Sei
tu tra gli ornelli,
sei tu tra la stipa?
Ombra! anima! sogno!
sei tu...?
(Canzone
d’Aprile, G. Pascoli)
Margherita
strinse le braccia attorno al corpo.
La
neve, smossa da piccoli sbuffi di vento, attraversava obliqua il raggio
di luce
arancio del lampione; muta, se non per lo scricchiolio dello strato
farinoso
sotto i suoi piedi, leggera.
La
chiave era nella sua mano, nascosta sotto i guanti.
La
porta era poco più avanti, nello spiazzo scuro.
-
Non c’è nulla di cui aver paura – si
disse, convinta, e chiudendo gli occhi s’inoltrò
tra due siepi inselvatichite. Continuò a camminare, le
palpebre appena socchiuse
per non inciampare; l’erba scura sotto i suoi piedi
frusciava, le piante secche
frusciavano, il mondo intero frusciava attorno a lei.
-
Io non ho paura – affermò davanti alla porta
chiusa: tirò fuori la torcia dal
cappotto e la puntò sulla serratura; infilò la
chiave, tentò un mezzo giro; lo
completò. Girò ancora.
Era
aperto.
Infilò
la torcia nella fessura, illuminando una porzione di pavimento grigio e
impolverato. Prese coraggio e aprì del tutto, infilandosi
all’interno: lasciò
la porta aperta, così che un fantasma
di luce artificiale l’aiutasse a orientarsi nelle stanze,
anche se aveva già
deciso di esplorare solo il piano nobile.
Mosse
la torcia a destra e a sinistra e illuminò qualcosa di
strano: una fila di
scarpe, rovesciate da un piede frettoloso molto tempo prima, ormai base
per una
colonia di ragnatele impolverate.
Le
superò.
L’ingresso
dava direttamente su una sala da pranzo; la luce ridicolmente debole
passò su
una tavola apparecchiata: pietanze raggrinzite nei piatti di
porcellana, un
candeliere con moccoli di candele, posate impolverate e bicchieri da
cui il
vino era ormai evaporato e la cui unica traccia di esistenza era una
fluorescenza violacea sul vetro.
Un
orologio aveva le lancette ferme sulle tre e trentasette.
-
Incredibile – sussurrò Margherita, alzando il
braccio.
Tutta una
fiorente famiglia:
i congiunti nel quadro affisso sulla parete opposta avevano vestiti
scuri e
facce ancora più scure, appesantite dai baffi.
Passò in rassegna i loro volti,
ma erano troppo piccoli e male illuminati perché potesse
distinguerli.
-
E tu cosa ci fai qui?
Margherita
sobbalzò e si voltò lentamente, facendosi
precedere dalla torcia.
L’uomo
la scrutò con perplessità, avendola apostrofata
come se fosse stata una
conoscente.
-
Questa è casa mia – rispose, insicura, ma lo
avvicinò. Non aveva paura di lui.
-
Scusami. Credevo fossi… qualcun altro.
-
Ah… sei il custode?
Lui
sorrise, tendendo le labbra rosse. Margherita fece finta di non averle
notate,
benché fossero di una tinta molto più accesa
delle sue; aggirò il tavolo,
raggiungendolo sulla soglia.
-
Sì, non lo sapevi? – sorrideva, cordiale. Si
guardò alle spalle come se avesse
udito un rumore. – Se sei d’accordo, possiamo
spostarci in giardino… è meno
lugubre.
Annuì.
La
cappa di nubi, uniforme come ovatta, aveva una tinta rossastra.
Margherita
la indicò, lieta di mostrargli qualcosa di particolare.
-
Non l’ho mai vista – osservò
l’uomo, sorpreso.
-
Mai?
-
Di solito il cielo è nero, quando nevica – fece
notare lui, in tono piatto.
Lei
lo osservò di sottecchi: gli occhi azzurro scuro, se non
sbagliava, la pelle
chiarissima.
-
Io mi chiamo Margherita.
-
Filippo – la guardò negli occhi, nel risponderle,
così lei poté studiare quelle
tinte contrapposte; scoprì che la sua pelle era bianca come
la neve che cadeva,
gli occhi scuri come il cielo notturno, i capelli e le ciglia di un
biondo
scuro.
Filippo
sembrò pensieroso: - Vuoi che ti racconti una storia?
-
Oh, perché no? – lo affiancò, le nocche
che quasi sfioravano la sua mano.
-
Questa villa fu abbandonata al principio
dell’Ottocento… dopo che il padrone di
casa tentò di ammazzare un fattore che abitava da queste
parti, in mezzo ai
campi. Gli imputava la morte del fratello.
Margherita
lo ascoltava, seriamente colpita, così Filippo le concesse
un breve sorriso,
prima di tornare aggrondato e concentrato sul proprio racconto.
– Un giorno di
Novembre delle grida l’avevano richiamato fuori e
lì… assieme alla sua morosa…
c’era suo fratello Renzo. Era annegato
– fissava qualcosa nel buio, quasi invisibile
nell’impossibile luce rossa.
-
Continuò a cercare il suo assassino per anni,
finché non sentì parlare di un
certo Fontana, che scuoiava le faine dopo averle prese e nascondeva il
forcone
sotto il letto, attendendo, così diceva lui, “che
quei signorotti là passassero
sotto casa”. Dopo la morte di Renzo suo fratello si convinse
che fosse stato
proprio lui: quelle che raccontava in giro potevano essere fandonie per
vantarsi, ma considerata la sua fama… era un capro
espiatorio. Così prese una
falce, indossò degli abiti dismessi e attraversò
la campagna… e lo colpì,
mentre quello gridava, finché non intervennero altri
braccianti. Il signore
fuggì e non se ne seppe più nulla.
-
Che stupido – osservò Margherita, con profondo
disprezzo.
Filippo
sorrise fuggevolmente: - Sì, davvero –
concordò, lo sguardo lontano.
-
Cosa guardi? – cercò di guardare nella sua stessa
direzione.
-
Lo stagno, dicono che Renzo annegò proprio là
– rispose Filippo, placido.
-
Andiamo? – Margherita lo precedette, nervosa, guardandolo di
tanto in tanto.
Ricominciò
a nevicare, ma Margherita non si era nemmeno accorta che avesse smesso.
Distolse
lo sguardo dall’acqua nera per portarlo su Filippo, la cui
espressione era meno
rilassata di poco prima; guardò anche le siepi incolte, le
panchine di pietra
spolverate di bianco, notando che i fruscii di poco prima si erano
spenti.
Il
silenzio era assoluto e rilassante.
-
Non fidarti mai, Margherita! – Filippo parlò allo
stagno, più che a lei.
-
Eh?
-
L’acqua si prende ciò che le piace, devi aver
paura di lei! a volte non si
tratta di sentimenti umani, avidità di denaro, rancore,
gelosia o amore; è lei che si
prende ciò che desidera.
-
Cosa vuol dire? – Filippo si chinò su di lei, con
gli occhi assurdamente scuri
e la pelle assurdamente pallida. Lei pensò,
all’improvviso e senza logica, che
erano soli, lontani dagli occhi vigili di chi la conosceva e non
aspettava
altro che vederla fare qualcosa di nuovo, che l’aria era
così attutita che
anche i loro gesti sarebbero stati attutiti e quindi…
Posando
una mano sulla spalla di lui – la stoffa ruvida sotto i
polpastrelli – si drizzò
sulle punte, si mosse in fretta e lo baciò.
Ne
sfiorò appena le labbra, fredde e cedevoli come neve fresca.
La
smorfia sorpresa di Filippo fu bella.
-
Non è che indossi vestiti troppo leggeri? Sei proprio freddo
– commentò per
mascherare il suo leggero imbarazzo. La sua mano scivolò
giù dalla spalla dell’uomo,
si fece indietro.
Filippo
continuò a fissarla, come se si aspettasse che dicesse
qualcosa di diverso.
Margherita
sentì il freddo pizzicarle le gambe, arrampicarsi con mille
manine sulle sue
spalle e avvolgerla tutta, mentre fissava il colletto bianco che
sbucava dalla
giacca.
Gelò.
– Il quadro, in sala… - balbettò,
facendo un passo indietro.
-
Io ti ho detto quello che dovevo dirti – mise altra distanza
tra loro.
Margherita,
pallida in volto, continuò a balbettare e stringere la
chiave con entrambe le
mani, quasi fosse stata un crocifisso: - Io ho visto due…
due… due persone
uguali… ma… ma avevano i capelli e
gli… occhi più chiari. Filippo… Renzo
era…
devo… andare.
Filippo
la guardò tristemente e le sfiorò una guancia con
la punta delle dita.
-
Vai pure, Margherita, io aspetterò ancora a lungo che arrivi
qualcuno di capace.
Margherita
scappò, notando solo allora che l’unica fila di
impronte apparteneva a lei.
Sulla
porta che conduceva alla villa, si arrestò un attimo.
-
Filippo – gridò a pieni polmoni – ti ho
baciato bene?
Le
parve che lui sorridesse, in fondo al giardino.
Giunse
un “sì” abbastanza debole, ma
percettibile.
Abbozzando
un cenno di saluto, gli voltò le spalle e si
gettò nella vuota oscurità della
casa.