare i segni di quello che avevo passato, per quanto volessi dimenticare, passare oltre, innestarmi stabilmente in qualcosa che forse, per la prima volta, mi avrebbe fatto stare bene.
Forse intuendo il mio disagio, il signor Cook tentò di darmi qualcosa da fare.
-Cassandra, potresti togliere la tovaglia, per favore?- mi chiese, fermandosi un attimo dallo sciacquare un piatto.
Mi alzai di scatto, annuendo sollevata, ma la signora Cook tentò di impedirmelo accorrendo per farlo lei stessa.
-La prego, voglio rendermi utile.- la fermai, sperando di non suonare scortese.
Non volevo che mi vedessero come un'ospite.
Lei si fermò a metà strada fra il bancone e il tavolo, stringendosi le mani e osservandomi dubbiosa.
Mi sforzai di non guardarla, mentre scuotevo la tovaglia dalle briciole e la piegavo.
Emery mi indicò il cassetto dove riporla, e mi sbrigai a farlo.
Prima che potessi chiedere dove fossero la scopa e la cassetta, la signora Cook le prese e si mise a spazzare.
Ci sarebbe voluto tempo.
Quando tutti i piatti furono messi sulla rastrelliera ad asciugare, e le posate e i bicchieri riposti nei mobiletti appesi sopra ai banconi, i signori Cook ci mandarono in salotto, mentre loro rimasero seduti al tavolo a parlare concitati di qualcosa.
Jamie mise un film e si distese sul divano, mentre io ed Emery ci sedemmo sull'altro.
Avrei voluto chiederle cosa avremmo fatto il giorno seguente, ma all'improvviso mi sentivo terribilmente stanca, e non ebbi la forza di dire niente.
Mi rannicchiai nel mio angolo, con la testa piegata sulle ginocchia, e sia Emery che Jamie ebbero il tatto di non dire niente.
Li sentivo parlare di come Jamie avesse salvato la situazione prima, e del fatto che avrebbero dovuto convincere Matt ad andare davvero a comprare qualcosa per sua mamma.
Avrei voluto unirmi alla conversazione, essere di compagnia, ma davvero non ci riuscivo.
Non so se mi fossi addormentata o meno, ma dopo quelli che a me sembravano pochi minuti si erano fatte le undici, e i signori Cook intimarono ai ragazzi di spegnere tutto e andare a letto.
Il film era finito, e Jamie già dormiva sul divano.
Emery mi scosse con delicatezza, e mentre mi alzavo e mi stiracchiavo, si accinse a svegliare il fratello.
Tutti e tre, in fila, un po' barcollanti, salimmo le scale.
Jamie ci augurò la buonanotte prima di entrare in camera sua. Io ed Emery rispondemmo in coro, e lo vidi sorridere prima di chiudersi la porta alle spalle.
Una volta sole in camera, rilasciai un sospiro di sollievo, sedendomi sul letto.
Emery, che si stava cambiando dietro un'anta dell'armadio, mi chiese se stessi bene.
-Sì, alla grande.- risposi, cercando di non suonare sarcastica. -Sono solo stanca. E felice che la giornata sia finita.- aggiunsi, per amor di onestà.
-Dev'essere stato difficile, per te, cambiare casa e paese da un giorno all'altro.- disse, riemergendo dall'armadio e sedendosi anche lei sul fondo del suo letto.
-Magari fosse stato da un giorno all'altro! Non ne potevo più di test e controlli, tutti quegli psicologi, professori e dottori che credono di sapere tutto, di leggere nella mia testa. Li odiavo tutti. No, sono felice di essermene andata. Solo che oggi è stata una lunga giornata.- dissi, felice di potermi finalmente sfogare con qualcuno.
Emery sorrise, anche lei allietata dal tono più sciolto che avevo assunto.
Mi chinai su una delle valigie a cercare un pigiama.
-Domani sarà ancora più lunga, sappilo. Ho intenzione di farti stancare.- disse, mentre mi alzavo dal letto.
Mi accompagnò in bagno, spiegandomi un po' i suoi piani.
-Ad High Green non c'è niente, in realtà. Un po' di negozi e bar, tutti a gestione familiare. Voglio farti vedere i posti dove vado io, di solito da sola, ma stavolta farò un'eccezione.- disse mentre si scioglieva le trecce e si pettinava i capelli, sorridendo al mio riflesso nello specchio.
Nonostante lei ci scherzasse sopra, capivo che fosse un gran sacrificio condividere quei posti con un'estranea. E mi sentii lusingata da tanta, innata fiducia.
Sputai il dentifricio nel lavandino e le sorrisi, grata.
-La sera di solito cosa fate qui?- chiesi, una volta posato lo spazzolino da denti e tirata fuori la spazzola, tentando di restituire una direzione ai miei capelli.
-Niente.- disse, e si mise a ridere.
Le lanciai un'occhiata interrogativa.
-Non c'è quasi mai niente da fare qui, ci sono sempre le stesse persone negli stessi posti. È un mortorio. D'estate poi, è davvero un incubo. A volte sto con Jamie e gli altri, quando vengono qua. O esco con Jane, dovrò presentartela, e andiamo al Rose Inn. Ma per il resto è sempre come stasera.- spiegò.
Entrambe pronte per dormire, tornammo in camera, e ci infilammo sotto le coperte.
-Anche Jamie, quindi, esce poco?- domandai.
-Beh, no. Stasera è stata un eccezione perché dovevamo cenare tutti insieme. Di solito lui e i suoi amici passano le serate tutti a casa di uno, a rotazione. O vengono a dare fastidio a Jane e me.- rispose, con un po' di amarezza.
-Ma domani siamo sole.- dissi, e in qualche modo non era una domanda.
-Sì, domani sì. Meglio che ti ambienti, prima che i ragazzi inizino a pretendere di conoscerti.- disse ridacchiando, per poi rabbuiarsi subito dopo.
Non mi fu difficile capire a cosa avesse pensato, ma non dissi niente.
-Beh, non mi dispiacerebbe. Dove stavo prima i ragazzi mi giravano tutti a largo. Si avvicinavano solo per infastidirmi. Spero che qui sia diverso.- dissi.
-Di sicuro. Non hai visto le loro reazioni, prima? Sei una novità, in un posto dove non succede mai niente. Almeno per i primi tempi di staranno sempre attorno. Jamie, specialmente, se ne vanterà con tutti.- disse, e non riuscii a capire se le facesse piacere o meno.
Decisi che avrei aspettato di ritrovarmi in quella situazione, prima di giudicare.
-Dici? Non sembra il tipo.- fu l'unica cosa che mi venne da dire.
Stavolta Emery rise davvero.
-Imparerai a conoscerlo, fidati.- rispose.
Si lasciò sfuggire uno sbadiglio.
-Vedremo.- dissi, in tono quasi di sfida.
-Buonanotte, Cass.- disse, sorridendo.
Era la prima volta che qualcuno mi chiamava così, da quando ero piccola.
-Buonanotte.- risposi.
La prima notte della mia nuova vita, il primo sonno a Sheffield fu lungo, profondo e senza sogni.
Come non succedeva da troppo.

~
Bene, here we are.
High Green è, come spero saprete, il luogo in cui sono nati e cresciuti quasi tutti i membri degli Arctic Monkeys.
I nomi dei luoghi sono, per quanto mi è stato possibile, attendibili. Non so di che anno è la mappa su google maps, ma ha tutto comunque un fondamento reale.
Gli eventi, sopratutto quelli narrati nei prossimi capitoli, cercheranno di essere il più possibile realistici, per quanto si possa pretendere da una fanfiction.
Neanche a dirlo, non conosco né la famiglia Turner, né la famiglia Cook, né nessun altro, nessuno mi paga per scrivere di loro, e niente di tutto questo è fatto con l'idea di guadagnarci qualcosa.
Cassandra Allen è frutto della mia immaginazione malata, con il cognome rubato ad un adorabile muser australiano.
Emery Cook è liberamente ispirata alla mia collega, ma giusto un po', come i film che differiscono dal libro dal quale sono tratti il tanto che basta per non pagare il copyright.
A proposito di Emery, vi invito a leggere il side project che Bi_Lu ha appena iniziato e che riporta il diario scritto dalla piccola Cook, e che quindi mostra questa storia da un altro punto di vista.
Io inserirò di tanto in tanto capitoli non POV Cass, ma comunque se volete vedere un'altra angolazione di Thunderstorms. beh, leggetela. Non ve ne pentirete c:
Il titolo della storia è tratto dal titolo di una canzone degli Arctic, She's Thunderstorms, e il titolo del capitolo è una frase di No Buses, sempre degli Arctic. 
Ringrazio gli Arctic Monkeys, per aver mandato in fumo la poca sanità mentale che mi era rimasta e avermi convinta a buttarmi di testa in questo progetto folle. Se riuscirò a finirlo, costruirò una statua a loro, e a voi che siete arrivate a leggere fino a qua.
Spero lo abbiate apprezzato, davvero. 
Se questo primo capitolo vi è piaciuto, vi prego, vi prego, fatemelo sapere.
E anche se vi ha fatto schifo, se avete qualsiasi appunto, critica, consiglio da dare, vi supplico, fatelo.
Spero di aggiornare in modo abbastanza regolare, tempo e ispirazione permettendo.

A presto,
Piuma_
   
 
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