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Autore: Violet 95    15/08/2012    3 recensioni
Dopo la battaglia che ha coinvolto i destini di molti, è tempo di cambiamento e rinascita. E non solo per gli uomini.
Una ragazza e un dio, entrambi sul punto di cadere in un cielo privo di nubi. Una ragazza che tenta una definitiva rinascita, che cerca un posto nel mondo. Un uomo che cela un odio orrendo, che cerca di "resettare" la propria vita. Un dio che medita un'atroce vendetta.
Questa è la storia di due mostri che ne formano uno, forse più umano di quello che sembra.
Questa è una storia di rinascita, di vendetta e di trasformazione.
Questa è la storia di Sofia e del mostro che si riflette nel suo specchio. E nel suo cuore.
E' la prima fan fiction che scrivo in questa sezione. Spero che vi divertiate a leggerla come io mi sono divertita a scriverla e spero che vediate, come Sofia, al di là del semplice riflesso.
Genere: Azione, Drammatico, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Loki, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Miracoli e mostri

 

 

 

 

Giorni fa, nel centro di Milano, avvenne un miracolo. Anche se forse la scienza non sarebbe stata molto d’accordo, e l’avrebbe semplicemente chiamato “caso fortuito”, in quegli ultimi tempi di sconvolgimenti naturali era più che giustificabile chiamarlo così.

Infatti, di miracolo si trattava.

Una ragazza, sotto lo sguardo stupito di numerosi impiegati che lavoravano all’interno del Palazzo di Vetro, si gettò dall’ultimo piano della struttura, priva di ogni indumento di riconoscimento, e si schiantò con tutto il suo peso sul cofano di una Peugeot parcheggiata lì sotto. I soccorsi arrivarono immediatamente dopo la chiamata d’urgenza e, senza troppe speranze, tentarono di rianimarla in ogni modo, impietositi per il fatto che la ragazza fosse ancora giovane e avesse optato per un metodo alquanto vistoso e poco elegante di uccidersi e allo stesso tempo desiderosi di strappare almeno una vita innocente dall’abbraccio della Morte.

Nonostante perdesse sangue a vista d’occhio dalla nuca, i soccorsi si affaccendarono per trovare su quel corpo immobile un battito, un’apparenza sottile di vita che facesse sperare. Ma tutto fu inutile: non c’era più vita in quelle membra.

Quando decisero di lasciar perdere, avvenne appunto il miracolo.

La ragazza spalancò gli occhi, terrorizzata, confusa, non capendo come avesse fatto a ritrovarsi sul dorso di una macchina ormai distrutta e circondata da una folla di estranei che la guardavano con la stessa faccia di uno che aveva visto un fantasma. Tutti, passanti  compresi, gridarono al miracolo.

La ragazza venne portata d’urgenza all’ospedale per controllare le sue vere condizioni e accertarsi che quegli occhi aperti – due occhi di un verde accesso, simili a due smeraldi – non fossero stati un’illusione. Lì venne anestetizzata, ricucita, controllata, curata, spostata varie volte da diverse sale e infine lasciata in pace a riposare senza il bisogno di particolari farmaci con effetto calmante.

Con grande stupore dei medici, giunse in ospedale con buona parte delle ossa a posto e gli enormi tagli su braccia e gambe già rimarginati. Alcuni dissero che quello era un vero e proprio miracolo, altri affermarono che lei non era un comune essere umano, ma un angelo caduto. Questi ultimi vennero presi per pazzi.

In seguito, riuscirono a capire di chi si trattava, rinvenendo nell’appartamento che divideva con una zia vari documenti che confermavano la sua identità. Sofia Pagani, tredici anni, figlia di madre cantante e padre violinista; aveva anche un fratello, promettente violinista. I genitori e il fratello rimasero coinvolti nella catastrofe a New York, avvenuta qualche mese fa a opera dell’armata di alieni guidata dal dio dell’inganno Loki. Il fratello era scomparso, mentre i genitori erano morti. Gli psicologi a cui venne affidata affermarono che la sua decisione estrema era stata provocata dalla scioccante notizia di essere rimasta improvvisamente orfana: nessuno, ovviamente, osò contrastate questa illuminante verità.

Sofia, ancora sotto shock, perse l’uso della parola e si trasformò in un’ombra silenziosa. Sembrava quasi essersi dimenticata cosa fossero il dolore o la tristezza, così come sembrava aver cancellato dalla mente ogni ricordo riguardante il suo passato, compresi i volti dei genitori e del fratello. Il Professore – perché così veniva chiamato dai suoi colleghi – che si occupò fino in fondo del suo caso disse che un fatto del genere era assolutamente normale per quella giovane creatura, privata così all’improvviso di ogni affetto.

 

“Evidentemente, deve aver pensato che, per non provare più dolore, fosse meglio omettere ogni informazione, ricordo o immagine riguardante la fonte di tale sofferenza. Per codesto motivo non sembra ricordare chi siano i suoi genitori o suo fratello, ma dentro di sé ne è ancora cosciente” disse agli altri dottori che chiedevano in continuazione consigli illuminanti.

 

Di tutte le cose che disse, forse questa fu la più veritiera.

Non appena le sue condizioni fisiche si furono ristabilite, Sofia venne trasferita in una casa di cura in America, dove vi lavorava appunto il Professore, e lì restò per due anni e mezzo, in compagnia di numerosi coetanei e bambini che, come lei, avevano perso la famiglia in quegli infausti giorni a New York.

Sofia stette un anno intero senza parlare, persa in un mondo suo dal quale sembrava non voler uscire, incurante della gente che le stava accanto o del mondo intero. Per quanto le parlassero o la visitassero, lei non sembrava accorgersi della loro presenza; si aggirava per i corridoi – seguita da una scorta di tre medici – come un fantasma, osservando tutto ciò che la circondava senza guardare veramente. Alcuni erano del parere che a questo punto era impossibile reinserirla nella società.

Ma un giorno avvenne un secondo miracolo: Sofia parlò.

Le sue parole, la sua attenzione, non erano rivolte a uno dei medici o al Professore –che passava gran parte del suo tempo insieme a lei in un interminabile gioco di sguardi –, ma a se stessa. Parlava da sola nell’enorme stanza bianca che le era stata data, piena di giochi con diversi strati di polvere, di libri, di fogli bianchi e colori.

Sofia si era creata un amico immaginario con cui trascorreva ore intere a chiacchierare, riversando in lui tutta la sua voce, tutti i suoi sentimenti, trattandolo quasi come un essere reale. Parlava con lui solo, incurante della presenza degli altri dottori all’interno della stanza che l’ascoltavano avidi di sapere: continuava a vivere come se loro non esistessero.

La conversazione era iniziata all’improvviso, sotto lo sguardo interdetto e stupito del Professore, e verteva sulla monotonia di quel luogo così spento e pieno di pazzi.

Il Professore giunse alla conclusione che la conversazione con l’amico immaginario – che Sofia chiamava amichevolmente “Principe” – era iniziata già da molto tempo e durava tutt’ora. Si diede dello stupido per non averlo capito prima. Di fronte al suo seguito di ammiratori disse però che ci era arrivato già da tempo, ma aveva preferito vedere come si sviluppava la situazione prima di rivelarlo.

Tutti, ovviamente, gli credettero.

Un giorno Sofia si rivolse per la prima volta a uno dei medici: voleva uno specchio, alto e rettangolare, in modo da poter vedere il proprio riflesso dopo tanto tempo. Il Professore esaudì felice la sua richiesta e, il giorno stesso in cui fu chiesto, lo specchio venne posizionato nella stanza della ragazza.

Non appena Sofia vi si specchiò, spalancò gli occhi sorpresa e trattenne il respiro, poi sorrise, dicendo che era finalmente felice di poterlo vedere. Il Professore credette che si stava riferendo al suo riflesso, ma il vero destinatario di quelle parole era qualcun altro.

Sofia non vi vedeva la sua immagine, ma quella del Principe. Tutti arrivarono a questa conclusione dopo che la videro parlare al suo riflesso, ponendo domande a cui riceveva – almeno nella sua testa – una risposta.

Il Professore disse che anche questo era normale. Ma smise di ripeterlo non appena accaddero cose strane in quella stanza.

Ad esempio, uno dei medici gli riferì che il nuovo nome dell’amico di Sofia era Loki. Quando il Professore gliene chiese il motivo, interrompendola da uno dei suoi soliti monologhi, Sofia gli disse con enorme fastidio che quello era il nome del dio degli inganni, protagonista delle numerose leggende nordiche che avevano popolato la sua infanzia.

 

“E poi, ha detto di chiamarsi così!”

 

In seguito iniziarono i primi eventi strani: oggetti che sparivano o che venivano ritrovati da un’altra parte, pastelli colorati che si libravano a mezz’aria e si spostavano guidati da una forza misteriosa nella stanza di Sofia, orsi di pezza che si mettevano a ballare, mobili che si alzavano da terra. E Sofia al centro di tutto questo, seduta su una sedia anch’essa a mezz’aria, con la bocca piegata in un ghigno soddisfatto e malizioso.

Quasi tutti i medici della clinica si spaventarono e rifiutarono di avvicinarsi alla ragazza. Tutti tranne il Professore, che continuava la sua missione senza piegarsi agli strani fatti. Anche gli altri bambini avvertivano il pericolo nell’aria e se ne allontanavano, come se si fosse trattato di un pericoloso morbo.

Dopo le strane magie – chiamate con disprezzo dal Professore: “sporchi trucchi da fattucchiere” – e altre levitazioni, Sofia iniziò ad aprirsi sempre di più allo specchio, ormai soprannominato da tutti “Loki”. Raccontò dei rapporti con la famiglia, dei suoi sentimenti, rivelando la parte umana che sembrava ormai essersi congelata per sempre.

Emersero cose che nemmeno i medici, per materiale di cui erano sprovvisti, sospettavano.

 

“Mia madre cantava con la sua voce d’angelo, mentre mio padre l’accompagnava con il violino” raccontava Sofia, “ed iniziarono entrambi mio fratello, il primogenito, all’arte del violino. Fin da piccolo era molto dotato e i miei genitori riponevano grandi speranze in lui: ma non riuscii mai a capire se al fratellone andasse veramente bene questa situazione. Forse perché non ci parlavamo molto spesso, lui era impegnato con il violino e i miei genitori gli stavano sempre con il fiato sul collo. Non ha mai avuto un’infanzia normale, né il resto della vita.

Io, naturalmente, venni dopo. In tutti i sensi.

Figlia di due grandi artisti del panorama musicale, sorella di un genio del violino, anch’io dovevo possedere il gene della musica. O almeno così credevano tutti. Ad appena cinque anni, mi misero in mano il violino, ma io non possedevo il talento di mio fratello; avevo comunque ereditato le dita lunghe e affusolate di mio padre, perciò, quando persero le speranze con gli strumenti a corde, mi misero davanti al pianoforte e io riuscii finalmente ad accontentarli. Ero molto abile, o almeno credevo di esserlo.

Ma non ero come mio fratello, e questo loro non riuscirono mai a digerirlo. Così mi lasciarono in disparte, concentrandosi sul frutto migliore della loro unione. Si dimenticarono di me, diventai un fantasma ai loro occhi.

Tentai sempre di sforzarmi con il piano, partecipando a numerosi saggi a cui loro non potevano mai venire, perché: “Tuo fratello oggi ha un’esibizione importante. Non vorrai certo essergli d’ostacolo per il suo successo, vero, tesoro?”. In verità, non mi importava niente di mio fratello, del suo violino o del mio piano: avrei solo voluto che mi mostrassero più attenzioni, che mi degnassero di uno sguardo, che mi elogiassero. Avrei voluto che mi amassero come loro figlia, e non come trofeo.

Ma non mi diedero niente di tutto questo.

E adesso se ne sono andati, lasciandomi da sola con un pianoforte, portandosi con loro mio fratello e il suo talento.

Non gli è mai importato molto di me, per loro bastava solo che sapessi muovere le dita sui tasti bianchi e d’ebano. Ma mio fratello era sempre stato la loro gioia, il loro orgoglio.

Io ero solo la figlia che sapeva strimpellare il piano. Nient’altro.

Non so perché mi sono buttata: forse avevo paura di restare di nuovo sola. Forse volevo che qualcuno si accorgesse della mia presenza. O forse volevo solo sfuggire dall’incubo del pianoforte”.

 

Tutta questa conversazione a senso unico avvenne sotto gli occhi del Professore, che appuntava meticolosamente ogni cosa, annuendo di tanto in tanto.

Loki sembrava fungere da balsamo per la salute mentale della ragazza. Adesso Sofia sorrideva più spesso, aveva smesso di lanciare con la mente oggetti contro i medici che la visitavano; talvolta rideva, arrossiva come un’adolescente innamorata, o stava semplicemente in silenzio, con gli occhi adoranti fissi sul riflesso di fronte a lei.

 

“Sembra che sia in venerazione di un dio” scherzò un giorno il Professore.

 

Ma questa calma apparente venne bruscamente interrotta.

Sofia si fece più allerta: smise di parlare quando c’era uno dei medici a farle visita, lo faceva solo di notte, quando nessuno poteva sentirla. Lanciava sguardi di odio al Professore, lo cacciava lanciandogli addosso ogni sorta d’oggetto con il pensiero; una mattina il Professore la trovò abbracciata allo specchio, con un sorriso sereno sulle labbra.

Preoccupati, i medici e il Professore stesso decisero di portarle via Loki, così da recidere definitivamente il legame fra la realtà e la fantasia. Questa decisione segnò la loro sorte.

Sofia, che era stata addormentata preventivamente con dei farmaci, aprì di scatto gli occhi come la prima volta che si era risvegliata dal sonno eterno e, non appena vide gli uomini in camice bianco che sollevavano di peso lo specchio, lanciò un grido disumano che ruppe le finestre di tutta la clinica e spaventò a morte i bambini. Perfino Loki si incrinò.

I medici si tapparono le orecchie inutilmente, tentando di far uscire quel doloroso stridio dentro la loro testa. Il Professore si gettò addosso alla ragazza, cercando di spaventarla e di farla smettere.

Sofia cessò di urlare e i suoi occhi – troppo grandi per quel volto sottile, troppo spietati per appartenere a una ragazzina di quindici anni – si fissarono sulla figura rattrappita e terrorizzata del Professore, cercando il suo sguardo per un’ultima volta, sprizzando scintille e una vita che sembrava essersi spenta del tutto. Il Professore, come fulminato da quello sguardo, si immobilizzò al suo posto e cadde a terra con un tonfo secco, con gli occhi spalancati e ciechi e un rantolo strozzato che usciva dalla sua gola. Poi non si mosse più.

Gli altri medici, dopo questa scena, fuggirono dalla stanza maledetta in preda all’isterismo. Uno di loro, come raccontò in seguito, disse che gli parve di aver visto sullo specchio incrinato non l’immagine di una ragazza infuriata, di un demone dagli occhi verde smeraldo: ma quella di un uomo con lo stesso sguardo bramoso e adirato, con gli stessi occhi verdi, che sorrideva malignamente di una scena sconosciuta.

Come tutti ammisero solo alla fine di tali eventi, i due miracoli avevano risvegliato un mostro.

Nessuno era riuscito a vedere più a fondo delle apparenze, oltre quella sottile striscia di vetro che separa due mondi apparentemente distanti, ma più vicini di quanto venga creduto.

E quel mostro sparì dalla sua prigionia bianca, fatta di gommapiuma, di follia e di inganni. Stavolta, però, non era solo.

Non lo sarebbe più stato.

 

 

 

 

 

 

 

SPAZIO DELL’AUTRICE:

Che dire? Capitolo abbastanza lungo e forse noioso, ma mi serviva da trampolino per il lancio XD In questa storia ci sono numerosi riferimenti alla canzone “Monster” dei Paramore, non solo perché mi ci sono fissata, ma anche perché è l’origine principale dell’ispirazione. Ora seguiremo le vicende della giovane Sofia e del suo “amico immaginario” Loki: la vera storia inizia adesso.

Con la speranza che mi seguiate ancora, ci vediamo al prossimo capitolo!

See you again!

 

 

 

 

  
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