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Autore: MissNothing    23/08/2012    5 recensioni
"Si guardò intorno, nuovamente, cercando di localizzare la cassa -ed il cassiere- fra quell'orda di gente ammassata contro un lungo bancone arancione, e sentì addirittura qualche parola familiare qui e lì, segno che forse non avrebbe dovuto sfoggiare quelle tre patetiche frasi francesi che era stato capace di imparare. Poi, improvvisamente, lo vide- era un ragazzo, capelli neri e spettinati, pallido e stranamente sorridente. Sembrava fosse contento di ciò che faceva, e questo per Frank era una novità: nessuno sembrava contento di quel che faceva, in New Jersey. Si avviò verso di lui nonostante la fila, e cercò di non pensare al fatto che non poteva importargli di meno che, nel mentre, si fossero liberate due casse lì accanto: c'era un motivo se c'era addirittura la coda per parlare anche solo un secondo a quel ragazzo, e su questo non aveva dubbi."
[ONESHOT!]
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Frank Iero, Gerard Way | Coppie: Frank/Gerard
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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couep deofefoier


Coup de foudre. 

(Ci credi al colpo di fulmine?)

14 dicembre 2011; ore 17:32


Una voce metallica ma pur sempre chiaramente femminile annunciò il tanto atteso arrivo a destinazione: “Gentili passeggeri, siamo felici di annunciarvi che siamo appena atterrati all'aeroporto di Charles De Gaulle, siete pregati di slacciare le cinture e avviarvi verso l'uscita dell'aereo. I vostri bagagli vi saranno consegnati a minuti”. Frank guardò fuori dal finestrino, esausto dopo il lunghissimo viaggio, e sospirò, chiudendo per un ultimo momento gli occhi prima di trovare la forza fisica e morale di scendere. Per un momenti sembrò di essere incollato al sedile, davvero: non aveva dormito sonni tranquilli, terrorizzato com'era dalle altezze, e da quella minima parte del suo volto che aveva visto riflessa poco prima nel vetro, avrebbe giurato che non sarebbe stato troppo difficile capirlo. Fissò i passeggeri intorno a lui, tutti sorridenti, contenti per le loro vacanze natalizie e per l'arrivo in perfetto orario, e cominciò davvero a chiedersi perché. Perché non riusciva ad essere felice di aver lasciato il Jersey? Perché avrebbe preferito rimanere in viaggio per l'intera settimana piuttosto che doversi alzare da quel sedile? Ma soprattutto, perché era costretto a lavorare ad appena uncidici giorni dal Natale?

Di solito quello era il periodo in cui finalmente staccava con quella maledetta azienda e tornava a casa, a Newark, circondato da parenti stretti e non, come probabilmente stavano facendo molte di quelle persone intorno a lui. Quando si rese conto che era quasi l'unico rimasto lì, purtroppo, lasciò perdere le immagini della sua famiglia e del Natale in casa Iero che gli passavano per la testa e si alzò, emettendo uno strano verso di quelli da enorme sforzo. Sbuffò, dirigendosi verso l'uscita e sperando soltanto che non ci fosse nessun problema con i bagagli.

Passò davvero poco prima che questi ultimi gli fossero consegnati -grazie a Dio era rimasto fedele alla sua regola del “se non entra in una sola valigia, allora non è necessario”-, e si rese conto che se voleva arrivare vivo alla cena di lavoro che avrebbe avuto quella sera, aveva bisogno di carburante. Meglio conosciuto come caffeina. Proprio nell'aeroporto, trovò un bar: fu la prima cosa che vide, a dire il vero, ma non si azzardò ad avvicinarcisi prima di mettere mano sul bagaglio. Si avviò verso di esso a passi veloci, forse un po' troppo, sommerso da una paurosa ondata di gente appena arrivata. Ebbe appena il tempo di guardarsi intorno, che subito si rese conto di quanto la gente fosse diversa, lì. Camminavano tutti con dei sorrisi stampati in faccia, come per mettere in evidenza il fatto che “a Parigi non si può essere tristi”, in file ordinate, senza spingere nessuno, tutti dall'aspetto incredibilmente curato, pulito, come diamanti incastonati in un anello dorato che, in quel caso, non era altro che la loro città. Frank sapeva com'era sentirsi fiero del posto da dove si proveniva: ma mai e poi mai, a dire il vero, avrebbe pensato che potesse essere considerato bello provenire da una città che, a quanto aveva sentito, era piena di ricchi snob. Ignorò quell'ennesimo pensiero, ricordandosi che alla fine doveva passare ben cinque giorni lì e avrebbe fatto meglio a goderseli, varcando la soglia di quel posto. Fu subito travolto da un odore di dolci appena sfornati e, come aveva tanto desiderato, caffè. Si guardò intorno, nuovamente, cercando di localizzare la cassa -ed il cassiere- fra quell'orda di gente ammassata contro un lungo bancone arancione, e sentì addirittura qualche parola familiare qui e lì, segno che forse non avrebbe dovuto sfoggiare quelle tre patetiche frasi francesi che era stato capace di imparare. Poi, improvvisamente, lo vide- era un ragazzo, capelli neri e spettinati, pallido e stranamente sorridente. Sembrava fosse contento di ciò che faceva, e questo per Frank era una novità: nessuno sembrava contento di quel che faceva, in New Jersey. Si avviò verso di lui nonostante la fila, e cercò di non pensare al fatto che non poteva importargli di meno che, nel mentre, si fossero liberate due casse lì accanto: c'era un motivo se c'era addirittura la coda per parlare anche solo un secondo a quel ragazzo, e su questo non aveva dubbi. Inalò, cercando di convincersi che sarebbe andato tutto bene nonostante le sue mancate doti linguistiche, e sorridendogli quando arrivò il suo turno.

«Bonsoir monsieur! Commet-ça va?» Il ragazzo articolò, e Frank si morse il labbro, terrorizzato anche solo di aprire bocca. Era in una maledetta capitale e quel commesso non parlava inglese? Cominciò a balbettare fuori qualcosa che furono principalmente versi, più che parole, e l'altro ridacchiò fra sé e sé, scuotendo il capo e parandosi una mano davanti come per fargli capire di smetterla di preoccuparsi. «Così va meglio?» Provò, sorriso ancora stampato in faccia.

«Decisamente sì.» Rispose Frank, un po' imbarazzato. Rimase in silenzio per qualche secondo, ricordandosi solo in quel momento che era lì per ordinare e di certo non per fissare il modo in cui le mani del ragazzo si muovevano sui tasti del ricevitore cassa.

«Come posso servirla?» Domandò dall'altro lato del bancone il commesso, quasi precedendolo. Frank ci mise qualche secondo per rimettere insieme i pezzi e ricordarsi di cosa aveva bisogno, prima di riuscire finalmente a metterlo “addirittura” in parole.

«Umh, un caffè, grazie.» Annuì fra sé e sé, accennando a muoversi al bancone d'attesa prima che la voce del ragazzo lo interrompesse nuovamente. Rabbrividì, prima di voltarsi verso di lui.

«Sembri sciupato. Ti porto qualcosa da mettere sotto i denti, mh?» Domandò, come se fosse seriamente preoccupato per la salute di uno sconosciuto, sfoggiando quello che Frank catalogò come il miglior sorriso che avesse mai visto prima di sparire dentro quella che forse era la cucina e di essere rimpiazzato da un altro commesso. Sospirò, e ancora prima che potesse capire perché fosse così deluso, il ragazzo riapparve con in mano una busta di carta lucida un po' unta sul fondo e un bicchierone di caffè stile Starbucks. Frank non era riuscito a formulare qualcosa di simile ad un “non preoccuparti” prima, ma di sicuro, quello era il momento adatto per farlo.

«Non dovev-» Prima che potesse finire la frase, fu azzittito dal ragazzo.

«Sssh, ehi, mettiti a sedere, mh? Ci si vede dopo.» Gli fece l'occhiolino, e Frank fu appena capace di fargli un cenno con la mano e ringraziarlo prima di afferrare ciò che gli era stato offerto e lasciare il posto a quelli che erano sicuramente i clienti più fortunati di tutto il locale- dopo lui, ovviamente. Sperava davvero che mantenesse quella promessa: con tutto sé stesso.


14 dicembre 2011; ore 18:05


«Allora, andata bene?» Chiese con voce vellutata quello che, Frank ci avrebbe giurato anche prima di alzare il capo per controllare, era il commesso del locale. Quasi sobbalzò nel sentirla così vicina e pura, non coperta dalle altre voci dei clienti -ormai tutti sfollati-. Questa volta fu lui a sorridere, dopo aver preso l'ultimo sorso di caffè.

«Benissimo, e umh- grazie per il.. il croissant.» Disse, perdendosi un po' a metà frase per osservare completamente il ragazzo: indossava un maglione di cotone a maniche lunghe, nero, sotto il quale c'era una t-shirt dello stesso colore, un paio di jeans forse un po' troppo stretti e delle Chucks rosse, logore e consumate. Il tutto guarnito dal grembiule -arancione, ovviamente- con il logo del bar.

«Di nulla.» Disse, raccattando i resti della busta bianca e del bicchiere che poco prima di aveva dato e lasciando Frank un po' confuso: non avrebbe dovuto pagare? Forse avrebbe dovuto chiedere il conto come in un ristorante? Infondo era dall'altro lato del mondo, quindi perché non provare..

«Quant'è?» Chiese, guardandolo appena prima di cominciare a a cercare in tasca i soldi che poco prima aveva cambiato con uno strano marchingegno. Il ragazzo fece lo stesso gesto con la mano di prima, e se prima Frank era confuso, adesso era completamente atterrito. «Non si usa pagare, a Parigi?» Domandò, solo in parte ironico.

«Di solito sì, ma.. dimmi come ti chiami.»

«Frank. Ora, quant'è?» Disse, andando quasi in iperventilazione: cosa poteva importargli di sapere il suo nome? Perché, tra l'altro? Cristo, non era stato mai un tipo paranoico, ma in quel momento, davvero, non sapeva che aspettarsi.

«Il tuo nome, te l'ho detto. Arrivederci, monsieur.» Il ragazzo pose particolare accento sull'ultima parola, che Frank avrebbe sicuramente cercato sul suo dizionario una volta tornato in albergo, dove, ancora più preoccupato di prima, si avviò dopo aver raccattato la sua valigia.


15 dicembre 2011; ore 10:30


La cena di lavoro era stata a dir poco spossante. Frank non era come le persone con cui di solito lavorava: ricchi, pomposi, così pieni di sé.. figuriamoci se poteva mai trovarsi bene con i loro cloni in versione francese. L'unica persona con cui era andato d'accordo era sicuramente la traduttrice, con la quale, a dire il vero, scappò più di qualche risata ai modi di fare così tipicamente parigini dei presenti. Il risveglio al mattino dopo, anche, era stato terribile: il jet lag lo stava uccidendo, così come il fuso orario, e generalmente, da quando era arrivato a Parigi, nonostante l'esito a dir poco positivo della prima contrattazione per l'importante affare e la nottata nella camera d'albergo più bella che avesse mai visto in vita sua, la cosa migliore che gli era capitata lì continuava ad essere l'incontro con uno stupido ragazzo in una stupida caffetteria in uno stupido aeroporto.

Sbuffò, girandosi e rigirandosi fra le candide lenzuola di quel bianco ottico prima di decidere che era ora di fare qualcosa. Forse, tornando lì e chiedendogli il perché del comportamento a dir poco strano del giorno prima, avrebbe risolto le cose. Avrebbe smesso di pensarci, perché cavolo, è questo che si fa con un semplice commesso- lo si dimentica. Sbuffò nuovamente all'idea di dover raggiungere ancora una volta quella parte della città: il suo primo approccio con l'aeroporto non era stato proprio il massimo, e beh, specialmente ora che era così maledettamente stanco, non sapeva cosa sarebbe riuscito a cogliere da un bis. Di nuovo, però, ebbe un patetico flash del ragazzo di cui non sapeva nemmeno il nome steso lì, accanto a lui, e svestito quasi quanto Frank stesso, e si rese conto di aver toccato il fondo: si lavò, si vestì nel migliore dei modi e salì sul primo taxi.


15 dicembre 2011; ore 11:01


Non c'era troppa gente a quell'ora, in caffetteria: Frank ringraziò mentalmente per la sua fortuna, continuando ad osservare cautamente il posto da fuori, deciso ad entrare solo se avesse visto John- così aveva deciso di chiamarlo, nonostante gli stesse più che male come nome, finché non avrebbe scoperto quello vero. Il suo sguardo, improvvisamente, incontrò la sua chioma corvina: da lì in poi, bastarono pochi secondi prima che i loro occhi si incontrassero e che, per l'ennesima volta, sulla faccia del commesso si fece spazio un sorrisone. Di certo non era rivolto al cliente che stava servendo in quel momento, e di questo Frank ne era sicuro. Entrò, notando per la prima volta il rumore di una qualche campanella che segnalava l'arrivo di un cliente, e andando dritto verso la cassa, questa volta senza esitazioni.

«Quando ti ho detto “arrivederci”, non pensavo che ti avrei davvero rivisto.» Cominciò John, tutto preso dal suo ricevitore di cassa. «Je suisse Gerard, ad ogni modo.» Disse casualmente, sfoggiando per l'ennesima volta il suo francese. Il ragazzo alzò appena un secondo lo sguardo dal display, e nonostante Frank capisse poco e niente, era riuscito a capire che il suo nome era certamente Gerard. «Cosa le porto, signore?» Pose un accento un po' troppo forzato sull'ultima parola, e si rese conto in quel momento che era stato perché uno di quelli che con ottime probabilità erano i suoi superiori, lo stava fissando. Forse era normale che fosse un po' troppo amichevole con i clienti. Forse lo stava controllando perché era così con tutti.. questo avrebbe spiegato anche la fila del giorno prima, dopo tutto.. eppure, Frank non riusciva a non sperare che tutto ciò non fosse poi così vero.

«Un caffè, grazie.» Gli disse, osservando il modo in cui Gerard non aveva ancora allontanato lo sguardo dall'omaccione che lo stava scrutando fino a qualche momento prima, e quando uscì definitivamente dal locale, tornò ad osservarlo con lo stesso sorriso amichevole di prima.

«Le tariffe sono cambiate, colpa della crisi.. oggi per avere un caffè, il prezzo è berlo insieme al commesso. Lei che dice, monsieur? Non è a dir poco un outrage?» Picchiettò ritmicamente le dita sul bancone, continuando a sparare parole francesi qui e lì. Nonostante tutto, però, Frank capì: quel che non capì, invece, era il perché di quell'invito. «Ci stai, Frank?» Continuò, incitandolo dopo averlo visto così silenzioso e perplesso.

«Perché no.» Sorrise il ragazzo, arrivando alla conclusione che infondo, se qualcosa fosse andato storto, gli sarebbe bastato evitare quel posto per i restanti quattro giorni.

«Aspettami qui.» Gerard lo guardò, cercando risposta, e Frank annuì. Tornò un minuto dopo insieme a due caffè ed un ragazzo che probabilmente avrebbe preso il suo posto durante la sua breve assenza. Non indossava nemmeno più il grembiule, a dire il vero, cosa che fece dubitare il ragazzo dell'ultimo aggettivo che aveva attribuito alla parola “assenza”. Si trovarono un tavolo al piano di sopra, dove nessuno avrebbe potuto vederli, e Frank, quasi stomacato dalla quantità di caffè che aveva già ingerito quel giorno, cominciò a buttare giù nervosamente anche il quarto.

«Sei di qui?» Per sua enorme sorpresa, fu il primo a cominciare. L'inglese di Gerard era fin troppo perfetto, perché lo avesse appreso solo per questioni di lavoro: sul suo francese, invece, non poteva esprimersi. Il ragazzo scosse il capo, confermando la sua teoria, e allontanò le labbra dal bordo della sua “tazza” di caffè.

«Sono del New Jersey. Vivo qui da tre anni.» Gli sorrise, e Frank per poco non rimase lì a bocca aperta per dieci minuti filati per via di quella coincidenza così pazzesca. Capendo che la storia non era finita, comunque, non la mise subito in evidenza. «Parigi era il mio sogno.. ed ora mi trovo così.» Sorrise, malinconico, e subito il ragazzo si ricordò della prima impressione che aveva avuto di Gerard: “sembrava contento di quello che faceva”. Mai giudicare un libro dalla copertina.

«Anch'io sono del New Jersey.» Gli sorrise, cercando di tirargli su il morale. Gerard alzò lo sguardo dal suo caffè e lo guardò con gli occhi sgranati, incredulo. «Sono qui per lavoro.» Continuò Frank, sicuro che quella precisazione fosse più che necessaria.

«Che lavoro fai, Frank?» Domandò, a dir poco interessato. Il ragazzo non era abituato a sentirsi chiedere domande del genere in maniera così spontanea: di solito volavano lì, giusto per riempire momenti di silenzio, e invece poof, ora si trovava davanti ad un commesso, e gliele stava chiedendo con più interesse di quanto tutti i suoi amici messi insieme avessero mai fatto.

«Lavoro per un'azienda- assicurazioni, robe così.» Annuì, cercando di convincere sé stesso. «Quanti anni hai?» Domandò, sentendosi in dovere di chiedergli qualcosa e cercando di suonare interessato quasi quanto lui- non che non lo fosse, era solo un po' strana come situazione.

«Vignt-neuf.» Sorrise il ragazzo, consapevole che lo avrebbe messo in difficoltà: se c'era qualcosa che odiava, era dover indovinare l'età altrui. E sbagliare, ovviamente. «Et toi?» Chiese, e nonostante Frank cominciasse a chiedersi perché si ostinasse a parlare francese e perché il suo accento fosse così maledettamente perfetto da fargli cadere le braccia nonostante fosse del New Jersey, capì dal tono interrogativo che gli stava chiedendo la stessa cosa.

«Ventisette.» Replicò, sorridendo nella speranza che fosse abbastanza clemente da fargli da tradurre. «E continuo a non capire quanti ne hai tu, mr. Parlo-tutte-le-lingue-del-mondo.» Scherzò, scuotendo il capo in esasperazione. Gerard, invece, ridacchiò, e saltò fuori che ne aveva ventinove.

Parlarono per ore, anche a caffè finito, finché qualcuno non chiamò Gerard dicendogli che “Maxime stava tornando”. Frank ipotizzò che Maxime fosse il suo capo, e lasciò correre, consapevole che sarebbe di sicuro tornato e sperando che le “tariffe” rimanessero quelle.


16 dicembre 2011; ore 17:34


Quella sera, Frank si era documentato: aveva preso un dizionario in mano e aveva studiato qualche termine. In più, aveva imparato le basi e come formulare una frase di senso compiuto. Tutto questo, infondo, per impressionare Gerard. Non gli importava nemmeno più tanto di fare bella figura con gli uomini del business, che avevano ugualmente apprezzato il gesto, quella mattina a pranzo, e quel giorno, aveva solo voglia di vedere nuovamente quel cassiere che non riusciva a togliersi di testa. A quel punto, non gli importava nemmeno più di cosa significasse tutta quella situazione. Era arrivato in aeroporto, ormai convinto che avrebbe fatto presenza fissa per tutti i giorni rimanenti, e si era avvicinato di fretta e furia verso quell'edificio (arancione) che era come un pungo in un occhio. Purtroppo, quando era entrato e non lo aveva visto, aveva preso il suo solito caffè, sperando che riemergesse da qualche angolo del bar, eppure non era mai arrivato. Che lo avessero licenziato per colpa sua? Il pensiero arrivò in fretta così come andò via, e Frank decise semplicemente di girare. Lì vicino c'era la metropolitana: forse non era sicuro addentrarsi in un posto così affollato -e soprattutto per una città che non conosceva-, ma era determinato a salire e scendere ad una fermata a caso. Infondo era lì da già due giorni e le uniche cose che aveva visto erano due ristoranti, la sua camera di albergo ed una caffetteria.

La gente tirata a lucido dell'aeroporto, purtroppo, sembrava sparita, lì sotto: nessuno aveva un secondo riguardo per nessuno, e non facevano altro che squadrarlo dalla testa ai piedi, in uno scenario di vecchiette che pretendevano i loro posti a sedere e donne con delle pellicce più gonfie delle loro tette rifatte. Frank sbuffò, e dopo la terza fermata, decise che era abbastanza: la sua prima impressione sui francesi non era stata sbagliata, a quanto pareva. Non aveva nemmeno letto il nome della tappa alla quale era sceso, ma visto e considerato il numero di persone che sembravano aver raggiunto la loro meta insieme a Frank, non si preoccupò tanto di essere finito in dei desolati bassifondi. Tutt'altro, in effetti, vide quando uscì da quel buio cunicolo: la strada era a dir poco splendida, enorme, piena di vita, di gente, negozi in ogni angolo, e luci di Natale -ancora spente, data la ancora abbondante illuminazione fornita dal sole- per un perfetto mix in stile Parigi.

Non era quello che si aspettava, a dire il vero, ma si sentiva più che familiare per quella via, e la percorse tutta, senza nemmeno preoccuparsi di dove fosse, come ci fosse finito, perché ci volesse rimanere così ardentemente e soprattutto, senza nemmeno rendersi conto di quanto avesse effettivamente camminato finché non raggiunse una via abbastanza diversa da fargli capire che non era più sulla strada Madre- così l'aveva nominata temporaneamente. Diede una veloce controllata all'orologio e si rese conto che erano le sei e mezza: presto, in effetti. Si guardò intorno, e se la prima cosa che aveva notato prima erano le persone, ora si trovava in un posto decisamente più calmo. Al lato del marciapiede sinistro c'erano degli alberi, al posto dei negozi -i quali non mancavano però sulla destra-, e Frank capì che forse si trovava nelle vicinanze di un parco. Continuò a camminare, fissando la strada più verde e rendendosi conto della quantità esorbitante di artisti di strada che si trovavano in quella zona. La sua attenzione, fu catturata da un ragazzo con una cresta verde che stava dipingendo quello che forse era il quadro più bello che avesse mai visto: triste pensare che invece di essere in una galleria d'arte, quel pezzo raffigurante la strada sulla quale si trovava pochi minuti prima, sarebbe rimasto molto probabilmente lì. Una coda infinita di ragazzi e ragazze che vendevano quadri o faceva ritratti si ammassava lungo quel marciapiede, e più scendeva, più la quantità si faceva numerosa.

Nuovamente, uno di loro in particolare attirò la sua attenzione. Aveva i capelli neri, come Gerard. E Frank non ci avrebbe giurato, ma quelle sembravano essere le stesse Chucks rosse che due giorni prima avevano tanto attirato la sua attenzione per il modo in cui erano abbinate a quel nero totale che indossava, e- e in quel momento, quando il ragazzo si voltò, Frank non riuscì a credere di trovarsi di fronte a Gerard. Gli si bloccò il cuore in gola, gli tremavano le gambe e in generale, tutto quello non poteva star accadendo davvero. Non sapeva se avvicinarsi o no: il ragazzo, in effetti, sembrava abbastanza sulle sue. Fumava, cosa che Frank non avrebbe mai pensato potesse fare -nonostante lui fosse il primo ad esagerare, in certi giorni-, e al 101% non lo aveva ancora visto. Era in tempo per scappare. Tornare indietro prima che fosse troppo tardi, prima che si trovasse insieme a lui in un ambiente diverso da quello di lavoro, un ambiente in cui non sapeva cosa aspettarsi e del quale aveva quasi paura, in quel momento, quando, in quel preciso istante, il ragazzo stesso sgranò gli occhi e gli sorrise, segno che ormai era troppo tardi. Frank non ebbe scelta ed attraversò la strada, infilando le mani nel suo cappotto nero e guardando sia a destra che a sinistra nonostante quella fosse zona pedonale.

«Frank, mon amis! Viens ici!» Gli disse, gesticolando con la mano libera dalla sigaretta. Il ragazzo si trovò un po' spiazzato, per l'ennesima volta, da quell'accento così bello e musicale, ma gli bastò capire la parola “ici” (qui), ad ogni modo, per capire che voleva che si avvicinasse di più. Timidamente, fece quei due fatidici passi avanti si trovò vicino all'artista ed i suoi due sgabellini (ipotizzò che facesse ritratti). «Che ci fai qui?» Buttò velocemente la sigaretta in un tombino e tornò al suo posto, prendendo in mano il blocco vuoto e facendo cenno a Frank di sedersi accanto a lui. Ora riusciva a capire il perché del visibile nervosismo di prima, almeno.

«Non lo so. Non so nemmeno dove diable sono.» Disse, sparando casualmente una parola francese giusto per renderlo fiero. Manco fosse suo padre, dopotutto. Gerard ridacchiò alla sua pronuncia, trascinando con sé anche il ragazzo prima di decidere di schiarirgli finalmente le idee.

«C'est le Boulevard des Champs-Élyées.» Precisò, continuando con quella piccola sfida sul francese che Frank già sapeva che non avrebbe mai potuto vincere. Passò qualche secondo di silenzio, finché Gerard non capì che forse era il caso che riprendesse il discorso.. e nella sua lingua, anche. «Allora, come ti sembra Parigi?» Domandò con un sorriso stampato in faccia, come se non fosse nemmeno possibile che ricevesse un giudizio negativo sulla città che, come aveva detto ieri, era il suo sogno.

«E' tutto un po' freddo. Sterile. Pensavo ci fosse un po' più di.. calore.» Disse, timidamente.

Gerard, in tuta risposta, lo guardò come se avesse appena assistito ad un omicidio: sgranò gli occhi e gli si aprì la bocca in segno di totale shock. Frank non riuscì a non ridacchiare alla sua teatralità, unica cosa che sembrava aver acquisito dai parigini. «No, Frank, c'est ne pas possible! Andiamo, la città dell'arte, dell'amore, mi aspettavo qualsiasi cosa ma non che dicessi che è un posto freddo.» Scosse il capo fra sé e sé, deluso, prima di continuare con ben altro discorso ma sullo stesso tono. «Posso disegnarti?» Finì in un sospiro, lasciando il ragazzo stranamente lusingato.

«Posso sapere perché non eri a lavoro, prima?» Chiese Frank, perplesso, attanagliato dai sensi di colpa dell'ipotesi di prima che si faceva sempre più concreta.

«Ehi, non devo servire caffè tutto i giorni..» Ridacchiò fra sé e sé, come se fosse ovvio. «Faccio quel lavoro per pagarmi il lusso di vivere così.» Continuò, e ora, tutto ciò che aveva detto ieri, aveva finalmente senso. «La vie de l'artiste..» Disse, sospirando e guardando il suo blocco completamente immacolato. «Ora posso disegnarti?» Accennò un sorriso, insistendo sulla domanda con un cambio di tono così radicale che per poco non lo fece scoppiare a ridere.

«Non ho un centesimo, Gerard..» Abbassò il capo, arrossendo. Era più che imbarazzato a dover dire di no, ma a quel punto gli doveva troppo per i suoi gusti, e non voleva sentirsi ancora di più a disagio di quanto non fosse già a quel punto. Gerard, in tutta risposta, gli rise in faccia, ad una battuta che probabilmente solo lui aveva colto.

«Credi che ti avrei fatto pagare, ad ogni modo?» Chiese con un sorriso stampato in faccia.

«Sto facendo andare in tilt tutte le tue attività.» Sbuffò Frank, mettendosi ad ogni modo in posa.

«E non solo quelle, Frank, non solo quelle..» Continuò l'artista, e davvero, il ragazzo non volle fermarsi troppo a pensare a cosa avrebbe potuto significare quella frase.


17 dicembre 2011; ore 20:07


Era dalla sera prima che Frank non riusciva a smettere di fissare quel pezzo di carta che, ormai, era una reliquia. Gerard gli aveva lasciato il ritratto più bello che avesse mai visto, dimostrandosi per l'ennesima volta un pozzo di sorprese, e lo aveva congedato con una frase che, anche dopo un giorno intero, continuava a fargli venire le farfalle nello stomaco: “Tieni, questo è per te. Sotto la mia firma c'è il mio numero di telefono, se ti andasse di cambiare idea su Parigi”. E poi gli aveva sorriso, come se niente fosse, raccattando la sua roba, e lasciandolo lì con un semplice “ciao”.

Frank aveva formulato tante spiegazioni possibili, la notte prima, dopo l'ennesima cena di lavoro: la più credibile era sicuramente che il suo ego ed il suo amore per Parigi avessero preso il sopravvento sulla sua razionalità, spingendolo ad un gesto così radicale. Ma ad ogni modo, ego o non ego, fatto stava che gli aveva lasciato il suo numero, e Frank cominciava a sentire quella strana sensazione che provi quando sai che forse a qualcuno piaci quasi quanto a te piace quel qualcuno.

Proprio per questo, avendo concluso l'affare in anticipo e avendo la serata libera, non si lasciò scappare la possibilità di vederlo prima del ritorno del giorno dopo. Prese il telefono e si fece coraggio, pigiando i tasti con una lentezza impressionante.


18 dicembre 2011; ore 00:23


«Frank, questa è l'ultima tappa del giro.» Gli sorrise Gerard, indicando con sguardo rapito la Senna. «La Seine..» Gli disse con tono un po' troppo languido all'orecchio, lasciandogli una scia di calore lungo il collo mentre entrami aspettavano lo chateau sul quale si sarebbero imbarcati. Quella era stata probabilmente la giornata più bella che Frank avesse passato da un bel po';

Per prima cosa, erano andati a cena sulla famosa Champes-Élyées, della quale, il ragazzo aveva deciso, era completamente innamorato. Illuminata, era ancora più bella di come gli era sembrata quel sedici dicembre, e riguadagnava quel calore che sembrava aver perso. Non andarono in un ristorante famoso e pieno di gente spocchiosa, dove Frank era ormai abituato a passare le serata, ma che di certo non si addiceva allo scopo che avevano loro due: in un primo momento si era sentito a disagio, ma dopo un po', aveva messo tutto da parte e aveva aspettato che il resto della serata venisse da sé. Ed era stato così bene che, il pensiero che in qualche ora sarebbe partito, gli fece passare l'appetito.

Poi avevano visitato la Cattedrale di Notre-Dame, arrivandoci incredibilmente in fretta grazie ad una scorciatoia che Gerard aveva imparato con gli anni, e Frank era rimasto a dir poco a bocca aperta di fronte alla vita che c'era in quel posto, nonostante fossero le dieci -orario taboo in un posto pieno di crimini come Belleville- e quella non fosse proprio una zona centrale. Era rimasto di stucco anche di fronte alla magnificenza di quell'edificio, che lo sovrastava in maniera così imponente e nobile da fargli dubitare che fosse stato costruito da gente come lui- niente poco di meno che umani.

La sua parte preferita era stata di sicuro la Tourre Eiffel: il modo in cui era illuminata, il posto in cui era situata, la gente, il chiacchiericcio generale, tutto in quel posto gli aveva fatto credere che in quel momento non dovesse trovarsi da nessuna parte se non lì. Tutto lo aveva fatto sentire come se fosse stato un cittadino a tutti gli effetti, e per un po', Frank ci voleva credere. Poco dopo, Gerard lo aveva a malavoglia trascinato via, per portarlo lì all'imbarco dove ora si trovava.

Finalmente lo chateau arrivò, con un minuto cronometrato di ritardo, ed i due salirono, cercando di accaparrarsi i posti con la vista migliore. Faceva a dir poco freddo, lì sopra, ma ne valeva la vista ne valeva la pena. Le luci, il modo in cui esse si riflettevano sull'acqua, i ponti, la sfarzosità, la bellezza che si vedeva in ogni singolo angolo di quella città, fece capire a Frank perché quella città era il sogno di quello splendido ragazzo seduto accanto a lui. Si voltò a guardare Gerard, per poi scoprire che lo stava già fissando.

«Che c'è?» Chiese Frank, innocente.

«Nulla.» Sorrise Gerard, espressione un po' malinconica stampata in volto. Volto dal quale, Frank non riusciva a staccare gli occhi: per tutta la serata, non aveva smesso di voler baciare Gerard. Era diventato un chiodo fisso, ovunque si trovasse. Ogni momento sembrava il momento giusto, eppure, si rivelava sempre un fallimento quando qualcosa succedeva, facendo a pezzi l'atmosfera. Si chiese cosa sarebbe potuto andare storto se l'avesse fatto in quel momento, ed arrivò in fretta alla conclusione che la risposta era tutto. Tutto sarebbe potuto andare male. Eppure, tutto sarebbe potuto andare bene. E non lo avrebbe mai saputo se non ci avesse provato.

«Ci credi al colpo di fulmine, Gerard?» Chiese, terrorizzato di ricevere un “no” come riposta. Perché infondo, il suo cos'era se non un colpo di fulmine?

«Prima non ci credevo.» Disse, tornando a guardare il paesaggio di fronte a lui. «..Prima.» Specificò nuovamente, come se avesse notato l'espressione contrariata di Frank. «E a te piace Paris?» Domandò, ricordando al ragazzo che lo scopo iniziale della serata era in effetti quello di fargli cambiare idea su quella città che ora amava con ogni pezzo di sé stesso. Si crogiolò per qualche secondo nella bellezza del suo accento, prima di rispondere a modo suo.

«Più di quanto vorrei, a dire il vero..» Sorrise fra sé e sé, pensando a quante cose gli sarebbero mancate una volta tornato in Jersey. Lui in cima a tutte, ovviamente.

«Le ville de l'amour..» Disse Gerard, guardandolo negli occhi con un sorriso stampato in volto. Frank capì che quello era il momento. Quello. E che, dal modo in cui aveva pronunciato quelle parole, non poteva sbagliarsi: non era l'unico a desiderare quel che stava per accadere. Dal primo momento. Poggiò delicatamente la mano dietro il collo del ragazzo, giocando lascivamente con una ciocca dei suoi capelli. Gerard lo guardò, le labbra appena schiuse e gli occhi profondi e pieni di tante emozioni che in quel momento Frank non si sprecò a leggere. Si avvicinò quel poco che bastava perché le loro labbra si incontrassero, all'inizio in un semplice, casto, bacio, per poi schiudersi con una lentezza a dir poco frustrante. Entrambi, da quel momento in poi, non riuscirono a godersi molto del paesaggio.

«Gerard..» Frank quasi gemette, con la fronte ancora poggiata contro quella del ragazzo.

«Je t'aime, mon cheri.» Sussurrò l'altro, rendendo l'attimo così perfetto che entrambi si chiesero come tutto quello potesse essere cominciato da un caffè.


18 dicembre 2011; ore 08:03


Quella sera, entrambi capirono che Gerard aveva avuto stranamente torto: l'ultima tappa non fu la Senna, ma casa sua, dove Frank aveva passato la nottata. Non aveva avuto troppo tempo per guardarsi intorno la sera prima, ma generalmente, c'era il caos: pennelli e quadri ovunque, persino nel lavandino della cucina, lampade poco funzionanti e montagne di libri. Esattamente il posto che gli si addiceva, a dirla tutta. L'aereo di Frank sarebbe partito alle undici, quindi si prese tutto il tempo necessario per dire addio -anzi, un lungo arrivederci- a tutte le cose che gli sarebbero mancate a casa. Si voltò verso il ragazzo che dormiva beatamente accanto a lui, chiedendosi come facesse a starsene con la schiena così scoperta nonostante fosse dicembre ed il termosifone si fosse rotto in seguito ad un esplosione nelle tubature al piano di sotto. Gerard non viveva nella zona più agiata della città, e questo era chiaro ad entrambi, ma Frank invidiava il suo coraggio: non era sicuro che sarebbe riuscito a fare una cosa del genere pur di vivere il suo sogno. Raccattò la sua maglietta da terra, infilandosela di fretta e furia per poi rivolgere nuovamente la sua attenzione al suo amant. Percorse il profilo della sua sporgente spina dorsale su e giù con un solo dito, per poi prendere a baciarlo ovunque vedesse pelle scoperta. E non poteva fare altrimenti, considerati i chilometri che li avrebbero separati per molto, molto tempo.

Gerard si svegliò poco dopo, e la tortura peggiore fu sapere che entrambi erano ben consapevoli del fatto che il loro tempo stava per scadere e Frank stava per andare. Alle nove lasciò l'appartamento: gli disse che lo amava, che sarebbe tornato, e che lo avrebbe chiamato ogni giorno, nonostante vederlo quasi in lacrime fu un'esperienza quasi impossibile da sostenere.

E anche in quel momento, mentre era seduto in aereo accanto ad una qualche coppia sposata, ne era sicuro: Frank credeva nel coup de foudre, in quel momento più che mai.



**


Salveeeeeeeeeeeeofjerifjerj!

Okay, lo so: sono praticamente scomparsa, ma ci sono, più o meno intera. (?)

INDOVINATE CHI è STATA A PARIGI? Non io. (ノ◕ヮ◕)*:・゚✧

O almeno, non quest'anno. Avevo sette anni quando sono stata in quella città splendida e da lì è cominciata questa fissa per la Francia e qualsiasi cosa la riguardi. Mi scuso per le conoscenze un po' frammentarie e patetiche di francese, ma ho provato a fare il mio meglio. -w-

Non so da dove mi sia uscita tutta questa fluffaggine, ma ehi, mi mancava postare, e considerato che l'ho scritta in una nottata, poteva andare peggio.

Pensavo di mettere le traduzioni delle parole e frasette francesi usate, ma poi mi sono resa conto che sono tutte abbastanza ovvie o spiegate durante il corso della storia, quindi non so, se avete altre domande, sono qui. (Y)

Come al solito, grazie in anticipo.

Alla prossima. <3

Ps: ci sentiamo a settembre noi, NON VI LIBERERETE DI ME, MUHHAAHHAA *coughcough*


   
 
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