Miracoli e mostri
Giorni fa, nel centro di Milano, avvenne un miracolo. Anche se
forse la scienza non sarebbe stata molto d’accordo, e l’avrebbe semplicemente
chiamato “caso fortuito”, in quegli ultimi tempi di sconvolgimenti naturali era
più che giustificabile chiamarlo così.
Infatti, di miracolo si trattava.
Una ragazza, sotto lo sguardo stupito di numerosi impiegati che
lavoravano all’interno del Palazzo di Vetro, si gettò dall’ultimo piano della
struttura, priva di ogni indumento di riconoscimento, e si schiantò con tutto
il suo peso sul cofano di una Peugeot parcheggiata lì sotto. I soccorsi
arrivarono immediatamente dopo la chiamata d’urgenza e, senza troppe speranze,
tentarono di rianimarla in ogni modo, impietositi per il fatto che la ragazza
fosse ancora giovane e avesse optato per un metodo alquanto vistoso e poco elegante di uccidersi e allo stesso
tempo desiderosi di strappare almeno una vita innocente dall’abbraccio della
Morte.
Nonostante perdesse sangue a vista d’occhio dalla nuca, i soccorsi
si affaccendarono per trovare su quel corpo immobile un battito, un’apparenza
sottile di vita che facesse sperare. Ma tutto fu inutile: non c’era più vita in
quelle membra.
Quando decisero di lasciar perdere, avvenne appunto il miracolo.
La ragazza spalancò gli occhi, terrorizzata, confusa, non capendo
come avesse fatto a ritrovarsi sul dorso di una macchina ormai distrutta e
circondata da una folla di estranei che la guardavano con la stessa faccia di
uno che aveva visto un fantasma. Tutti, passanti compresi, gridarono al miracolo.
La ragazza venne portata d’urgenza all’ospedale per controllare le
sue vere condizioni e accertarsi che quegli occhi aperti – due occhi di un
verde accesso, simili a due smeraldi – non fossero stati un’illusione. Lì venne
anestetizzata, ricucita, controllata, curata, spostata varie volte da diverse
sale e infine lasciata in pace a riposare senza il bisogno di particolari
farmaci con effetto calmante.
Con grande stupore dei medici, giunse in ospedale con buona parte
delle ossa a posto e gli enormi tagli su braccia e gambe già rimarginati.
Alcuni dissero che quello era un vero e proprio miracolo, altri affermarono che
lei non era un comune essere umano, ma un angelo caduto. Questi ultimi vennero
presi per pazzi.
In seguito, riuscirono a capire di chi si trattava, rinvenendo
nell’appartamento che divideva con una zia vari documenti che confermavano la
sua identità. Sofia Pagani, tredici anni, figlia di madre cantante e padre
violinista; aveva anche un fratello, promettente violinista. I genitori e il
fratello rimasero coinvolti nella catastrofe a New York, avvenuta qualche mese
fa a opera dell’armata di alieni guidata dal dio dell’inganno Loki. Il fratello era scomparso, mentre i genitori erano
morti. Gli psicologi a cui venne affidata affermarono che la sua decisione estrema era stata provocata
dalla scioccante notizia di essere rimasta improvvisamente orfana: nessuno,
ovviamente, osò contrastate questa illuminante verità.
Sofia, ancora sotto shock, perse l’uso della parola e si trasformò
in un’ombra silenziosa. Sembrava quasi essersi dimenticata cosa fossero il
dolore o la tristezza, così come sembrava aver cancellato dalla mente ogni
ricordo riguardante il suo passato, compresi i volti dei genitori e del
fratello. Il Professore – perché così veniva chiamato dai suoi colleghi – che
si occupò fino in fondo del suo caso disse che un fatto del genere era
assolutamente normale per quella giovane creatura, privata così all’improvviso
di ogni affetto.
“Evidentemente, deve aver pensato che, per non provare più dolore,
fosse meglio omettere ogni informazione, ricordo o immagine riguardante la
fonte di tale sofferenza. Per codesto motivo non sembra ricordare chi siano i
suoi genitori o suo fratello, ma dentro di sé ne è ancora cosciente” disse agli
altri dottori che chiedevano in continuazione consigli illuminanti.
Di tutte le cose che disse, forse questa fu la più veritiera.
Non appena le sue condizioni fisiche si furono ristabilite, Sofia
venne trasferita in una casa di cura in America, dove vi lavorava appunto il
Professore, e lì restò per due anni e mezzo, in compagnia di numerosi coetanei
e bambini che, come lei, avevano perso la famiglia in quegli infausti giorni a
New York.
Sofia stette un anno intero senza parlare, persa in un mondo suo
dal quale sembrava non voler uscire, incurante della gente che le stava accanto
o del mondo intero. Per quanto le parlassero o la visitassero, lei non sembrava
accorgersi della loro presenza; si aggirava per i corridoi – seguita da una
scorta di tre medici – come un fantasma, osservando tutto ciò che la circondava
senza guardare veramente. Alcuni erano del parere che a questo punto era
impossibile reinserirla nella società.
Ma un giorno avvenne un secondo miracolo: Sofia parlò.
Le sue parole, la sua attenzione, non erano rivolte a uno dei
medici o al Professore –che passava gran parte del suo tempo insieme a lei in
un interminabile gioco di sguardi –, ma a se stessa. Parlava da sola
nell’enorme stanza bianca che le era stata data, piena di giochi con diversi
strati di polvere, di libri, di fogli bianchi e colori.
Sofia si era creata un amico immaginario con cui trascorreva ore
intere a chiacchierare, riversando in lui tutta la sua voce, tutti i suoi
sentimenti, trattandolo quasi come un essere reale. Parlava con lui solo,
incurante della presenza degli altri dottori all’interno della stanza che
l’ascoltavano avidi di sapere: continuava a vivere come se loro non
esistessero.
La conversazione era iniziata all’improvviso, sotto lo sguardo
interdetto e stupito del Professore, e verteva sulla monotonia di quel luogo
così spento e pieno di pazzi.
Il Professore giunse alla conclusione che la conversazione con
l’amico immaginario – che Sofia chiamava amichevolmente “Principe” – era
iniziata già da molto tempo e durava tutt’ora. Si diede dello stupido per non
averlo capito prima. Di fronte al suo seguito di ammiratori disse però che ci
era arrivato già da tempo, ma aveva preferito vedere come si sviluppava la
situazione prima di rivelarlo.
Tutti, ovviamente, gli credettero.
Un giorno Sofia si rivolse per la prima volta a uno dei medici:
voleva uno specchio, alto e rettangolare, in modo da poter vedere il proprio
riflesso dopo tanto tempo. Il Professore esaudì felice la sua richiesta e, il
giorno stesso in cui fu chiesto, lo specchio venne posizionato nella stanza
della ragazza.
Non appena Sofia vi si specchiò, spalancò gli occhi sorpresa e
trattenne il respiro, poi sorrise, dicendo che era finalmente felice di poterlo
vedere. Il Professore credette che si stava riferendo al suo riflesso, ma il
vero destinatario di quelle parole era qualcun altro.
Sofia non vi vedeva la sua immagine, ma quella del Principe. Tutti
arrivarono a questa conclusione dopo che la videro parlare al suo riflesso,
ponendo domande a cui riceveva – almeno nella sua testa – una risposta.
Il Professore disse che anche questo era normale. Ma smise di
ripeterlo non appena accaddero cose strane in quella stanza.
Ad esempio, uno dei medici gli riferì che il nuovo nome dell’amico
di Sofia era Loki. Quando il Professore gliene chiese
il motivo, interrompendola da uno dei suoi soliti monologhi, Sofia gli disse
con enorme fastidio che quello era il nome del dio degli inganni, protagonista
delle numerose leggende nordiche che avevano popolato la sua infanzia.
“E poi, ha detto di chiamarsi così!”
In seguito iniziarono i primi eventi strani: oggetti che sparivano
o che venivano ritrovati da un’altra parte, pastelli colorati che si libravano
a mezz’aria e si spostavano guidati da una forza misteriosa nella stanza di
Sofia, orsi di pezza che si mettevano a ballare, mobili che si alzavano da
terra. E Sofia al centro di tutto questo, seduta su una sedia anch’essa a
mezz’aria, con la bocca piegata in un ghigno soddisfatto e malizioso.
Quasi tutti i medici della clinica si spaventarono e rifiutarono
di avvicinarsi alla ragazza. Tutti tranne il Professore, che continuava la sua
missione senza piegarsi agli strani fatti. Anche gli altri bambini avvertivano
il pericolo nell’aria e se ne allontanavano, come se si fosse trattato di un
pericoloso morbo.
Dopo le strane magie – chiamate con disprezzo dal Professore: “sporchi trucchi da fattucchiere” – e
altre levitazioni, Sofia iniziò ad aprirsi sempre di più allo specchio, ormai
soprannominato da tutti “Loki”. Raccontò dei rapporti
con la famiglia, dei suoi sentimenti, rivelando la parte umana che sembrava
ormai essersi congelata per sempre.
Emersero cose che nemmeno i medici, per materiale di cui erano
sprovvisti, sospettavano.
“Mia madre cantava con la sua voce d’angelo, mentre mio padre
l’accompagnava con il violino” raccontava Sofia, “ed iniziarono entrambi mio
fratello, il primogenito, all’arte del violino. Fin da piccolo era molto dotato
e i miei genitori riponevano grandi speranze in lui: ma non riuscii mai a
capire se al fratellone andasse veramente bene questa situazione. Forse perché
non ci parlavamo molto spesso, lui era impegnato con il violino e i miei
genitori gli stavano sempre con il fiato sul collo. Non ha mai avuto
un’infanzia normale, né il resto della vita.
Io, naturalmente, venni dopo. In tutti i sensi.
Figlia di due grandi artisti del panorama musicale, sorella di un
genio del violino, anch’io dovevo possedere il gene della musica. O almeno così
credevano tutti. Ad appena cinque anni, mi misero in mano il violino, ma io non
possedevo il talento di mio fratello; avevo comunque ereditato le dita lunghe e
affusolate di mio padre, perciò, quando persero le speranze con gli strumenti a
corde, mi misero davanti al pianoforte e io riuscii finalmente ad
accontentarli. Ero molto abile, o almeno credevo di esserlo.
Ma non ero come mio fratello, e questo loro non riuscirono mai a
digerirlo. Così mi lasciarono in disparte, concentrandosi sul frutto migliore
della loro unione. Si dimenticarono di me, diventai un fantasma ai loro occhi.
Tentai sempre di sforzarmi con il piano, partecipando a numerosi
saggi a cui loro non potevano mai venire, perché: “Tuo fratello oggi ha un’esibizione importante. Non vorrai certo
essergli d’ostacolo per il suo successo, vero, tesoro?”. In verità, non mi
importava niente di mio fratello, del suo violino o del mio piano: avrei solo
voluto che mi mostrassero più attenzioni, che mi degnassero di uno sguardo, che
mi elogiassero. Avrei voluto che mi amassero come loro figlia, e non come
trofeo.
Ma non mi diedero niente di tutto questo.
E adesso se ne sono andati, lasciandomi da sola con un pianoforte,
portandosi con loro mio fratello e il suo talento.
Non gli è mai importato molto di me, per loro bastava solo che
sapessi muovere le dita sui tasti bianchi e d’ebano. Ma mio fratello era sempre
stato la loro gioia, il loro orgoglio.
Io ero solo la figlia che sapeva strimpellare il piano.
Nient’altro.
Non so perché mi sono buttata: forse avevo paura di restare di
nuovo sola. Forse volevo che qualcuno si accorgesse della mia presenza. O forse
volevo solo sfuggire dall’incubo del pianoforte”.
Tutta questa conversazione a senso unico avvenne sotto gli occhi
del Professore, che appuntava meticolosamente ogni cosa, annuendo di tanto in
tanto.
Loki sembrava fungere da balsamo per
la salute mentale della ragazza. Adesso Sofia sorrideva più spesso, aveva
smesso di lanciare con la mente oggetti contro i medici che la visitavano;
talvolta rideva, arrossiva come un’adolescente innamorata, o stava
semplicemente in silenzio, con gli occhi adoranti fissi sul riflesso di fronte
a lei.
“Sembra che sia in venerazione di un dio” scherzò un giorno il
Professore.
Ma questa calma apparente venne bruscamente interrotta.
Sofia si fece più allerta: smise di parlare quando c’era uno dei
medici a farle visita, lo faceva solo di notte, quando nessuno poteva sentirla.
Lanciava sguardi di odio al Professore, lo cacciava lanciandogli addosso ogni
sorta d’oggetto con il pensiero; una mattina il Professore la trovò abbracciata
allo specchio, con un sorriso sereno sulle labbra.
Preoccupati, i medici e il Professore stesso decisero di portarle via
Loki, così da recidere definitivamente il legame fra
la realtà e la fantasia. Questa decisione segnò la loro sorte.
Sofia, che era stata addormentata preventivamente con dei farmaci,
aprì di scatto gli occhi come la prima volta che si era risvegliata dal sonno
eterno e, non appena vide gli uomini in camice bianco che sollevavano di peso
lo specchio, lanciò un grido disumano che ruppe le finestre di tutta la clinica
e spaventò a morte i bambini. Perfino Loki si
incrinò.
I medici si tapparono le orecchie inutilmente, tentando di far
uscire quel doloroso stridio dentro la loro testa. Il Professore si gettò
addosso alla ragazza, cercando di spaventarla e di farla smettere.
Sofia cessò di urlare e i suoi occhi – troppo grandi per quel
volto sottile, troppo spietati per appartenere a una ragazzina di quindici anni
– si fissarono sulla figura rattrappita e terrorizzata del Professore, cercando
il suo sguardo per un’ultima volta, sprizzando scintille e una vita che
sembrava essersi spenta del tutto. Il Professore, come fulminato da quello
sguardo, si immobilizzò al suo posto e cadde a terra con un tonfo secco, con
gli occhi spalancati e ciechi e un rantolo strozzato che usciva dalla sua gola.
Poi non si mosse più.
Gli altri medici, dopo questa scena, fuggirono dalla stanza
maledetta in preda all’isterismo. Uno di loro, come raccontò in seguito, disse
che gli parve di aver visto sullo specchio incrinato non l’immagine di una
ragazza infuriata, di un demone dagli occhi verde smeraldo: ma quella di un
uomo con lo stesso sguardo bramoso e adirato, con gli stessi occhi verdi, che
sorrideva malignamente di una scena sconosciuta.
Come tutti ammisero solo alla fine di tali eventi, i due miracoli
avevano risvegliato un mostro.
Nessuno era riuscito a vedere più a fondo delle apparenze, oltre
quella sottile striscia di vetro che separa due mondi apparentemente distanti,
ma più vicini di quanto venga creduto.
E quel mostro sparì dalla sua prigionia bianca, fatta di
gommapiuma, di follia e di inganni. Stavolta, però, non era solo.
Non lo sarebbe più stato.
SPAZIO DELL’AUTRICE:
Che dire? Capitolo abbastanza lungo e forse noioso, ma mi serviva
da trampolino per il lancio XD In questa storia ci sono numerosi riferimenti
alla canzone “Monster” dei Paramore, non solo perché
mi ci sono fissata, ma anche perché è l’origine principale dell’ispirazione. Ora
seguiremo le vicende della giovane Sofia e del suo “amico immaginario” Loki: la vera storia inizia adesso.
Con la speranza che mi seguiate ancora, ci vediamo al prossimo
capitolo!
See you again!