Disclaimer: i
personaggi sono proprietà di Fujimaki Tadatoshi.
La citazione in apertura è della canzone “Please don’t
go” (Barcelona) – ed è la mia personale colonna
sonora per la stesura di tutto ciò.
Note: dai prossimi capitoli le note
saranno a fine capitolo ma, in questo caso, ho pensato che per rendere più
fluida la lettura – essendo questa una AU ed avendo per forza di cose alcuni
elementi modificati – fosse preferibile metterle prima.
Ho cercato di mantenere i personaggi con gli stessi rapporti del passato:
tuttavia, il collante proprio del manga (il basket) qui è quasi totalmente
assente se non nel background di alcuni di loro. Per questo motivo, la
Generazione dei Miracoli non solo non esiste “sportivamente” ma non c’è proprio
a livello di gruppo di persone che si sono conosciute: solo alcuni membri,
infatti, sono stati mantenuti come compagni delle medie. Confido che sarà più
chiaro leggendo 8D *si spiega uno schifo*
Concludo dicendo che io ci ho provato a convincermi a non scriverla, ma nessuno
mi ha aiutata a desistere, ecco T_T
If you want me to break down
and give you the keys,
I can do that but I can’t let you leave.
«Kagami,
Kuroko… tutto a posto? Nulla di rotto?»
La voce di Kiyoshi li raggiunse, non troppo lontana, nella stanza immersa nel
buio: vi si leggeva, senza troppe difficoltà, una nota di preoccupazione.
Probabilmente la cosa si doveva al fatto che non si vedesse ad un palmo dal
proprio naso e che, conseguentemente, il più grande dei tre non potesse
sincerarsi delle condizioni degli altri due.
Kuroko, che non vedeva certo meglio o più di lui ma che era abbastanza certo di
avere ancora tutto al posto giusto, pronunciò un pacato: «Credo che il danno
maggiore sia un bernoccolo, Kiyoshi-senpai.»
Nel rassicurarlo, una mano era andata a massaggiarsi appena la fronte, che
aveva cozzato contro qualcosa di abbastanza duro che non sapeva identificare
meglio. Almeno finché Kagami non pronunciò un assai meno pacato: «Ohi, Kuroko,
levati un po’!» senza nemmeno dargli il tempo di adoperarsi e smuovendosi sotto
il compagno; Tetsuya comprese che il motivo del suo atterraggio relativamente
sul morbido e la causa del bernoccolo, con ogni probabilità, coincidevano. Doveva
aver urtato la testa di Kagami.
Poco distante, Teppei si concesse un palese sospiro di sollievo e uno sbuffo
leggero e divertito: se i suoi kohai scherzavano tra loro come sempre, non c’era
di che preoccuparsi.
Stava prendendo in considerazione di alzarsi e, con cautela, provare a muovere
qualche passo nei dintorni, quando una quarta voce riempì il silenzio e il buio
di quel posto ancora sconosciuto.
«Kurokocchi?» pronunciò, incerta come se la persona a cui apparteneva fosse
poco convinta della veridicità della sua stessa affermazione – o domanda,
piuttosto.
«…Kise-kun?» fu la replica che, immediata, fu rivolta da Kuroko all’indirizzo
di quella voce. Come se fino a quel momento l’assenza di un’illuminazione fosse
stata dovuta al semplice divertimento di vedere quando e come si sarebbero riconosciuti
fra loro, improvvisamente e non senza un certo fastidio, la luce gli permise di
riconoscere il posto in cui si trovavano come una stanza.
Più che una sala, l’arredamento spoglio faceva pensare più a qualcosa di più
simile ad un’anticamera: come se non ci si dovesse sostare più di tanto, ma
fosse adibita solo al passaggio delle persone, vuoi verso la porta che Teppei
aveva immediatamente notato alla propria destra, vuoi verso quella di una
possibile uscita… che invece non c’era. Almeno
apparentemente.
Un secondo sguardo più attento fece notare da subito l’assenza di finestre, il
che denotava un’unica possibilità in effetti: l’unica porta presente. Alle
pareti, ricoperte di una carta da parati sul beige chiaro e che non avrebbe
saputo dire quanto vecchia o nuova fosse, non c’erano molte decorazioni. Un
paio di quadri: uno raffigurante un paesaggio che a Teppei, di primo acchito,
sembrava occidentale. Due bambini, fratelli si supponeva, correvano su uno di
quei ponticelli spesso sopra i fiumiciattoli, circondati dal verde e dai fiori.
L’altro invece era molto più familiare, uno dei rotoli dipinti tipici dell’arte
giapponese: una giovane donna, sicuramente nobile dati gli abiti pregiati e
tradizionali che indossava; in alto e alla sua sinistra, di medie dimensioni, l’ideogramma
di “uta” – “canto”,
“poesia”.
La particolarità non sembrava essere solo gli stili completamente differenti,
ma dove i due dipinti erano appesi: non solo su due pareti diverse, ma nemmeno
l’uno di fronte all’altro in linea d’aria. Sembrava quasi che fossero stati posti
in maniera del tutto casuale.
Kagami – ora libero dal peso di Kuroko, al suo fianco – era a terra, nella
stessa posizione di chi è palesemente caduto all’improvviso: scomposto, si
massaggiava lo stomaco. Kuroko, invece, osservava un punto poco distante da
Teppei; questi, voltandosi, notò la quarta figura: capelli biondi e sguardo
sorpreso su Kuroko, era l’unico che non conosceva. Comune a tutti loro,
sembrava – a giudicare dal fatto che anche il biondo era a terra – che fossero
finiti gambe all’aria senza distinzioni.
Teppei si alzò, muovendo pochi passi per raggiungere il biondo e allungando poi
una mano, rivolgendogli uno sguardo cortese: «Kiyoshi Teppei.» disse, sebbene
la mano fosse intesa per aiutarlo ad alzarsi più che per presentarsi.
Il biondo ricambiò prontamente il sorriso, accettando di buon grado e senza
esitazioni la mano tesa del più grande e rimettendosi in piedi: «Kise Ryouta!»
si presentò subito a sua volta.
Quel nome lo illuminò: sebbene non vantasse una fissazione per la moda, Kise
Ryouta era uno dei modelli-studenti del momento. Non era difficile ricordarlo,
non fosse altro perché appariva su più di una rivista.
Kuroko e Kagami, che nel frattempo si erano rimessi in piedi, si erano
avvicinati agli altri due e il primo si rivolse proprio al biondo: «Kise-kun,
che ci fai qui?» domandò senza troppi preamboli, lo sguardo chiaro subito
incatenato a quello nocciola dell’altro. Il biondo si guardò a destra e a
sinistra, tornando poi su Tetsuya.
«In realtà vorrei sapere “qui” dov’è. Io ero sull’autobus…
o sognavo di essere su un autobus.» aggiunse quasi ripensandoci, una nota
divertita; chiaramente non credeva davvero all’ultima parte, ma d’altronde non
era facile capire come si potesse finire da un mezzo di trasporto ad una stanza
vuota, salvo che una delle due cose fosse stata un sogno o lo fosse in quel
momento stesso. Ma, a giudicare dal dolorino sul suo posteriore nell’incontro
ravvicinato con il pavimento, dubitava che la fase onirica fosse quella
attuale.
«Ohi, Kuroko» lo chiamò nuovamente Kagami «chi è questo?» interruppe, senza
farsi troppi problemi, quel primo tentativo di brainstorming generale a cui
Kise aveva dato inizio. Kuroko spostò appena lo sguardo sul compagno di classe:
«Kise-kun era nella mia classe alle medie.» spiegò semplicemente, rivolgendosi
quindi al biondo «Kagami-kun è in classe con me al liceo.» concluse così quella
stramba ed essenziale presentazione.
Teppei si accodò immediatamente: «Ed io sono un senpai di entrambi.» aggiunse
divertito.
Kise sorrise al più grande, occhieggiando Kagami: «Allora siamo coetanei, Kagamicchi! Sei bello grosso, quindi ho avuto il dubbio!»
ammise, mentre Kagami faceva notare con una totale mancanza di delicatezza che “Kagamicchi” faceva schifo e che neanche si conoscevano,
quindi doveva piantarla.
D’altra parte l’osservazione di Kise non era nemmeno stata così sbagliata: per
essere più alto della media, Kagami lo era; superava persino il biondo stesso,
sebbene in maniera quasi impercettibile se non si guardava con estrema
attenzione, e nonostante Kiyoshi superasse poi entrambi.
«Ah, Kiyoshi-san» se ne uscì – mentre Kagami non si
esimeva dall’esprimere quanto fosse ingiusto che a Kiyoshi venisse risparmiato
un nomignolo terribile – «ma giocavi a basket?» domandò a bruciapelo, sorpreso
lui stesso che gli fosse tornato in mente.
Teppei, da parte sua, sembrava altrettanto preso alla sprovvista, ma non
negativamente: «Sì, ho giocato alle scuole medie, ma ho interrotto per un
infortunio.» spiegò «Però mi stupisce che tu lo sapessi.» ammise.
«No, beh, ho letto qualcosa, eri davvero forte alle medie! E poi seguivo
qualcuno che giocava a basket» aggiunse «perciò alcuni giocatori dei tornei
scolastici me li ricordo.» concluse, chiarendo la questione.
«Ora Kiyoshi-senpai aiuta il coach al liceo.» si intromise Kuroko.
Alle dovute presentazioni, seguirono alcuni momenti di silenzio, in cui tutti e
quattro studiarono a proprio modo l’ambiente circostante; si erano allontanati
gli uni dagli altri, passando in rassegna punti diversi della stanza, quando la
voce di Kagami richiamò l’attenzione degli altri tre, mentre si esibiva in un
perplesso e seccato: «Cos’è ‘sta cosa?»
Una volta raggiunto, la prima cosa che tutti e tre notarono fu uno specchio, di
quelli dalla cornice elaborata con fantasie floreali, solitamente di fattura
occidentale. Quasi subito, tuttavia, l’attenzione si focalizzò su Kagami e il
biglietto che teneva tra le mani: una calligrafia ordinata ed elegante aveva
tracciato degli ideogrammi puliti e simmetrici. Il messaggio non era
lunghissimo, e non recava firma.
«Dov’era,
Kagami?» domandò Teppei, mentre Taiga spostava lo sguardo su di lui: «Incastrato
tra il muro e la cornice. Qui.» aggiunse, indicando la parte alta dello
specchio.
Kuroko e Kise, ai due lati di Kagami, si sporsero lateralmente per leggere il
messaggio; Teppei fece lo stesso, da sopra la spalla sinistra del kohai.
Il primo pensiero fu che era tutto chiaro: si vedevano spesso in tv quei
programmi in cui dei passanti ignari venivano messi in mezzo a qualche gioco o candid camera a loro insaputa, venendo
guidati con alcuni indizi fino alla fine o ad un teorico game over.
D’altronde, analizzato in diverso modo, quel messaggio non avrebbe avuto senso.
«Dunque vediamo.» disse Kise, rubando il foglietto di mano a Kagami, subendone
qualche iniziale protesta: «”Quattro,
tre, due, uno. Alla fine del countdown, il gioco può cominciare.”, sarebbe?»
chiese, guardandosi in giro «Quattro siamo noi e una è la porta.» osservò.
«Tre gli oggetti appesi, di cui due quadri?» azzardò Teppei, ritrovandosi
osservato da due paia d’occhi – dei suoi kohai – abbastanza stupiti; almeno
quelli di Taiga, visto che Kuroko difficilmente rendeva palesi pensieri o
emozioni al di fuori dell’attività sportiva. Il più grande ridacchiò di tutta
quella sorpresa, intuendone il motivo: «Sono bravo con i rebus e i giochi di
enigmistica.» se ne uscì, strappando persino uno sbuffo divertito a Kuroko.
Evidentemente non era proprio così ovvio da pensare come il diretto interessato
aveva sempre creduto.
Kise riportò lo sguardo sul foglio: «”Quattro
devono guardarne tre, due vicini ma divisi, due distanti ma simili.”»
«Eh?» pronunciò Kagami, ma non fu l’unico a pensarlo, purtroppo. Tutti quei
numeri erano il classico modo di confondere chi leggeva, specialmente negli
indovinelli.
«”La combinazione è precisa. Senza non si
può uscire, fermi non si può rimanere. Buon gioco.”»
«Simpatico.» commentò acido Kagami, palesemente innervosito da quel messaggio incomprensibile.
Ci fu di nuovo il silenzio, in cui tutti probabilmente stavano cercando la
propria, personale soluzione.
«Quattro devono guardarne tre… forse gli oggetti
appesi? E uno rimane vicino alla porta?» provò Kuroko, osservando gli altri.
Teppei assunse un’aria pensierosa, annuendo un paio di volte, se al più giovane
o a se stesso non fu chiaro inizialmente.
«”Due vicini ma divisi, due distanti ma simili”. Le tre cose appese sono due
quadri e uno specchio. Quindi “simili ma distanti” penso siano i quadri,
giusto?» provò ad esporre ad alta voce la considerazione fatta, l’unico punto
che sembrava meno oscuro e da cui, di conseguenza, gli era sembrato sensato
partire.
Gli altri parvero d’accordo, o non avere idee migliori.
«Se è così, allora le due cose vicine ma divise dovrebbero essere porta e
specchio. Sono vicini» indicò lo specchio, appeso alla stessa parete che
ospitava l’unica uscita «ma non sono oggetti collegati.» concluse per lui
Kuroko, al quale Teppei rivolse un sorriso, annuendo.
«E chi va davanti a cosa?» domandò spazientito Kagami: di certo era comprensibile,
visto che non era piacevole essere chiusi in qualche posto, probabilmente per
il divertimento altrui – a giudicare dall’ironico “buon gioco” con cui si
concludeva il messaggio – e avere un indovinello da risolvere per uscirne. E
non essere granché nei rompicapo.
«A giudicare dal resto del messaggio, non basta che qualcuno si metta di fronte
agli oggetti a caso. E non possiamo rimanere nella stanza…»
mormorò Kuroko, perso nelle sue personali considerazioni.
«Forse c’è un limite di tempo, no?» borbottò Kagami. Aveva, incredibilmente, un
senso.
«Sarebbe un problema, visto che non ci sono orologi né altro a segnalare quanto
ce ne rimane.» aggiunse Kise: «Però se la combinazione deve essere sensata,
allora di sicuro lo specchio è per me.» disse.
In effetti, considerato che era un modello, sembrava piuttosto ovvio visto da
quella prospettiva.
Teppei annuì appena: «Allora Kise-kun può rimanere qui. Proviamo così.» fu d’accordo,
occhieggiando poi i due kohai.
«Rimangono la porta e i due quadri.» disse, osservandoli uno di seguito all’altro,
lasciando perciò vagare lo sguardo per i vari punti della stanza. Si stava
giusto chiedendo chi potesse essere accostato al quadro con la dama, che Kuroko
si mosse proprio in quella direzione: sia Teppei che Kagami, istintivamente, lo
seguirono.
«Credo che questo sia mio.» comunicò una volta che vi fu di fronte.
Kagami inarcò un sopracciglio, perplesso: «Ti vesti da—»
«Leggo libri, Kagami-kun. Anche di poesia.» lo stroncò sul nascere indicando l’ideogramma
con un’occhiata eloquente, di quelle che sembravano come tutte le altre ma che
Kagami – vivendo a stretto contatto con Kuroko fra palestra e classe – aveva imparato
a riconoscere come più gelide di quelle normali. Si convinse a tacere.
Teppei allungò una mano a dare una pacca sulla spalla di Kuroko, come a dire “ben
fatto”. Si rivolse quindi a Kagami: «Direi che l’altro quadro è tuo, Kagami. E
la porta mia.» disse, notando nello sguardo dell’altro la perplessità più
completa; evidentemente si chiedeva perché ne fosse tanto sicuro.
«Pensavo che fosse perché il paesaggio di là mi sembra occidentale, e tu hai
vissuto in America, giusto?»
«In America?! Che forza!» li raggiunse la voce di Kise, entusiasta, dal punto
in cui era lo specchio davanti al quale era rimasto fermo.
Teppei ridacchiò, mentre Kagami scuoteva appena la testa borbottando un ‘idiota’
sicuramente rivolto al biondo.
«E per il fatto che la porta è di metallo.» aggiunse, ancora abbastanza
criptico per Kagami evidentemente, che stava per fermare il più grande mentre
questo si era voltato per raggiungere la porta. Fu la voce di Kuroko a
fermarlo: «Iron Heart.»
pronunciò in un inglese con forte accento giapponese, occhieggiando Kagami «Kiyoshi-senpai
veniva chiamato così alle medie, giusto?» gli fece notare.
Senza altri apparenti dubbi sulla questione, Kagami si posizionò di fronte al
quel quadro che – a vederlo – non gli diceva granché, deludendolo un po’,
essendosi forse aspettato di vederci qualcosa di recondito della sua infanzia e
scoprire che gli organizzatori di quello stupido gioco erano una massa di pazzi
stalker e maniaci.
Teppei, nel contempo, raggiunse la porta, posizionandosi davanti ad essa.
Il silenzio, nuovamente creatosi come naturale conseguenza di una fase di
stallo, fu rotto da Kise: «…E adesso? Pigiamo qualcosa?»
propose, chiaramente a casaccio visto che non aveva un minimo di senso,
considerando che era assai poco probabile che quadri, specchi o porta avessero qualcosa da poter pigiare.
Teppei, a lui più vicino, fissò il biondo e poi la porta; con tutta la nonchalance
possibile in un momento simile portò la mano sulla maniglia, e l’abbassò.
Scattò, socchiudendosi; il castano si voltò verso il biondo con un ampio
sorriso fiducioso: «Si è aperta!» comunicò entusiasta, mentre lo sguardo di Kise
suggeriva un “è pazzo” – nemmeno lui avrebbe aperto così casualmente la porta
di una presunta candid camera, insomma! – e Kagami semplicemente ringraziava
che quella rottura di scatole, qualunque fosse la causa, fosse finita.
Kuroko, in un secondo momento rispetto a Taiga, si avviò a sua volta verso la
porta che Teppei, contro ogni buon senso, aveva aperto di più. O così aveva
tentato di fare, non incontrando resistenza solo fino ad un certo punto.
Non era forza bruta, quella dall’altra parte: sembrava più che ci avessero
piazzato un mobile o qualcosa del genere.
«Oh oh, così presto?~» canticchiò una voce, indubbiamente femminile, oltre la
porta: «Ne, ne, Ricchan, sono stati bravi, vero?» domandò divertita.
«C-Credo di sì.» borbottò in risposta una voce, maschile di certo, ma che
sembrava di un bambino, di certo non quella profonda di un uomo.
I quattro si guardarono, interrogativamente: ad orecchio, pareva che nessuno di
loro avesse riconosciuto le voci dall’altra parte.
Poi, la porta fu aperta del tutto.