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Autore: avalon9    05/03/2007    1 recensioni
Gli youkai sono essere terribili: affascinano e uccidono. Sono esseri diversi. I ningen sono insignificanti, per uno youkai; creature semplici, irrazionali, che trascinano la vita senza comprenderla. Dei ningen gli youkai non si curano; li ignorano con superiore indifferenza.
Sesshomaru è youkai ed è orgoglioso della sua essenza. Ma un inverno, incontrerà una ningen e, da quel momento, la linea netta che separa uomini e demoni inizierà ad assotigliarsi.
Genere: Romantico, Malinconico, Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Sesshoumaru
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ciao a tutti

Ciao a tutti!

 

Allora, dopo una piccola assenza dovuta a motivi universitari, ecco un nuovo capitolo. Ormai, anche se lentamente, ci stiamo avvicinando alla fine della prima parte, che NON supererà i cinquanta capitoli. Naturalmente, alcune vicende rimarranno ambigue o abbozzate, ma saranno riprese nel continuo. ATTENZIONE! La seconda parte NON è il seguito. La storia è un tutto unitario, semplicemente divisa in due parti (al momento, ad esser sincera, sto vagliando se farne anche una terza, ma questo dipenderà dalla lunghezza della seconda) per sottolineare una spaccatura temporale.

 

Ringrazio tutti quelli che hanno atteso con pazienza che io trovassi il tempo per riprendere a scrivere e che spero non si siano stancati di questa snervante attesa. Non faccio promesse di pubblicazione, semplicemente perchè non voglio dare false speranze. L'unica cosa che posso dirvi è che ho intenzione di finire tutta la storia, anche se i tempi saranno molto lunghi.

 

Grazie infinite per la vostra pazienza e attenzione.

 

Un abbraccio,

 

Avalon

 

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO 38

PRINCIPE

 

 

Muffa. Marcio.

Quell’anfratto aveva un odore nauseante. Di melma. Di erbe macerate. Di umido. C’era un umidità fastidiosa, che ti penetra nelle ossa, facendoti rabbrividire. Riportandoti alla mente, in una crudele gioco, il calore di un fuoco, il tepore di una casa.

 

Melma.

Rendeva difficile muoversi. Faceva affondare ogni passo, legava i movimenti. Incrostava ogni cosa, con quel suo colore rivoltante. Scivolosa. Infida. Disgustosa. Copriva ogni cosa. Confondeva ogni odore.

 

Miroku spiò ancora per un po’ fra il fogliame che lo circondava. Nessun rumore. Tutto tranquillo. I demoni erano passati oltre, e non sembrava che si fossero accorti di loro. Tuttavia, per il momento era più prudente restare ancora nascosti, anche perché quei soldati non avrebbero rinunciato facilmente alla loro cattura. Alle loro prede.

 

Retrocesse carponi per alcuni metri, e poi si lasciò scivolare lungo l’anfratto fangoso. Di nuovo, una forte senso di disgusto lo prese. Più si scendeva in quella specie di falda, più l’odore di marcio aumentava. Dava il voltastomaco. Ma almeno permetteva che l’olfatto degli youkai fosse confuso. Arrancando un po’, il monaco gettò un’ultima occhiata all’apertura nascosta dalle fronde; sembrava preoccupato.

 

“Se ne sono andati?”

 

Sango sollevò stancamente la testa. Faticava molto a distinguere la figura dell’amico nell’oscurità di quel pertugio. E poi, aveva paura che le chiedesse qualcosa. Che la rimproverasse. In fondo, se erano stai scoperti la colpa era sua. Era stata lei ad abbandonare le precauzioni necessario e a gettarsi all’inseguimento di quell’ombra. Come una principiante. Anzi, come una stupida. Una maledetta stupida. Avrebbe fatto il loro gioco, lo sapeva bene, ma ogni volta che la figura di suo fratello si materializzava davanti a lei, Sango smetteva di ragionare. Si lasciva travolgere da tutte le emozioni e le paure che le si agitavano in cuore. Abbandonava, prudenza, razionalità, freddezza. Quando vedeva Khoaku, smetteva di essere una seminatrice, e diventava solo una ragazza. Senza neanche accorgersene.

 

Miroku annuì e ricambiò lo sguardo. Era esausto anche lui. Prima la corsa per tentare di fermare la ragazza, poi la resistenza che aveva opposto e infine lo sforzo compiuto per trascinarla via e continuare a correre lo avevano provato molto. Senza contare il fatto che aveva dovuto risucchiare vari demoni per aprirsi il passaggio. Non avevano neanche potuto fuggire in volo con Kirara. Troppo pericoloso: bersaglio facile da colpire per quelle strane armi in possesso dei demoni. Un’esplosione, e poi rischiavi di esser colpito da qualcosa che ti uccideva all’istante.

 

Sospirò e si inginocchiò davanti alla ragazza, incurante del fango che gli sporcava la veste. Gli faceva male vedere quell’espressione sul viso dell’amica. Gli occhi tristi e bui, il pallore sconvolto, il tremore sommesso…Stava cercando di dominarsi; di non piangere e mostrarsi forte. Stava cercando di arginare la mareggiata di emozioni che le sconvolgevano la mente e l’anima. Per quel giorno, aveva già combinato abbastanza guai. E se non fosse stato per Miroku, a quell’ora, lei sarebbe stata uccisa. Con tutti i sensi tesi a evitare di perdere le tracce del fratello, non si era neanche accorta di esser finita in trappola. Era rovinata a terra, e non avrebbe neanche avuto la forza di allontanarsi se il monaco non se la fosse caricata di peso sulle spalle. Aveva corso per ore in quel maledetto bosco con lei in spalla, portando anche Hiraikhotsu, che di certo non era un peso indifferente per chi non ci è abituato. Alla fine, avevano trovato quell’anfratto. Avevano trovato quel riparo. Miroku vi si era gettato senza pensare, rotolando e scivolando nel fango, scendendo fin quasi in fondo. Aveva trascinato Sango con sé e poi l’aveva lasciata lì, contro la roccia, per controllare che nessuno si fosse accorto d loro.

 

L’aveva ritrovata nella medesima posizione. Con le gambe strette al petto e il viso tuffato nelle ginocchia. Anche Kirara sembrava faticare a riconoscerla; le faceva delle piccole fuse, nella speranza di attirare un po’ l’attenzione della padrona. Inutile. Sango con le sentiva nemmeno, le carezze gentili della nekomata. Solitamente, almenoo Kirara riusciva a destarla dallo stato catatonico in cui cadeva dopo aver rivisto il fratello. Quella volta, però, neanche quello funzionava.

 

Miroku sospirò scoraggiato. Possibile che doveva ridursi in quello stato ogni volta? Capiva perfettamente il dolore della ragazza, il suo senso di colpa, la volontà di salvare il fratellino, ma non sopportava che, se falliva, si abbattesse a quel modo. Conosceva bene Sango: la ragazza esigeva sempre il massimo da sé, spremendo fino al limite le proprie forze e ancora era disposta a non cedere. Ancora era pronta a lottare. Fino al completo sfinimento. Quello era un lato del carattere di Sango che lo aveva da sempre affascinato. All’inizio, era stata proprio la sua grande capacità di ripresa a impressionarlo. Si era ristabilita da ferite gravissime in pochissimo tempo. Davvero notevole. Poi, aveva scoperto col tempo anche sfumature delicate di quell’anima. Aveva conosciuto tutte le sfaccettature emozionali di quella ragazza: rabbia, disappunto, felicità, gioia, tristezza…aveva visto quel viso illuminarsi per un sorriso e incupirsi per una lacrima.

 

Sango si accorse del lungo silenzio che era calato fra loro solo quando sentì le mani del ragazzo tastarle la caviglia. La pelle nuda. Non si era neanche accorta che Miroku le aveva fatto stendere la gamba e le aveva sfilato lo stivale inzaccherato. Lo fissò stranita: stava palpando lentamente la zona attorno al malleolo. E un pensiero le attraversò la testa, improvviso: l’espressione concentrata dipinta sul viso del ragazzo lo rendeva ancora più bello, più affascinante. Scosse leggermente la testa. Doveva davvero esser impazzita per arrivare a pensare simili cose. No. Doveva concentrare la sua attenzione su qualcos’altro, qualcosa che non c’entrasse direttamente con Khoaku e non la costringesse a fissare incantata Miroku.

 

“Credi che manchi ancora molto al palazzo?”

 

“Non ne ho idea. Ma se abbiamo incontrato quei demoni, non penso che sia molto lontano”

 

Miroku non aveva neanche alzato lo sguardo, rimanendo concentrato sulla caviglia della ragazza. Era un po’ gonfia, ma era del tutto naturale con la botta che aveva preso. L’unica cosa di cui voleva accertarsi era che non si fosse rotta. Alla fine, tirò un sospiro di sollievo: Sango aveva preso una brutta storta, che le avrebbe impedito di muoversi come sua abitudine e soprattutto di correre per un po’, ma nulla di più. Alla peggio, l’avrebbe portata lui in spalla.

 

Rialzò il viso e rivolse un sorriso rassicurante alla ragazza. Fu un attimo, e si ritrovò Sango sul suo petto. Avvinghiata. Stringeva convulsamente la sua veste e piangeva, balbettando scuse. Continuamente. Non faceva che ripetere quella parola. Una cantilena infinita.

 

Miroku esitò un istante, poi le passò le braccia attorno alle spalle e la strinse a sé. Non aveva nulla da farsi perdonare. Aveva commesso un errore, vero, ma quante volte lei lo aveva slavato dai suoi errori? Miroku non lo ricordava nemmeno, e non si sarebbe mai sognato di rimproverare alla ragazza uno dei rari momenti di debolezza che aveva avuto. Tuttavia, si limitò ad abbracciarla, senza nemmeno provare a fermarne le lacrime. Sapeva che Sango aveva bisogno di quel pianto. Aveva bisogno di liberarsi di tutto il groviglio emotivo che le gravava dentro. Aveva psicologicamente bisogno di sfogarsi, altrimenti la tensione mentale l’avrebbe distrutta.

 

Alla fine, Sango si addormentò senza neanche accorgersene fra le braccia del ragazzo. Quando se ne accorse, Miroku si piegò leggermente su di lei e le scostò i capelli disordinati dal viso, regalandole un leggere bacio sulla fronte. A rassicurarla. Quel pertugio non era certo il luogo più confortevole della terra, ma a lui sembrò la regga di un sovrano. Perché la ragazza era stretta a lui.

 

Tuttavia, miroku non poteva esimersi dal ripensare al motivo che gli aveva spinti a lasciare Musashi. Era passato quasi un mese da quando Inuayasha e Kagome se ne erano andati, assieme a quella ragazza, Alessandra. Da allora, non avevano più avuto loro notizie. E ormai, senza di necessità temere il peggio, erano preoccupati. Anche perché a giorni sarebbe stata luna nuova e Inuyasha si sarebbe ritrovato, umano e senza difese, nella casa del fratello. Alla sua mercè.

 

Per questo avevano deciso di raggiungerlo: per assicurarsi che stessero bene e non fossero caduti in una qualche trappola e per cercare una soluzione al problema della trasformazione. Bisognava trovarla, o il segreto dell’hanyou sarebbe divenuto di dominio pubblico.

 

Miroku si accoccolò contro la parete di terra e roccia, cercando di riscaldare Sango come meglio poteva con il suo corpo. Un fuoco sarebbe stato l’ideale, ma la luce e il fumo avrebbero potuto attirare l’attenzione. Meglio evitare e sopportare un po’ di freddo. Si addormentò a sua volta, dopo aver ricontato i giorni che li separavano dalla luna nuova: ne mancava uno.

 

Speriamo di arrivare in tempo…

 

*****

 

“Stai dormendo?”

 

Nella tenda, un piccolo braciere spandeva intorno una debole luminescenza, troppo fioca per riscaldare anche quell’ambiente così piccolo. Per il resto, l’arredamento era ridotto al minimo: una stuoia intrecciata per terra, una specie di cassapanca e una gruccia appesa al palo centrale, con l’armatura composta. Infine, un cumulo di coperte scure, su una branda nell’ombra.

 

“No…Siediti, se vuoi parlare”

 

Koga non aprì nemmeno gli occhi e rimase con le coperte tirate fin sopra metà del viso. Non aveva freddo e neanche reale bisogno di coprirsi, ma era un modo comodo per sfuggire a chi lo voleva assillare. Fingere di dormire. Di non sentire. Per questo aveva preferito ritirarsi nella sua tenda, all’accampamento, piuttosto che rientrare a palazzo. Non gli andava proprio di dover sostenere discussioni infinite e spiegare a tutti il perché di quel gesto: un gesto insensato, che avrebbe potuto costare caro, decretare la sconfitta, ma lui non ce l’aveva fatta a uccidere quel ragazzo. Non ci era riuscito.

 

Inuyasha si sedette per terra, contro il letto, con un mezzo sospiro, togliendosi il mantello fradicio che aveva indossato per confondersi con i soldati. Se anche le truppe di Koga non lo avrebbero mai attaccato, non poteva esser così certo anche degli altri demoni che vivevano all’accampamento. Soprattutto, per lui non era molto sicuro aggirarsi fra quelle tende la notte. Tramortirlo e ucciderlo sarebbe stato molto semplice. E nessuno avrebbe parlato. Un’omertà totale. Un’indifferenza dilagante. In fondo, perché preoccuparsi di che fine avesse fatto il bastardo? Se era morto, il Principe non avrebbe potuto che rallegrarsene.

 

Tuttavia, in quel momento andare da Koga gli era sembrata la cosa migliore. Per due motivi: doveva chiedergli un favore e poi voleva sapere cosa accidenti gli fosse preso. Non era da lui risparmiare un nemico, in battaglia. Quando gli era giunta la notizia, aveva sorriso isterico. impossibile. Impossibile. Koga non si sarebbe mai lasciato sfuggire l’occasione di uccidere uno dei principi nemici. No: doveva esser successo qualcosa che glielo aveva impedito. Forse, era stato costretto a risparmiarlo per non venir catturato, o per evitare i proiettili di quelle dannate armi.

 

L’hanyou sapeva bene quanto fossero pericolose. Erano vari giorni che aiutava all’ospedale da campo, e ogni giorno si rendeva conto del grave pericolo che quelle aledette armi comportavano: aveva visto moltissimi demoni, veterani di battaglie, esperti e potenti, spegnersi fra sofferenze e spasimi che gli avevano straziato l’anima come mai nulla prima di allora.

 

Infine Koga, stanco del silenzio del ragazzo, si girò su un fianco, emergendo dalle coperte. “Cosa vuoi? Sei venuto anche tu a farmi la predica?”

 

“…No…” rispose inuyasha, ma con ben poco sollievo. Sapeva benissimo che Koga aveva già sopportato le sfuriate degli altri generali. Nella sala delle udienze stava per accadere il finimondo e alle accuse e agli insulti si sarebbero ben presto sostituite le mani se l’arrivo di Sesshomaru non avesse imposto di nuovo l’ordine. L’inuyoukai non aveva commentato nulla, limitandosi a freddare con lo sguardo tutti i presenti. Koga si era nuovamente sorpreso della capacità di soggezione che il bel demone era in grado di esercitare. Anche se cieco, la maestà della sua figura era sufficiente a imporre un potere e un controllo totale. E in oltre, la sua autorità si era rinsaldata dopo il duello di due giorni prima, quando il Principe aveva dimostrato di saper di nuovo combattere.

 

“Vuoi dirmi cosa è successo?”. Inuyasha abbassò il volto, a guardarsi le mani intrecciate. Sapeva che il fratello non aveva sprecato mezza parola di commento sull’accaduto. Aveva lasciato correre, forse ritenendo che il Principe degli Yoro aveva agito in quel modo per sue motivazioni. Comunque, il fatto aveva suscitato un certo clamore, anche perché era veramente raro che qualcuno, disubbidendo a Sesshomaru non incorresse nella sua fredda furia. Eppure, niente. Neanche un blando rimprovero. Neanche da parte di Kumamoto. E forse era davvero quell’indulgenza a pesare all’ookami.

 

“Perché? Per poi poter ridere di me? Della mia debolezza?”. Koga sogghignò. Una smorfia di autocommiserazione. “Ti piacerebbe, vero, potermi sbeffeggiare davanti a tutti…”

 

Inuyasha si alzò stizzito. Non era venuto per prenderlo in giro, solo per cercare di aiutarlo. In definitiva, potevano dire di conoscersi da anni, e se anche i loro rapporti erano migliorati di molto solo negli ultimi mesi, nessuno dei due poteva negare di provare una profonda stima nei confronti dell’altro. Anzi, più di una volta koga aveva dovuto ammettere a se stesso la superiorità dell’hanyou.

 

“Se la pensi così…Quando avrei finito di farneticare, vai da Ayame. È molto preoccupata per il tuo comportamento”

 

Inuyasha aveva alzato un lembo della tenda, fermandosi un attimo sulla soglia. Era stata la yasha a raccontargli quello che era accaduto, e a chiedergli di andare a parlargli. Con lei, diceva, non si confidava moto, ma forse con un ragazzo sarebbe stato diverso, forse si sarebbe sentito meno in imbarazzo. Perché lei si rifiutava di credere che Koga avesse deliberatamente risparmiato quell’avversario. Lei lo conosceva bene. In battaglia dava tutto se stesso e non si ritirava prima di esser sicura di aver fatto tutto il possibile.

 

“…mio fratello…”

 

La voce gli arrivò in un sospiro. Inuyasha si voltò, facendo ricadere la stoffa della tenda. Rimase immobile, a fissare l’amico sul letto. Koga si era girato supino, portandosi un braccio sulla fronte con un sospiro.

 

Inuyasha deglutì a vuoto. Forse non aveva capito bene. Sicuramente. Koga gli aveva accennato qualcosa riguarda a suo fratello, ma gli aveva anche detto che era scomparso da moltissimi anni. E che lui non ne aveva più avuto notizie. Sperò di aver capito male, perché altrimenti, se davvero la realtà era quella che stava prendendo corpo velocemente nella sua mente, allora per Koga sarebbe stato arduo decidere la sua posizione.

 

“…Quel demone…è mio fratello…”

 

Vero. Vero. Vero. I suoi sospetti si erano rivelati autentici. E lui per primo non riusciva crederci. Gli sembrava impossibile. Inconcepibile. Aveva tenuto segreti i suoi dubbi, e aveva sperato di ritrovarsi di nuovo faccia a faccia con lui sul campo di battaglia. Lo aveva cercato per tutta la durata dello scontro. Alla fine, gli si era parato davanti all’improvviso: capelli neri lunghi, occhi azzurri. Della stessa tonalità dei suoi. Dal taglio sottile. Si erano fissati per alcuni istanti. Entrambi sembravano intenti ad afferrare immagini sbiadite della memoria. Koga aveva rivisto un cucciolo di demone correre con lui nei boschi, aveva visto suo fratello rotolare nella neve, tuffarsi in un fiume, gettarsi fra le foglie rosse d’autunno. E il viso di quel bambino somigliava in modo impressionante a quello del Principe che aveva di fronte. Coincidenza? Caso? Scherzo del destino? Koga non avrebbe potuto dire se davvero aveva davanti suo fratello, ma c’era un solo modo per scoprirlo.

 

Aveva attaccato. Con decisione e frustrazione. Con la paura che fosse davvero lui e la trepidazione di assicurarsi di averlo ritrovato. Mentre nella sua mente si accavallavano veloci immagini, ricordi, pensieri, supposizioni, aveva continuato a lottare cercando in ogni ombra del viso avversario conferme o smentite. Cercando di sapere la verità. Infine era riuscito a costringerlo a terra, la veste del kimono, sotto la corazza, strappata per tutto il lembo superiore. Aperta a mostrare una cicatrice sottile, che dalla base del collo scendeva sul petto. Koga si era fermato, pietrificato da quanto aveva visto. Quella cicatrice…quella cicatrice era una prova inconfutabile. Suo fratello se l’era fatta da piccolo, cadendo da un albero, mentre facevano a gara nel scalarlo. Era impossibile sbagliarsi. Le ferite dei demoni si rimarginano da sole e normalmente non se ne conserva la cicatrice. Sono davvero pochi i casi in cui rimane il segno, e trovare due demoni con la medesima cicatrice era pressoché impossibile.

 

Era rimasto immobile, incapace di dire o fare qualcosa. Qualsiasi cosa. E il nemico ne aveva approfittato per allontanarsi e ritirarsi verso il capo. Ma anche lui era scosso. Lo aveva capito dal modo con ci girava di continuo indietro la testa. Quasi ad assicurarsi che non se lo fosse sognato.

 

“Ne sei sicuro?”

 

Inuyasha si era seduto sulla branda del demone, e adesso lo fissava con una punta di sorpreso sconcerto nello sguardo. Koga sorrise ironico. Impossibile sbagliare. Era certo che quello fosse suo fratello. Il suo caro fratellino. Non capiva il motivo per cui si trovasse con i loro avversari, né perché non si fosse fatto vivo per tutti quegli anni. Però, era ben deciso a non lasciarlo fuggire di nuovo. Lo aveva ritrovato, e prima di rischiare di perderlo di nuovo lo avrebbe costretto a dargli un’esauriente spiegazione.

 

Si mise a sedere, scambiando un’occhiata carica di parola con l’hanyou. Inuyasha sorrise e accennò con la testa. Lo avrebbe aiutato, per quanto in suo potere. Ma doveva sbrigarsi a mettere le cose in chiaro almeno con Kumamoto e Sesshomaru. altrimenti, il rischio era troppo grande. Inoltre, il Principe non c avrebbe pensato duo volte a eliminare un nemico, se gli fosse capitato sotto gli artigli. No. Meglio prevenire, e avvertire che quel ragazzo doveva esser catturato vivo.

 

“Hai da dirmi qualcos’altro?”

 

Inuyasha si riscosse, avvedendosi di esser rimasto immobile per tutto il tempo che il demone si preparava e che adesso lo stava fissando con uno sguardo fra il divertito e il preoccupato, mentre finiva di allacciare la corazza.

 

“Ho bisogno di un favore…”

 

“Questa è bella! Vuoi che ti procuri un osso, cagnolino?”

 

Inuyasha rimase spiazzato dalla domanda. Lo stava prendendo in giro. Candidamente. Stava scherzando con lui con il sorriso sulle labbra. Come avevano sempre fatto. Anzi, forse che il potersi concedere una battuta fosse, in quel momento, una necessità. La sicurezza di potersi adagiare per un istante nella giovinezza. Di poter distogliere la mente dalle preoccupazioni.

 

“Stupido!”

 

Le risate di koga lo invogliarono al sorriso. Non riusciva più ad arrabbiarsi con quel lupastro come una volta. Forse perché sapeva che,anche se lo provocava, koga non lo faceva mai con l’intento di offenderlo seriamente. Era solo una dimostrazione della complicità che era nata fra loro.

 

“Allora? Cosa dovrei fare? Ti avviso che al momento non mi ci azzardo a perorare la tua causa da Sesshomaru! e già tanto se non ammazzerà me per quello che devo dirgli!”

 

Inuyasha scosse la testa. A quanto pare, koga non aveva rinunciato alla sua idea di costringerlo a cercar di riallacciare maggiormente i rapporti con il Principe. E la possibilità di riavere al fianco il fratello sembrava aver dato una nuova sferzata all’idea dell’ookami.

 

“Nulla del genere. Solo ospitarmi qui, domani notte”

 

Koga compì un rapido calcolo. La sera seguente…la sera seguente…perché Inuyasha avrebbe dovuto lasciare il palazzo, la sera seguente?...per quale motivo?...Luna nuova…se ne ricordò all’improvviso. Inuyasha era arrivato a palazzo con la luna che iniziava a crescere, e da allora era passato un mese. Rischiava di rivelare il suo segreto, se fosse rimasto al castello. Sesshomaru avrebbe percepito il nuovo odore e non avrebbe faticato a scoprirne l’origine. E con lui la corte. Un rischio troppo pericoloso.

 

Restando all’accampamento, invece, fra i lupi di Koga, il suo odore umano si sarebbe confuso, fino a diventare quasi impercettibile anche per l’olfatto dell’inuyoukai. Koga scollò le spalle e gli battè una mano sulla testa, facendolo arrabbiare, e corse fuori ancora ridendo, lasciando l’hanyou nella tenda, sorpreso per la disponibilità dell’amico.

 

“Neanche da chiederlo. Da questo momento considerala casa tua, cucciolone

 

*****

 

Ogni volta che entrava in quel grande padiglione, un forte senso di nausea lo prendeva. L’aria era pregna di mille odori, da quello acre del sangue a quello rivoltante del sudore e dolciastro del sakè. Il suo fine olfatto gli percepiva tutti, catalogandoli e distinguendoli con precisione inconfutabile. La cecità lo aveva reso ancora più attento a quanto captava con gli altri sensi. Solo facendo affidamento su quelli era riuscito a mantenere, almeno esteriormente, la sicurezza sfacciata che tutti gli conoscevano.

 

Sesshomaru si fermò appena oltre la soglia, mentre i suoi uomini gli passavano accanto. Si era appena concluso un altro scontro. Per l’ennesima volta erano riusciti a respingere gli assalitori e a mantenere inviolate le mura. Tuttavia, la domanda che serpeggiava sulle bocche di tutti era. Per quanto ancora? C’era bisogno di un’azione decisiva ed energica, o non si sarebbe arrivati a nulla, se non al tracollo lento e inevitabile.

 

I demoni che gli sfilavano accanto erano i sopravissuti del plotone di guardia sugli spalti. Neanche la metà del numero originario. Lo superavano senza vederlo, chiusi nel loro dolore, nella sofferenza che delineava i loro lineamenti. Sapevano che il metallo nel loro corpo avrebbe potuto ucciderli. Sapevano che avevano pochissime speranze si sopravvivenza e che forse avrebbero consumato gli ultimi istanti della loro via in un letto, soffrendo come cani. Molti, se non morivano appena colpiti, si gettavano a corpo morto contro i nemici, ormai consapevoli dell’ineluttabilità della loro fine e quindi decisi almeno a morire con onore, evitando una lenta agonia.

 

Sesshomaru veniva ignorato da tutti i reseti, ma quella era l’unica cosa che gli piacesse di quel posto. Lì era uguale agli altri, non si sentiva giudicato, non si sentiva costretto a mostrarsi per il demone che tutti credevano e che aveva sempre finto di essere. La confusione era tale che poteva aggirarsi tranquillamente fra le brande senza il rischio di essere fermato. Certo, tutti sapevano chi fosse, e che gli si sarebbe dovuto portare un rispetto tale da inginocchiarsi al suo solo passaggio, ma nessuno lo faceva. Anche perché nessuno ce l’avrebbe fatta. Semplicemente, in quel luogo l’etichetta e il rigore militare erano caduti, cedendo il posto al semplice buon senso.

 

Nessuno gli diceva nulla, e lui non rivolgeva la parola a nessuno. Si recava al padiglione di rado, solo quando la preoccupazione per Alessandra era incontenibile. Due giorni prima non avrebbe voluto che la ragazza riprendesse subito a prestare la sua opera di chirurgo, avrebbe preferito che restasse al sicuro a palazzo. Inutile. Alessandra era stata irremovibile: c’era bisogno di lei, in quel momento più che mai. Non avevano mai parlato di quello che era successo quella notte maledetta e del duello che il demone aveva sostenuto. Sesshomaru non sapeva come comportarsi a quel riguardo: la ragazza non dava segni di ricordare nulla, e forse era davvero così, ma in caso contrario lui non sapeva come introdurre l’argomento senza essere indelicato. Avrebbe potuto chiedere direttamente, ma temeva che la brutalità della sue parole avrebbe potuto ferire Alessandra più del ricordo stesso di quanto accaduto.

 

Alla fine, si era rassegnato a tacere e ad acconsentire che riprendesse il suo posto. Ma in quel momento si pentiva di essersi lasciato convincere: Alessandra odiava il sangue, la morte, il dolore. Aveva già sofferto molto da sola, e lui l’aveva costretta a un ruolo che doveva risultarle odioso e doloroso. Tuttavia, era stata l’unica cosa che fosse riuscito a trovare per consentir loro si vedersi senza sospetti. Un archiatra è un archiatra, e vista la sua cecità poteva recarsi da lui a qualsiasi ora senza troppo scalpore.

 

Si passò una mano nei capelli, sospirando. Avrebbe voluto poterla portare via da lì. Avrebbe voluto poterle dare una via diversa, senza sangue e morte. Avrebbe voluto…che fosse felice. Quella era l’unica cosa che riuscisse a pensare: la felicità di Alessandra. Né guerra né potere. Solo lei. anche se non riusciva proprio a capire se davvero quello che provava era amore. Più probabilmente, ammetteva a se stesso di aver paura ad accettare il nome di quel sentimento. Ad ammettere di amarla. Per questo preferiva barricarsi dietro alle domande e ai sinonimi, tanto era cosciente che la ragazza capiva ugualmente i suoi gesti tronchi e le sue parole silenziose.

 

Annusò l’aria, cercando di distinguere il suo odore in mezzo a quel tanfo nauseante. Delineò la presenza degli altri chirurghi, di Ayame e Kagome, ma non quella dei Alessandra. Fu un altro l’odore che lo colpì. Mezzo-demone. Inuyasha.

 

Voltò la testa in quella direzione, cercando di delineare nella sua mente quello che gli occhi non potevano mostrargli. Inuyasha si affaccendava poco distante da lui. Non gli aveva mai affidato un compito, a palazzo, e da quanto aveva dovuto sospendere gli allenamenti la sua presenza non sarebbe neppure più stata necessaria. Eppure, era rimasto. E l’umana con lui. Rischiando la vita. Sesshomaru si chiedeva per cosa. Si domandava cosa spingesse il fratellastro a restare fra demoni che lo insultavano e disprezzavano, cosa gli desse la forza di sopportare e anche di darsi da fare per aiutare youkai che non lo avrebbero mai considerato se non un bastardo.

 

Eppure, Inuyasha in quel momento era davanti a lui, occupato a ricucire una ferita, a tergere del sangue, a estrarre con i ferri medici i proiettili dai corpi dei demoni. Si era fatto spiegare da Alessandra ogni cosa possibile, così da poterle essere di effettivo aiuto. Trasportava gli uomini che non ce la facevano a muoversi da soli, quando le barelle erano troppo lente, sostituiva la ragazza quando teiera giunta al limite, la costringeva ad allontanarsi a forza dal padiglione perché non eccedesse troppo. Le stava accanto come un fratello premuroso, insomma. E Sesshomaru si scoprì geloso della confidenza che si era instaurata fra loro. Quasi temesse davvero che l’hanyou potesse portargliela via. In realtà, temeva un confronto col fratellastro. e la sconfitta che ne sarebbe seguita.

 

Sesshomaru colse frammenti si dialoghi e mormorii. I demoni distesi accanto a lui stavano parlando di suo fratello, e in toni tutt’altro che negativi. Ne lodavano le scelte e l’operato, senza intenti di scherno. Apprezzavano che ci fosse anche lui a prendersi cura dei soldati. E il demone non potè evitare di sentire anche la voce di alcuni veterani, di demoni che avevano combattuto con suo padre, ricordare come anche Inutaisho fosse solito recarsi ad aiutare i suoi soldati, prima ancora che preoccuparsi delle proprie ferite. Inoltre, c’era chi ravvisava una grande somiglianza fra padre e figlio. Una somiglianza, che andava oltre l’aspetto fisico. E che ferva Sesshomaru. Nel profondo.

 

Fermò il primo demone che gli passò acanto, con l’ordine di trovare Alessandra e dirle che il Principe la stava cercando, e che l’avrebbe aspettata fuori dal padiglione. Uscì senza attendere una risposta. Aveva la testa piena di pensieri, così tanti da fargli male. Quei demoni erano dei semplici soldati, quindi la loro opinione non avrebbe dovuto aver nessun valore per lui, ma non era comunque facile ignorare quello che aveva sentito. Perché era l’avvisaglia di quello che aveva sempre temuto. Lui si era sempre dedicato con tutto se stesso al proprio ruolo, perché suo padre potesse esser fiero di lui, e non aveva mai ricevuto una parola di elogio. Il suo caro fratellino, invece, era stato amato e accettato da suo padre ancor prima di nascere. E adesso anche i suoi uomini lo trattavano con un certo rispetto. Lo paragonavano addirittura a Inutaisho. Umiliando lui. Facendo apparire futili e inutili tutti i suoi sforzi di mostrarsi degni del padre.

 

Mosse il braccio sinistro, sfiorando Tenseiga al suo fianco. Aveva perso l’arto nel tentativo di ottenere la forza del padre. Cercando di impadronirsi di una spada che lo rifiutava e che suo padre aveva affidato a Inuyasha. Da quando Inutaisho era morto, la sua massima priorità era recuperare la zanna.

 

Con il suo immenso potere avrebbe potuto raggiungere la forza senza limiti che il suo spirito bramava da tempo. Nella testa, la domanda su cosa lo spingesse avanti a cercare n potere sempre maggiore. In principio, lo aveva attribuita alla sua età ancora giovane, mettendo a tacere quell’altro dubbio: il timone di essere inadeguato. Impossibile, si diceva. Il suo era solo uno sconfinato desiderio: una brama di potere insaziabile.

 

Che stupido!

 

Sorrise mestamente. Per anni si era illuso, barricandosi dietro parole e idee che gli erano stati inculcati. Ma in realtà Sesshomaru sentiva pesare su di sé l’eredita del padre, sentiva il suo operato sempre giudicato e raffrontato a quello del genitore. Suo padre era sempre stato per lui un modello di riferimento, l’unico che avesse ritenuto degno di ispirarlo, ma ne era quasi rimasto schiacciato. Nonostante lo rifiutasse. Nonostante non accattasse di poter essergli inferiore. Di averlo deluso.

 

…non sei mai stato fiero di me, vero padre?...

 

“Un ryo per i tuoi pensieri”

 

Sesshomaru voltò leggermente la testa e un sorriso gli increspò le labbra. Alessandra. Finalmente, lo aveva raggiunto. Il suo profumo, anche se mescolato agli odori di sakè e sangue, era sempre inconfondibile. Dolcissimo. Seduttore. Prima o poi, avrebbe dovuto chiederle l’origine di quella strana essenza. Assomigliava al profumo dell’acqua, ma si dissolveva in mille sfumature diverse. Comunque, era un profuma adatto alla ragazza; gli riportava alla mente il colore cangiante dei suoi occhi, la sua personalità mutevole e sorprendente. Gli parlava di lei.

 

Alessandra lo raggiunse, sedendosi sulla panchina di pietra sotto l’hoozuki, mentre piccoli petali arancione fluttuavano nell’aria. Era strano vedere un ciliegio fiorito in inverno. Una macchia infuocata che spiccava nel bianco accecante della neve. Era uno dei pochi superstiti del giardino, forse per caso, forse proprio per la sua distaccata bellezza. La ragazza si appoggiò al tronco, rilassandosi e assaporando quell’attimo di quiete. Quando un soldato le aveva riferito che il Principe la cercava, dapprima si era preoccupata: Sesshomaru non era solito farla chiamare, se non ci fosse stato urgente bisogno di lei. e in quel momento la sua presenza era richiesta lì, per curare i feriti e cercar di salvare quante più vite possibili. Che non fosse ferito ne era certa, altrimenti il soldato non sarebbe stato così pacato nel comunicargli quelle parole. Alessandra aveva esitato, anche perché incontrare il bel demone fuori dalla tenda, alla luce del sole, significava compromettersi se non ci fosse stata presente una terza persona. Alla fine, però, Kagome l’aveva spinta a forza fuori dalla tenda, senza dirle una parole e sorridendole con aia complice. Alessandra non si era mai confidata con lei riguardo al rapporto che la legava al demone, ma dopo quello che era successo due noti prima a alcuni sospetti erano più che plausibili.

 

Lo aveva visto in lontananza, appoggiato al tronco di quel ciliegio secolare, le braccia conserte, avvolto dai suoi pensieri. Sembrava triste. Affranto. Alessandra maledisse il fatto che fosse così abile a mescolare le sue espressioni: un attimo prima era altero e sprezzante, un attimo dopo seducente, e poi ancora estremamente dolce. Le vedeva le ombre inquiete sul suo volto, e sperava che si decidesse a parlargliene, prima o poi, quando si fosse sentito pronto. Eppure, quel momento non arrivava mai. Sesshomaru, con lei, non parlava mai di ciò che gli attraversava la mente riguardo al suo rapporto col padre e con Inuyasha. Si teneva tutto dentro, pur con la consapevolezza che la ragazza sapesse e soffrisse per il suo silenzio. Ma non era capace ancora di vincere quello scoglio.

 

“Perché mi cercavi?”

 

Non le piaceva che la guardasse in quel modo. Fisso. Immobile. Con la tranquillità dipinta sul volto. Non le piaceva perché la metteva in imbarazzo. Perché la faceva arrossire e aveva paura di tradirsi. E il bel demone lo sapeva. Era pienamente cosciente del fatto che quel suo modo di fare irritava la ragazza, ma lo divertiva anche. Le sedette accanto, continuando a guardare l’accampamento. Perché l’aveva cercata? Non c’era un vero motivo. Semplicemente, aveva sentito il bisogno di sentirla accanto a sé. Aveva avvertito il desiderio di stringersela al petto. Prepotente come poche volte lo aveva preso. Ma adesso, come doveva rispondere? Ammettere quello o cercare una scusa? Perché, quello che provava, l’importanza che la ragazza rivestiva per lui era qualcosa di troppo forte per essere solo un’emozione passeggera. E ne era spaventato. Tanto. Troppo.

 

“Nulla di particolare”

 

Mentire. Aveva di nuovo deciso di mentire. Di non dirle che l’aveva cercata solo per poterle rubare un attimo, un respiro. Un bacio. Le disse invece che non approvava che stesse continuamente in quella tenda, anche se era lei l’archiatra reale. C’erano molti guaritori, a palazzo, che avrebbero potuto sostituirla e lei si sarebbe riservata solo le incombenze più gravi. Non era il caso che si stancasse a quel modo e si facesse vedere in giro q qualunque ora. Non voleva che di nuovo…Si fermò. Esitò un istante. Dannazione! Si era fatto trascinare dal discorso. Aveva sbagliato.

 

“…che mi accada di nuovo quello che è successo due giorni fa”, concluse la ragazza, stringendogli un braccio e appoggiando la testa sulla sua spalla. Sesshomaru si voltò verso di lei sorpreso. Allora ricordava. Ricordava ogni cosa. Ma perché non glielo aveva mai detto? Perché non gli aveva mai chiesto nulla?

 

Alessandra chiuse gli occhi, abbracciandolo più forte. Sapeva che il demone era sorpreso. Sapeva che sperava che lei non ricordasse. Lo avrebbe voluto anche lei stessa. Purtroppo, quando l’effetto del sonnifero era finito, si era svegliata nella stanza dell’youkai. Sola. E la mente iniziò a giocare con lei, riportandole le immagini della notte trascorsa. Le sensazioni, la paura, la rabbia, il dolore…Una fiumana che la prese; devastante. Si era girata su un fianco, raggomitolandosi nelle coperte. Cercando di convincersi che si fosse sognata tutto. Aveva fatto semplicemente un incubo. Orribile. Ma nulla di più di un vano sogno.

 

Inutile. Inutile. Sapeva benissimo che era la realtà. Che quel generale l’avrebbe…l’avrebbe…Non riusciva neanche pensarlo. Non lo voleva pensare. Aveva tuffato la testa con più forza nel cuscino, quanto il vento le portava l’eco di urla di incitamento, d’imprecazioni. Le grida per un duello. E non aveva avuto dubbi.

 

Aveva iniziato a piangere. Le lacrime si raccoglievano all’angolo degli occhi, e scivolavano lungo il viso, fredde, dolorose. Bagnavano il cuscino, con una sgradevole sensazione di umido. Non aveva pianto per sé, ma per lui. O forse per entrambe le cose, per scacciare la tensione: sapeva che Sesshomaru stava combattendo, e che quel duello avrebbe potuto costargli la vita. E in più, non le piaceva quando doveva uccidere. Non le piaceva lo soddisfazione intrappolata nei suoi occhi; il godimento espresso dal leggero sorriso compiaciuto. In quei momenti, non lo riconosceva. Non sapeva più chi aveva di fronte.

 

Eppure, in quel momento, aveva capito che quella era una parte del demone che avrebbe dovuto accettare. Con tutte le sue conseguenze. La morte gli apparteneva. Gli era compagna, nel senso che aveva sempre attraversato la sua vita, con indifferenza, con l’ovvietà quotidiana. Sesshomaru era mutato in quei sei mesi, ma se davvero avesse perso anche la sua capacità di uccidere senza rimorso, allora avrebbe perso se stesso. Non sarebbe più stato lui. Alessandra ne prese drammaticamente consapevolezza in quegli istanti, mentre il combattimento scorreva davanti ai suoi occhi in vivide forme d’immaginazione. Però, al contempo, era cosciente che lui la voleva proteggere. Non le aveva detto nulla del duello. Non le aveva chiesto nulla che la potesse ferire. La sua vita, il suo nome, tutto attorno a lui racchiudeva in sé la morte; tuttavia, il bel demone non voleva negare la vita. Per questo, non le avrebbe mai fatto paura.

 

Sesshomaru sentì una sensazione nuova, piacevole. Qualcosa di caldo che ti attraversa la pelle. La consapevolezza di una presenza pronta ad aiutare. La sicurezza di non essere solo. Non più. Alessandra aveva cercato la sua mano, e l’aveva chiusa con la sua. Per la prima volta. Per la prima volta aveva toccato quella mano che portava morte. Se ne era lasciata accarezzare molte volte. L’aveva abbracciata, sfiorata; aveva asciugato le sue lacrime e accarezzato il suo viso. Eppure, in quel momento la ragazza si ricordò di non aver mai preso il demone per mano. Quasi inconsciamente rifiutasse quella parte di lui che dava la morte, rifiutando di toccare i suoi artigli.

 

Ora, quella mano era sotto la sua, racchiusa nella sua. Una mano. Grande, calda; una mano da uomo, anche se ancora affusolata per la giovinezza. Elegante. Come tutto in lui era legante ed etereo. Sfiorò gli artigli lunati, i graffi sottili che gli disegnavano il polso. Infine, intrecciò le sue dita con quelle del demone. Ricevendone una bellissima sensazione di protezione e vicinanza.

 

Sesshomaru aveva seguito turbato ogni gesto della ragazza. Alla fine, si era fermata intrecciando le loro dita. Sentiva accanto alle sue dita sottili, delicate. Fragili. Percepiva il calore di quella stretta infantile, ma abbastanza matura da averlo accettato per quello che era. Da quando l’aveva incontrata, da quando aveva compreso di tenere a lei, aveva sempre sentito pesare dentro di sé la sua natura demoniaca. Se ne sentiva lacerato. Perché sapeva che non la poteva annullare, ma al contempo temeva che Alessandra non potesse accettarla. I mille particolari che in lui richiamavano la morte erano per la ragazza un motivo sufficiente per allontanarlo. Eppure, nonostante per tre anni avesse combattuto dentro di sé per sfuggire ai ricordi di quell’incidente stradale, adesso accettava di trascorrere le sue giornate in mezzo al sangue e al dolore. Gli stringeva la mano. Nessuno, che lui ricordasse, lo aveva mai fatto.

 

Rimase immobile per istanti lunghissimi, a godersi quella strana sensazione che lo percorreva in ogni fibra. E anche un po’ perché esattamente non sapeva come comportarsi. Cosa fare. Infine, si limitò a stringere a sua volta la mano, sfiorando la pelle della ragazza con i suoi artigli. Temeva che si sarebbe ritratta, invece non accadde nulla. Alessandra non si allontanò e non diede segno di nervosismo.

 

“Provi mai rimorso nell’uccidere?”

 

“…No…”

 

Un brivido la percorse, e il demone sorrise mestamente. Avrebbe potuto mentirle, ma non avrebbe avuto senso. Perché nasconderle una realtà che sospettava, dietro false promesse e illusioni? Le aveva già taciuto una volta, non raccontandole nulla del fratellastro, e aveva rischiato di perderla per sempre. Solo per il suo stupido orgoglio. Non avrebbe più commesso lo stesso errore.

 

Per lui non era affatto facile parlare, Alessandra lo sapeva bene. come l’youkai era cosciente che con lei non poteva rivolgersi in modo troppo diretto e brutale. Eppure, quella voglia di sapere l’uno dell’altra li accomunava e al contempo li frenava. Entrambi aveva domande che la voce non formulava per non infliggere ferite troppo profonde. Tuttavia, anche in quel frangente, con quella guerra che rubava loro istanti, respiri, attimi, che alimentava l’ombra di potersi non rivedere più ogni volta che il bronza risuonava per un attacco…anche in quei pochi attimi che riuscivano a condividere, lentamente scoprivano qualcosa di loro. Con delicatezza.

 

Quello che li legava non era semplice attrazione fisica. Non era il banale desiderio del corpo altrui. Era qualcosa di più forte, capace di resistere a tutto quello che accadeva e che li metteva alla prova. Era la sensazione di essere protetti, capiti, e soprattutto accettati per quello che erano. Sesshomaru non si sentiva costretto a dimostrare nulla, né la sua freddezza la sua impassibilità. Poteva abbandonarsi a un sorriso senza timore di essere schernito per quella debolezza, di essere giudicato. Alessandra lo amava in tutte le sue sfaccettature: dalla sua vitalità composta e affascinante, ai suoi lati più oscuri e terribili. Da parte sua, la ragazza riusciva finalmente ad abbandonare la rigidità e l’isolamento cui si era costretta per non cedere dopo la morte della sua famiglia. Se anche avesse pianto davanti al demone, era cosciente che lui non l’avrebbe schernita né umiliata. Si sarebbe invece limitato a confortarla. Senza falsità.

Era quel bisogno reciproco di essere accettati per le proprie debolezze che permetteva loro di intrattenere discorsi lunghissimi senza bisogno di usare la voce, che consentiva di assaporare fino in fondo la banalità di una cosa, come i brividi caldi delle loro mani intrecciate.

 

“Non riuscirò a impedirti di aiutare i feriti, vero?”

 

Alessandra annuì. Non avrebbe mai rinunciato al suo compito. Nonostante tutto. Perché le permetteva di dimostrare alla corte ostile degli inuyoukai che lei non era un incapace né tanto meno l’amante del Principe. Inoltre, le permetteva di distrarre la mente, di impedirsi di pensare al fatto che in ogni istante sarebbe potuto arrivare qualcuno a dirle che il Principe non c’era più, morto in battaglia. Crivellato dei proiettili nemici. Lei non era riuscita a dissuaderlo dall’idea di partecipare ai combattimenti, e il bel demone capiva perfettamente che anche lui non avrebbe potuto dissuaderla.

 

“Almeno, cerca di non affaticarti troppo…”

 

La ragazza gli rivolse uno stupendo sorriso. Uno dei pochi che le arricciavano le labbra e che erano perlopiù per il demone. E anche lui, storse le labbra, dolcemente. Percepiva il suo sorriso, la sua gratitudine e tutte le emozioni che gli voleva trasmettere. Avrebbe voluto baciarla, ma sapeva perfettamente che non poteva ancora permettere che trapelasse il sentimento che li univa. Prima, avrebbe dovuto accettare lui il vero nome del loro legame. Solo allora, avrebbe trovato tutta la forza necessaria ad affrontare la corte e a imporre la sua volontà in modo inequivocabile.

 

Le accarezzò il viso, avvolgendo la mano ai sottili fili di rame. Non avrebbe permesso ad una guerra di portargli via il futuro che gli si era offerto. Se con Rin la sua vita aveva iniziato ad avere un senso, con l’inconscio bisogno di proteggere la bambina, con Alessandra la strada era emersa nitida dalle nebbie e dal grigiore. Una via non senza difficoltà, me che non temeva di affrontare. Forse anche per chiudere le pendenze con il suo passato e con le domande sbagliate della sua anima.

 

…non voglio perderti…

 

*****

 

Respiro strozzato. Ansimare. Fatica.

Si terse con mano rabbiosa il sudore che gli bagnava la fronte. Era affaticato. Quasi al limite. Stremato. E in più aveva la dannata consapevolezza che quella volta non ce l’avrebbe fatta. Che era spacciato.

 

Ricacciò indietro l’ennesimo soldato, mentre la sua imprecazione si tramutava in una nuvoletta bianca che disperdeva nel vento che si era alzato e continuava ad aumentare. Alla luce incerta gettata dal riverbero dei fuochi e del palazzo era estremamente difficile scorgere esattamente gli assalitori. Erano sagome oscure che danzavano in modo macabro, strisciando fra i riverberi di luce e di ombre. Bastava una minima distrazione, e sarebbe morto.

 

Inuyasha arretrò di qualche passo, schiena contro schiena con Sango e Miroku. Ormai, erano accerchiati. Inoltre, dubitava fortemente che qualcuno sarebbe venuto in loro aiuto dal palazzo. Kagome non poteva nulla e anche Alessandra, nonostante ormai avesse fiutato lo strano rapporto che la legava a Sesshomaru, non aveva purtroppo alcuna autorità in campo militare. Disperava anche di Kumamoto che, benché non gli avesse mai mostrato rancore, probabilmente non sarebbe mai intervenuto senza un preciso ordine dl Principe. L’ultima speranza era Koga. Forse lui si sarebbe infischiato delle regole militare e sarebbe venuto a dar loro una mano. Certo, l’idea di esser salvato dal lupastro non era delle più allettanti, ma sempre meglio che rimetterci la vita.

 

Spaziò con lo sguardo la zona attorno a sé. Chiuso. Il cerchio nemico li chiudeva da ogni lato. Inesorabile. E pensare che in condizioni normali gli sarebbe bastato un attimo per liberarsi di quei demoni. In quelle condizioni, invece…Improvviso, nella mente un piano. Pericoloso. folle. Praticamente, una condanna a morte. Ma almeno avrebbe permesso ai suoi amici di raggiungere il castello dell’inuyoukai.

 

Avrebbe sfondato le file avversarie con l’hiraikotsu di Sango, aprendo loro la via e poi ne avrebbe coperto la corsa impegnando gli uomini per quanto gli fosse stato possibile. Non avrebbe potuto reggere a lungo, solo e per di più in forma umana, ma almeno sperava di riuscire a guadagnare abbastanza tempo da permettere ai ragazzi di andarsene. Con Kirara non avrebbero dovuto trovare particolar problemi a raggiungere le porte. L’importante era non volare.

 

“Sei impazzito?! È un suicidio!” sibilò Miroku fra i denti. Forse, usando il suo vortice e risucchiando alcuni nemici avrebbe potuto atterrire gli altri il tempo necessario a farli allontanare assieme. Anche se soldati, alla loro vita dovevano pur tenerci. Poco importava se rischiava di aspirare anche alcuni insetti velenosi. Fino a un certo numero era ormai abituato a contrastarne il veleno.

 

L’hanyou sorrise isterico. C’era da aspettarselo: mai una volta che facciano come dice lui. Eppure, non poteva permettere che morissero a causa sua, solo perché erano preoccupati per lui. Ormai disperava di un aiuto. Anzi, probabilmente, se avesse potuto voltarsi e vedere nella notte, avrebbe distinto suo fratello sugli spalti, a godersi la sua fine miserevole. Ucciso nel suo aspetto umano. Forse, aveva ragione miroku; si poteva cercare un’altra soluzione. Ogni speranza, tuttavia, naufragò quando scorse un bagliore metallico: fucili. Il nemico si stava organizzando per attaccargli con quelle maledette armi. Allora, sarebbero morti sicuramente. Non c’era più tempo per pensare.

 

Obbligò Sango e Miroku a salire su Kirara e si fece affidare l’arma di Sango, promettendole con un sorriso tirato che gliel’avrebbe restituita. Infine, si voltò verso il castello, prendendo un lungo respiro. Sapeva di aver mentito, che non avrebbe più rivisto né loro né la ragazza che lo stava spettando oltre le mura. Ripensò al suo sorriso, alla sua voce. Avrebbe pianto, si sarebbe disperata, tuttavia, il tempo le avrebbe permesso di dimenticarlo, avrebbe reso il dolore sempre più sopportabile. Le avrebbe permesso di continuare a vivere. Forse, in modo più felice, senza l’assillo del timore per lui.

 

“Vi affido Kagome”

 

I suoi amici non ebbero neanche il tempo di ribattere che già Inuyasha si era lanciata a testa bassa contro gli avversari. Ruppe il fronte compatto, e dietro di lui, nello scompiglio, Kirara riuscì a passare correndo verso il castello. Intanto, il ragazzo si era voltato, facendo ostruzione agli assalitori e deviando i proiettili con l’hiraikotsu. Infine, lanciò il boomerang falciando numerosi nemici, ma non lo riprese. Lasciò che lo superasse e volasse verso la sua proprietaria. Sango l’afferrò al volo, girandosi giusto in tempo per vedere l’amico, ormai inerme ed esausto, rassegnarsi alla morte.

 

Inuyasha, a terra, ormai prostrato per lo sforzo cui aveva sottoposto il suo copro umano, chiuse gli occhi quando vide un oni gigantesco sovrastarlo brandendo un’ascia da guerra. Ecco: era la fine. Almeno, suo fratello in quell’istante avrebbe dovuto pensare a lui, anche se con disprezzo. Peccato solo che i suoi amici avrebbero sofferto. Per loro, non si sarebbe mai arreso, ma davvero aveva a malapena ancora la forza di mantenersi cosciente. Chiuse gli occhi grigi. Rassegnato.

 

“Sei uno stupido!”

 

L’imprecazione gli fece rialzare il volto. Sorpreso. Davanti a lui, l’oni era a terra, mentre Koga lo rimproverava con i tratti del viso fiero deformati dalla preoccupazione dal sollievo di vederlo vivo. Era arrivato in tempo, grazie al cielo. Inuyasha si sollevò prima sulle braccia e poi in piedi, lentamente. Sotto lo sguardo duro dell’ookami. Non si era piegato ad aiutarlo. Doveva rimettersi in piedi da solo. Doveva dimostrare a quei maledetti soldati che fissavano la scena dal palazzo che lui non era un pusillanime, un debole. Che era forte. Molte forte. Anche se era un hanyou. Anche se era un bastardo.

 

“Torna indietro, adesso. Per questa notte hai fatto l’eroe a sufficienza. Qui adesso me la sbrigo io con i miei lupi”

 

Koga gli fece un cenno, e poi si gettò nella battaglia che infuriava poco distante. Tuttavia, Inuyasha non si mosse. Fissava delirante i soldati che lo superavano. Non c’erano solo i lupi di Koga, ma anche gli uomini di Sesshomaru. probabilmente, avevano seguito il Principe degli Yoro di loro iniziativa. E il ragazzo si rammaricò del fatto che, se fossero scampati alla morte, avrebbero dovuto affrontare la collera del loro signore.

 

“Vattene da qui”

 

Voce fredda. Autoritaria. Impassibile. Inuyasha si voltò lentamente, trovandosi a fissare il viso di suo fratello, a pochi passi da lui. La katana sguainata e rossa di sangue. Solo in quel momento, la mente del ragazzo realizzò che poco prima Koga non aveva alcun segno di lotta. Come se non avesse neanche toccato l’oni per ucciderlo. Gettò una rapida occhiata al cadavere: ferita lunga e sottile. Ferite da spada. Precise. Netta. Mortale.

 

Tornò a scrutare il fratello. Non era possibile. Non ci credeva. Già gli sembrava incredibile esserselo ritrovato di fronte, ma anche il solo pensare che a uccidere l’oni fosse stato lui e non il demone-lupo gli sembrava inconcepibile. Inimmaginabile. Sesshomaru non diceva nulla, limitandosi a farsi investire dai mille rumori del combattimento che infuriava poco lontano da loro. Respirando l’odore umano del fratellastro. non c’era alcun youki nel corpo di Inuyasha, in quel momento. Se avesse potuto guardarlo, avrebbe visto un ragazzo di circa diciassette anni, con lunghi capelli neri e occhi grigi profondi. Gli occhi della madre. Di quella donna che Sesshomaru odiava. Occhi che in quel momento erano attraversati da uno scintillio sospetto, simile alle lacrime, e dilatati per lo stupore, la stanchezza e la paura.

 

Paura…Inuyasha si sorprese del battito ansioso del cuore. Ora, suo fratello avrebbe potuto ucciderlo. Ora sapeva il suo segreto e ne avrebbe potuto approfittare in qualsiasi momento. Durante il shingetsu non aveva alcuna possibilità di difendersi. Reclinò la testa sul petto, mentre un sorriso di autocommiserazione gli increspò le labbra. Sesshomaru gli aveva detto di andarsene, non lo considerava nemmeno degno di morire per mano sua, ora che era un semplice umano. Non poteva, il Principe dei demoni, abbassarsi a uccidere una nullità come lui. Neanche in preda all’odio più profondo e viscerale. La gloria che ne avrebbe tratto sarebbe stata quella di schiacciare un insetto. Più un fastidio, che qualcos’altro. Gli veniva da ridere.

 

…Ora sai quanto sono inferiore a te…e ti fa disgusto anche solo l’idea di sporcarti del sangue di una nullità come me…

 

Sesshomaru continuava a lasciare i suoi occhi senti fissi sul fratellastro. cosa diavolo aspettava ad andarsene? Perché, anzi, percepiva il suo cuore battere velocemente e il sottile odore della rassegnazione? Se stava aspettando una predica, poteva giurarci che l’avrebbe ricevuta. Ma dopo. Non c’era tempo di rimproverarlo, con uno scontro in corso.

 

“Sparisci”

 

Gli si avvicinò ancora, sibilando appena quella parola. Tuttavia, non c’era astio o ribrezzo nella voce del bel demone e lui per primo si sorprese del tono con cui aveva modulato l’ordine. Non era il tono del comando, quello che Inuyasha gli aveva sempre sentito. L’hanyou sollevò la testa di scatto, aprendo la bocca per ribattere ma restando comunque zitto. Non avrebbe saputo cosa dire. E poi, l’espressione del fratello era strana: con la testa leggermente piegata di lato, Sesshomaru sembrava aver addolcito lo sguardo, quasi come se fosse più tranquillo. Non poteva essere: dov’era l’espressione di sprezzante alterigia che Inuyasha gli aveva sempre visto? Dove diavolo era finita? Possibile che le ombre del fuoco gli definissero il volto in modo così ambiguo, tanto da alterarne in apparenza i tratti? Sbagliato. Sbagliato. Sbagliato. Si stava sbagliando. Probabilmente, quella del fratello era l’ennesima occhiata di nauseante sufficienza.

 

Inuyasha si rassegnò. Stava per andarsene, quando sentì lo scatto di un grilletto, alle sue spalle: una pistola pronta a sparare. Fu un attimo: la detonazione assordante, mentre si voltava per vedere dove fosse il demone armato. Una spinta forte al petto, che lo sbalzò indietro, facendoli perdere l’equilibrio. E una parola che si confondè con il tuonare dello sparo.

 

Soryuha

 

Si ritrovò a terra, nella neve fangosa. Grigia e nera. Rossa. Sangue. Sulla sua mano. Attorno a lui. Alzò lentamente la testa. Sesshomaru. in piedi davanti a lui. Al rallentatore, lo vide lasciar cadere a terra la katana e piegarsi in ginocchio. A terra. Soffocando un ringhio fra i denti.

 

“Se..Sesshomaru…?”

 

Un colpo di tosse. Profondo. Bagnato. E il nero che scende a bagnare la corazza, a colorare il kimono bianco, la stola candida.

 

“Sesshomaru!”

 

Inuyasha gli fu accanto senza neanche chiedersi dove avesse trovato la forza per alzarsi. Il viso sudato di suo fratello; i capelli d’argento che ricadevano scomposti sul petto, macchiandosi del sangue che il demone cercava vanamente di fermare; gli occhi assottigliati a due fessure rabbiose e la bocca contratta in un ringhio represso.

 

Sesshoamru, alzati!”

 

Lo urlava senza crederlo possibile. La ragione gli diceva che non avrebbe mai potuto alzarsi come niente fosse, ma lui non riusciva ad accettarlo. Non lo voleva. Continuava a ripetersi nella testa, in una cantilena snervante, che suo fratello adesso si sarebbe alzato e lo avrebbe schernito perché credeva che davvero un proiettile bastava a metterlo fuori combattimento. Sì, adesso il demone gli avrebbe risposto come al solito, con il suo tono sprezzante, e sarebbe tornato a combattere. Doveva tornare a combattere. Doveva…

 

“Sesshomaru?!”

 

Sta’ zitto!

 

Il demone sentiva la presenza del fratellastro, le sue parole rimbombargli nella testa. Ma sentiva anche il piombo nel suo corpo iniziare a bruciare in modo insostenibile. Lo sentiva nutrirsi del suo sangue e della sua forza. E più il tempo passava più in lui cresceva la rabbia e la voglia di gettarsi sul nemico e fargliela pagare. Eppure, nonostante i mille ordini che dava ai suoi muscoli, il suo corpo si rifiutava di obbedirgli. C’era solo la voce di Inuyasha.

 

“Non sono cose da te queste! Che ti è saltato in mente?”

 

È quello…

 

Una smorfia tirata, il bianco di denti tinti di rosso e un nuovo colpo che lo costringe a tossire sangue. Prima di accasciarsi al suolo.

 

…che mi sto chiedendo anch’io…

 

*****

 

Freddo.

Un sudore leggero le bagnava la fronte. Un misto di agitazione e sollievo. Si alzò e immerse la testa in una bacinella d’acqua. Gelida. Bruciante. Ma le serviva. Per mantenere lucidità; per non cedere ancora. Non quanto tutto si era risolto per il meglio.

 

Prese un asciugamano, iniziando a strofinare piano il viso stanco. Quella stoffa aveva un buon profumo. L’odore di muschio di Sesshomaru. Come tutto in quella stanza sapeva di lui. Del profumo penetrante e maschile del ragazzo.

 

Nel futon, Sesshomaru si mosse lentamente, riprendendo conoscenza. Era stranito, non riconobbe subito la sua stanza. Solo, percepì il profumo della ragazza molto vicino. La chiamò, più per disperazione che per reale idea che fosse presente. Invece, con suo grande sollievo, si sentì stringere la mano e sfiorare la testa con una carezza gentile. Un attimo prima di svegliarsi completamente aveva desiderato poter tornare a dormire. Per non doversi scoprire solo in un qualche letto; per non dover sentire le voci riprovevoli dei suoi cortigiani, la loro sorpresa e il disappunto per esser uscito in campo. Per esser andato in aiuto di un bastardo.

 

Ricordava perfettamente ogni cosa: la sua mente gli restituiva con disarmante freddezza ogni scena, in una moviola continua. Snervante. Insensata. E in quella farandola delirante, all’improvviso si era affacciato un volto: Alessandra. Lei che lo bacia, che lo accoglie fra le sue braccia, che gli stringe la mano e lo accarezza. Lei che ride, che piange, che gli insegna ogni istante una sfumatura nuova del cuore e dell’anima. Anche della sua anima. Di quell’anima e di quelle emozioni che gli avevano sempre detto di non avere e di non poter provare.

 

“…Come stai?...”

 

Il bel demone le sorrise rassicurante, facendo scorrere un braccio dietro la sua testa e costringendola piegarsi su di lui, per baciarla. Uno sfiorarsi leggero delle labbra, protettivo e rassicurante. Un contatto voluto da entrambi, per assicurarsi che davvero quella era la realtà, dolce e malinconica.

 

“Adesso, bene”

 

“Scemo!”

 

Alessandra sorrise: se aveva la forza di scherzare, allora significava che le sue capacità demoniache gli stavano permettendo di riprendersi decisamente in fretta. Lo aiutò ad alzarsi a sedere, posizionandogli dietro la schiena vari cuscini perché comunque non fosse costretto ad affaticare un corpo ancora provato. Sesshomaru si passò una mano sul fianco fasciato. Sentiva la pelle tirare in modo fastidioso, ma quella sensazione gli dava la certezza di essere ormai quasi guarito. Un solo dubbio: quanto ci aveva impiegato a riprendere conoscenza?

 

“Non preoccuparti: sono passate solo poche ore da quando sei stato ferito”

 

Annuì, maggiormente rilassato. Doveva essere ancora notte, perché non sentiva il vociare che di solito riempiva l’aria del palazzo. Percepì Alessandra sdraiarsi accanto a lui, con delicatezza. Le passò un braccio dietro la schiena e la fece accoccolare sul suo petto. In quel momento, non gli importò nulla del fatto che qualcuno potesse entrare e scoprirgli. La ragazza doveva essere distrutta sia a livello psicologico sia fisico.

 

Alessandra era davvero annientata, ma l’adrenalina, l’agitazione che le aveva frustrato il corpo durante quelle ore, ancora non la voleva lasciare e le impediva di abbandonarsi al riposo accanto al demone. Si lasciava cullare dalla tranquilla altalena del suo petto nel respiro, dal discreto battito del suo cuore. Stava bene. Stava bene. Adesso, non voleva neanche pensare a quello che era successo nelle poche ore precedenti.

 

Aveva attraversato di corsa tutto il palazzo, per poi bloccarsi appena scesi i gradini che la separavano dalla piazza d’armi. Nel centro del rettangolo in terra battuta, Inuyasha sorreggeva sulle spalle il corpo del fratello. E la fissava. Con uno sguardo dilatato e colmo di terrore. Allo stato puro. Devastante. Negli istanti che erano seguiti, Alessandra aveva impartito ordini ai guaritori che erano accorsi perché si occupassero dei feriti, e aveva fatto portare il Principe nei suoi appartamenti. La mente, crudele, le aveva restituito attimo per attimo i ricordi di mesi prima. Quando aveva dovuto curare il demone da quella specie di acido. In quel momento, la situazione era ancora più critica, perché il Principe aveva un proiettile in corpo che andava estratto.

 

Aveva voluto come assistente solo Homoe, che possedeva alcune nozioni di medicina. Le aveva fatto procurare ago, filo, bollire dell’acqua e prendere delle bende pulite., mentre lei esaminava la ferita, con la speranza di non vedere le piaghe e i segni del veleno che iniziava ad agire. On un sospiro di sollievo, aveva constatato che la pallottola, per qualche strana e fortuita ragione, non era stato imbevuta di veleno.

 

Alla fine, lo aveva baciato con lo sguardo, a lungo, seguendone con intensità i contorni sottili e pallidi delle labbra e poi aveva lavato la ferita con aceto e sakè per disinfettarla. Poi, aveva dovuto estrarre la pallottola, tagliando la carne viva con le forbici e bagnandosi le mani di sangue. Del sangue del ragazzo che amava. Infine, estratto il proiettile, aveva fatto arroventare dalla yasha l’ago sulla fiamma della lucerna e aveva ricucito la ferita, mentre Homoe teneva insieme le labbra del taglio.

 

Alla fine, la yahsa se ne era andata, ma Alessandra era rimasta accanto a Sesshomaru. gli aveva asciugato il sudore, lo aveva fatto bere perché non si disidratasse per la perdita di sangue che aveva subito; gli diede anche, per precauzione, l’aceto contro il veleno. Ogni gesto, ogni movimento, le risultavano dannatamente amari. Una già visto, un già vissuto che le entrava con prepotente violenza nell’anima, bucandole la mente e prelevando dal suo subconscio paure che aveva sempre cercato di accantonare. Eppure, ogni volta che finiva uno scontro i suoi occhi percorrevano ansiosi la lunga teoria di feriti, con la disperata speranza di non veder anche lui fra qui demoni. Tuttavia, il solo desiderio non pasta a scongiurare un timore: il demone si trovava davanti a lei, pallido e provato, anche se ancora vivo.

 

Alessandra liberò un sospiro che sembrava esserle rimasto annodato in gola da ore. Sesshomaru sentì una strana quiete impadronirsi della ragazza, e la strinse a sé con più forza. Le era grato del fatto che non gli facesse domande, che assecondasse il suo silenzio riflessivo e stanco. Tuttavia, sapeva anche che prima o poi avrebbe dovuto darle spiegazioni di quello che aveva fatto. Anche se lui per primo non ne aveva.

 

“Cerca di rimanere tranquillo almeno per qualche ora ancora. Giusto il tempo che il tuo corpo si rigeneri completamente”

 

Il Principe sorrise, annuendo leggermente. Quella ragazza era capace di far passare per supplica anche il più indiscutibile degli ordini. Sapeva benissimo che non gli aveva dato un consiglio, e che solo si fosse azzardato a tentare di muoversi o a opporsi, Alessandra era capace di incatenarlo al letto pur di costringerlo all’immobilità. Immobilità che non faceva per nulla parte della sua natura, ma cui stranamente si rassegnò volentieri. Aveva molto cui pensare.

 

Alessandra gli regalò un baciò carico di affetto e delicatezza, e uscì dalla stanza. Doveva andare a controllare l’opera dei guaritori all’ospedale e assicurarsi che tutti i feriti fossero stati medicati in modo adeguato. Non si fidava molto dei demoni cui aveva sottratto il posto di archiatra: più di una volta ne aveva sorpreso qualcuno intento a modificare i rimedi o negligente nel suo operato solo perché la reputazione della ningen fosse compromessa.

 

Scese le scale e con un mezzo sospiro aprì la porta dello studio di Sesshomaru. avrebbe voluto restare con il demone, riposare sul suo petto e farsi cullare dalla sua presenza rassicurante. Invece, doveva tornare fra il sangue e il dolore. No poteva certo addossare tutto il lavoro a Kagome, Ayame e Homoe.

 

“Come sta?”

 

Alessandra trasalì a quella voce. Inuyasha aveva aspettato lì per tutto quel tempo, senza provare a salire neanche quando aveva visto la yasha lasciare gli appartamenti del fratello. Si era limitato a passeggiare nervosamente per lo studio, cercando di percepire anche la più leggera parola. Nulla. Purtroppo, era ancora in forma umana e non poteva distinguere nessun suono troppo leggere.

 

Alessandra lo fissò seria per un istante, e il ragazzo abbassò la testa, temendo un rimprovero che comunque gli sembrava più che giusto. In definitiva, se il Principe era stato ferito la colpa era solo sua. Perché era stato lui a mettersi nei guai, anche se per salvare degli amici.

 

“Ha ripreso conoscenza, e la ferita è quasi rimarginata. Poche ore e sarà di nuovo in forma come prima”

 

Vide il ragazzo liberare un profondo respiro di sollievo e provò tanta tenerezza per lui. Nonostante il modo in cui Sesshomaru lo trattava, lui era rimasto lì, ad aspettare in ansia per lui. Doveva tenerci molto a quel fratello scontroso e testardo, che probabilmente neanche il fatto compiuto avrebbe fatto retrocedere dalle sue convinzioni. Le venne da sorridere, perché, in definitiva, fra i due fratelli, era proprio il maggiore a mostrarsi il più immaturo in quel rapporto. Anche se poteva capire la rabbia, del demone, non ne giustificava il rifiuto a oltranza di Inuyasha.

 

“Va da lui”

 

Inuyasha sollevò di scatto la testa. Era forse impazzita? Che razza di consiglio! Presentarsi a Sesshomaru dopo quello che gli era successo per colpa sua e della sua debolezze, e per di più ancora in forma umana, sarebbe equivalso a gettarsi diritti nelle braccia della morte. Lo avrebbe ucciso senza pensarci un attimo.

 

Le sue parole caddero nel vuoto. Alessandra era già uscita, e lui si ritrovò a fissare la scala oltre la fusuma aperta. Una tentazione troppo grande. I gradini scricchiolarono nel silenzio assordante, e a lui sembro un rumore insopportabile. Quattro, cinque, sei…eccola, la porta della stanza di suo fratello. Del signore delle Terre dell’Ovest. Del Principe.

 

Inuyasha prese un respiro profondo e la fece scorrere, chiudendo per un attimo gli occhi mentre cercava disperatamente di trattenere il coraggio che il varcare la soglia sembrava volergli strappare. Richiuse la porta e vi si appoggiò contro. La testa bassa. Non trovava il coraggio di alzarla a fissare il fratello.

 

Lo sbirciò di soppiatto, seduto nel futon. Poteva distinguerne il rifilo fiero alla luce della lucerna. Non sembrava nemmeno essersi accorto della sua presenza, ma Inuyasha sapeva benissimo che ne aveva percepito l’odore. Tuttavia, Sesshomaru non parlava. Lo ignorava semplicemente. Forse era proprio il suo modo di dirgli che non la voleva, la sua presenza.

 

In realtà, in quel momento la mente del demone era attraversata da mille pensieri. Si stava ponendo per l’ennesima volta quella domanda: perché era andato in aiuto del fratellastro? quale dannato motivo lo aveva spinto a gettarsi fuori dalla sala delle riunioni quando una delle sentinelle vi aveva fatto irruzione? Non lo sapeva neanche lui dire, il perché. Semplicemente, sentire che suo fratello era uscito dalle mura per salvare dei ningen che si stavano scontrando con il nemico, l’afferrare Tokijin e il precipitarsi fuori con Koga era stato un tutt’uno. Una decisione razionalmente insensata, ma che aveva obbedito al battito ansioso del suo cuore all’immagine del fratellastro in difficoltà.

 

Fratellastro…Perché continuava a chiamarlo così? Non riusciva a dire altro. Eppure, sarebbe bastato un piccolo sforzo, per pronunciare quell’altra parola. Quella che avrebbe sicuramente spiazzato Inuyasha. Quasi quanto era rimasto sorpreso lui nell’accorgersi che l’hanyou che si era ritrovato davanti era in forma umana. Debole e vulnerabile come non lo aveva mai sentito. Eppure, non aveva esitato ad arrischiare un’azione disperata pur di sottrarre i suoi amici alla morte. Due ningen, che in quel momento erano al sicuro nel palazzo. E poi, cos’era stato quel desiderio prorompente di proteggerlo, quando aveva percepito lo scatto del grilletto? La stessa sensazione di quella volta, quando gli aveva fatto da scudo contro l’attacco di Sounga.

 

Follia. Follia. Follia. Non poteva essere vero. Non poteva davvero aver iniziato ad affezionarsi a quel miserabile rifiuto del suo mondo. Ad un essere dal sangue misto, disonore della sua famiglia. In un istante, tuttavia, si trovò a considerare tutto quello che Inuyasha doveva aver sopportato fin dalla nascita, per il solo fatto di esser un hanyou. Non ne ebbe pietà, ma neanche altezzoso compiacimento.

 

Intanto, il ragazzo dondolava leggermente, incapace di decidersi a parlare o ad andarsene. Semplicemente, continuava a tenere la testa bassa. In fondo, Sesshomaru aveva tutti i diritti di trattarlo a quel modo, di considerarlo solo il frutto di un errore del padre. Di deriderlo e schernirlo. Di ignorarlo, mettendolo allo stesso livello di Naraku. Anzi, ancora più in basso.

 

Le parole che sentì gli trafissero la mente all’improvviso, procurandogli un’emozione fortissima. Quasi capace di togliergli il respiro. Sesshomaru non aveva mosso la testa, continuando apparentemente a ignorarlo, ma la sua voce non poteva essersela inventata. L’aveva davvero sentita, e non con il suo solito tono freddo. Una voce nuova. Come erano nuove e del tutto inattese le parole che aveva distinto. Quell’esortazione a farsi forza.

 

“Alza la testa. Un Principe non la abbassami mai”

 

  
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