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Autore: Eko1    25/08/2012    0 recensioni
Allora, questa è una storia che ho scritto al corso di scrittura creativa ancora due anni fa...e la "consegna" era "Scrivete, in prima persona e in tempo presente, di qualcuno che si innamora di voi."
Praticamente ho dovuto scrivere di me stessa vista da qualcun altro. Non vi dico neanche la fatica. Comunque il protagonista si chiama Matteo, che si innamora di me, Paola. Diciamo che le uniche cose inventate in questa storia sono Matteo e Marco!
Buon divertimento, lo pubblico in capitoli che sennò è un mattone terribile da leggere tutto insieme!
Genere: Comico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Giorno 7

 

Sono le quattro e mezza, la sto aspettando fuori dal centro universitario. Continuo a tirar fuori il libro dalla borsa e a rimettercelo dentro. L'ho letto, e la storia non mi è piaciuta per niente. Banale, sconclusionata. Lui è innamorato di due donne. Una praticamente morta che vive nel passato, una viva nonostante la morte attorno a lei. Una cagata, per conto mio. La vedo arrivare da in fondo alla strada. Cammina in modo strano, poco femminile, forse anche a causa delle enormi scarpe che porta ai piedi. Non è magra, per niente. Anzi è piuttosto grassa, ma nel complesso ha un'armonia. Non è come quelle ragazze che sembrano fatte con pezzi di altre, e nemmeno come certe obese del mio corso, con le cosce che strabordano dalle sedie e le pieghe di grasso che si mangiano pezzi di maglia. Ha una chitarra sulla spalla, e un enorme ombrello in mano. Due grosse cuffie le nascondono completamente le orecchie. Sembra quasi un'aliena, con quelle due enormi protuberanze che le escono dai lati della testa. Ogni tanto dà un tiro alla sigaretta che tiene tra l'indice e il medio, ed io stringo il libro tra le mani talmente forte che mi vengono le nocche bianche. Si toglie le cuffie, fermandosi davanti a me. La sua bocca si distende in un sorriso gioioso, ma forse è solo entusiasta di riavere il suo libro. Chiude l'ombrello e guarda il cielo grigio, stendendo un braccio in fuori, il palmo rivolto verso l'alto.

“Strano..ero convinta che piovesse..” mormora, più a sé stessa che a me. Poi, come se mi avesse messo a fuoco veramente solo in quel momento, mi si avvicina e mi sfila il libro dalle mani.

“Ciao! Allora, ti è piaciuto?” Mi chiede. Ha gli occhi brillanti e grandi, e mentre parla mette il libro nella borsa che le avevo visto la scorsa settimana. A giudicare dalla curvatura, quella sacca di stoffa deve pesare più o meno otto chili.

“No. Cioè non molto. Cioè è interessante..” Fa una smorfia, evidentemente la mia spiegazione non la convince abbastanza.

“Senti..lo vuoi un caffè?” Fa un cenno con la testa verso il bar lì vicino. Sto per dirle che io non bevo caffè perchè inibisce le sinapsi ma decido di lasciar perdere e di seguirla. Entra lei per prima, e mi tiene aperta la porta.

“Non dovrebbe essere il contrario?” Domando, cercando di essere simpatico, e forse ci riesco, visto che lei ride e scuote la testa, sedendosi ad un tavolo poco lontano dall'entrata.

Sistema la chitarra vicino a sé,sul divanetto, e appoggia la borsa dall'altra parte, tirandone fuori il pacchetto di Winston, l'accendino e il cellulare e disponendo tutto sul tavolo alla sua sinistra. Io la osservo, come ammaliato. Sembra che stia disponendo gli oggetti come si dispongono le posate ad una cena importante, con minuzia, quasi con amore.

“ Fai tutto questo trambusto ogni volta che vai in un bar?” Lei mi guarda, come se non avesse capito. Poi comincia a ridere, coprendosi la bocca con la mano sporca d'inchiostro.

“Hai detto trambusto?” Mi chiede, come se non avesse capito bene. Io annuisco, sconvolto dal suo comportamento.

“ Si..trambusto...casino insomma.”

Si schiarisce la voce un paio di volte, e torna seria.

“Si. Sempre. Perchè non ti è piaciuto, il libro?”

Cominciamo a chiacchierare tranquillamente, come se ci conoscessimo da anni e ci fossimo ritrovati lì, per caso. Come due vecchi amici delle elementari che si rivedono e decidono di prendersi un caffè, cercando di riallacciare i ricordi comuni a quelli troppo distanti.

Mentre parla, gioca con le collane che ha al collo. Una ha quattro sfere d'acciaio, l'altra ha un pendente enorme e azzurro.

“Me l'ha portata mio zio dalle Maldive. Si chiama Pietra di luna, non è stupenda?” Annuisco, anche se vorrei dire che è lei ad essere stupenda,non la pietra. Ma mi trattengo. Lei mi fissa per un secondo, probabilmente cercando di capire cosa mi passa per la testa, poi ci rinuncia.

“Fa il veterinario, sai? E io pure.” ha l'aria orgogliosa, trionfante “Io pure farò la veterinaria! Anche se” si sporge verso di me e abbassa la voce, che si fa all'improvviso più seria. “Io vorrei fare la fotografa. O la cantante. Ma ci sono troppi problemi, troppe menate..” liquida la questione con un gesto della mano. Si allontana, velocemente come si è avvicinata, e riprende a parlare con il solito tono gioioso.

Io mi rilasso e la lascio parlare. Come un fiume, ecco com'è. Una corrente in piena. Mentre parla risponde ai messaggi, gesticola, si guarda intorno, non sta ferma un secondo.

“Beh io ho parlato anche troppo.” Incrocia le braccia, appoggiandosi con la schiena al divanetto.

“Adesso tocca a te.” Mi sorride. I denti inferiori sono leggermente accavallati, ma non tolgono armonia al suo viso. Ha un viso che si emoziona. Quando ride, ridono anche gli occhi, e sulle guance le compaiono due fossette.

“Io..mi chiamo Matteo.” Dico, poi resto in silenzio. I suoi occhi si chiudono leggermente, come in attesa, o come se sospettasse uno scherzo.

“E poi?” Mi domanda.

“E poi cosa? Mi chiamo Matteo, mi piace la musica, studio ingegneria, mi fa schifo il tonno in scatola e colleziono soldatini.” So che si metterà a ridere. O peggio, se ne andrà. Ecco in cosa mi hai trasformato,Martina. In qualcuno incapace di relazionarsi con le altre persone. Chiusi al sicuro nel nostro bozzolo, avevamo lasciato fuori il mondo. O meglio, io avevo lasciato fuori il mondo. Tu ne avevi fatto entrare anche troppo.

Ma Paola è davanti a me. Ha ancora le braccia incrociate, e aspetta. Non riesco a dirle più niente.

“Fai collezione di farfalle?” Cita il Piccolo Principe. Le chiedo se ha preso la domanda dal libro di Saint-Exeupery e lei annuisce.

“Cosa vuol dire addomesticare?” dico, prendendo coraggio.

“Vuol dire che tu verrai qui ogni giorno alle quattro. Io per i primi giorni ti ignorerò ma poi comincerò ad aver voglia della tua compagnia.”

“Ma non posso venire ogni giorno quando voglio?”

“No. Se tu vieni ogni giorno, alle quattro, io dalle tre e mezza comincerò ad essere felice.” Batte appena le mani. Sembra felice davvero.

Continuiamo così per il resto del tempo, fino alle sette e mezza. Lei mi pone le domande più strane, e io le do le risposte più sincere e pensate possibili. Nessuno mi aveva mai chiesto tante cose in un pomeriggio. Nessuno mi aveva mai chiesto tante cose in assoluto. Guardo le gocce di pioggia che cadono e scivolano lungo il finestrino dell'autobus, pensando a lei con il suo vestito corto e le calze sempre bucate e un piercing all'orecchio con una pallina mancante.

Immagino quello che mi ha raccontato come se tirassi fuori dalla mia mente le scene di un film. Mi accorgo che mi ha raccontato solo cose belle. Tiro fuori il telefono dalla tasca, sta vibrando. Un nuovo messaggio.

“Sabato alle quattro?” è lei. Lei e vuole vedermi.

“Dalle tre e mezza comincerò ad essere felice.” scrivo. Rimango con quella risposta non inviata davanti per dieci minuti buoni. Poi la cancello. Ripiego su un “Va bene ;)” Glielo invio. Non era quello che volevo scriverle. E lo sa anche lei.

 

Giorno 15

 

Sabato arriva senza che nemmeno me ne accorga. E io sono felice dalle tre e mezza. Ho riletto “Il Piccolo Principe” in una serata, in modo da poterle dare nuovi spunti per le sue domande. Non avrò il coraggio di fargliene nemmeno una, ma almeno voglio fare un tentativo.

La aspetto alle quattro, davanti al centro. Sta arrivando, ma non è da sola. La vedo per mano con un tipo, un ragazzo dai capelli lunghi e con la barba, non tanto alto ma ben piazzato. Stanno ridendo, e vedo che lei lo guarda adorante, come se fosse la cosa più bella di questa terra. Quando lui la abbraccia io mi giro, facendo finta di essere interessato alla targa infissa sulla porta dell'aula studio.

“Ehi, Matteo!” Mi chiama. Ho un nodo allo stomaco e la bocca secca. Mi volto e vedo che lei sta venendo verso di me, quasi correndo, trascinandosi il tipo per mano.

“Matteo..ciao..” ha il fiatone e i capelli scompigliati e umidi di pioggia. Il mascara le è colato un po' su una guancia, i suoi occhi ridono, mentre si sposta la frangia dalla fronte con le dita.

Si volta verso il ragazzo e me lo presenta.

“Matteo, Denis..Denis..Matteo..” Ci stringiamo la mano e vorrei stritolargliela. Vorrei fargli del male, l'antipatia che provo per questo tipo è reciproca. Ci guardiamo negli occhi per un secondo, prima che lui si avvicini a lei, togliendole il nero dalla guancia. Lei lo guarda e gli fa una carezza su una guancia, prima di scarmigliargli i capelli con le mani, gli occhi rivolti verso di me.

“Sore, ti vengo a prendere stasera, va bene?” Le dice lui, assolutamente indifferente al fatto di avere i capelli scomposti. Lei annuisce, stampandogli un bacio sulla guancia e abbracciandolo.

“Fratellone, non combinare casino...”Lo ammonisce. Lui alza le spalle e comincia a camminare, allontanandosi da noi. “E ricordati che ti voglio bene!” Gli urla, quando sta per scomparire dietro l'angolo.

Poi rivolge tutta la sua attenzione a me, e con tutta la naturalezza del mondo si alza sulle punte dei piedi, avvicinandosi a me. Ci baciamo. Un bacio a stampo, quasi un bacio di saluto, ma è come se fosse spuntato il sole all'improvviso. Mi prende per mano. La sua è morbida e calda, al contrario della mia che è fredda e screpolata. Mi porta a conoscere “la sua famiglia” dice. Attraversiamo piazza del Bo, dove il comune si è dimenticato di tirar giù l'albero di natale, e lei scuote la testa. Ha cambiato orecchini, oggi. Ha un pendente colorato con una stella e un piercing con una punta metallica.

“Ma non ti fa male il piercing, con le cuffie?” Mi risponde di no, mentre da un'occhiata distratta alle vetrine.

Il contatto con lei mi lascia senza fiato. Non è solo per il fatto che è quasi un anno che non ho più nemmeno baciato una ragazza, ma per il fatto che sia lei. Mi ha trascinato via del tutto, nel giro di un appuntamento. Mi ha preso e ora mi tiene.

“Ehi..piccolo principe, sei tra noi? Non innaffiare le rose, stai qui!” Mi passa la mano libera davanti al viso, per distogliermi dai pensieri. Mentre camminiamo per via Roma canticchia una canzone che non conosco, ma non voglio interromperla. Il rumore della gente si mescola a quello della sua voce e della pioggia che cade.

“Allora, hai un gemello, no? Spero non sia svampito come te, perchè sennò andiamo bene...”Fa una smorfia e mi bacia di nuovo.

“Si, c'è mio fratello Marco e poi mia sorella Alessandra..” La vedo spalancare gli occhi, e tutto il suo corpo ha un fremito, che si propaga al mio attraverso la sua mano. “Che c'è?” le chiedo, preoccupato. Fa un cenno di assenso e agita una mano in aria.

“Un brivido di freddo, niente di preoccupante..” Arriviamo in un bar dove io non sono mai entrato.

“Non sono quasi più uscito da quando non sto più con Martina. Non ho amici, e neanche voglia di farmeli, in realtà.” le confesso, mentre lei mi guida tra i tavolini. Le suole delle scarpe bagnate scivolano sul pavimento di pietra lucida della galleria, ma cerco di tenermi in equilibrio mentre lei mi trascina. La luce giallognola dei neon si riflette sul pavimento e sui tavolini lustri. Lei individua un folto gruppo di persone e vi si avvicina,quasi saltellando. Ha le scarpe completamente fradice e la pelle d'oca. Mi viene voglia di abbracciarla, ma mi trattengo.

Vengo accolto da un coro di ciao e di benvenuto. Lei fa le presentazioni, preoccupandosi di dirmi nome, eventuale soprannome e almeno una caratteristica dei suoi amici che fosse compatibile con quello che mi piace. Mi siedo in mezzo a loro, alla sua “famiglia.” Ha una madre più grande di lei di un anno e mezzo, e un padre di due anni più grande. Sua zia ha la sua età ed è anche la sua migliore amica. Ha una massa di capelli ricci e biondo miele, che addolciscono il viso squadrato. Il tatuaggio che si intravede sul polso probabilmente è qualcosa di floreale, piuttosto grande.

“Matteo, dimmi, cosa studi?” a parlarmi è sua “mamma”, seduta vicino a me. Comincio a fare conversazione con lei, mentre Paola si accende una sigaretta. Scocca uno sguardo irritato al ragazzo davanti a lei, che scuote la testa come a formulare una domanda muta. Riporto la mia attenzione su Cristina e le spiego in cosa consiste la branca di ingegneria in cui ho scelto di laurearmi.

“Ma ti piace davvero quello che fai?” Mi stringo nelle spalle.

“ In realtà no. Io volevo fare tutt'altro, ma con questo posso essere sicuro di trovare un buon posto di lavoro, magari all'estero..e dimmi. Lei” le chiedo, indicando Paola “Ti sembra felice di quello che fa? Non voglio essere invadente, è che la conosco ancora molto poco..è la seconda volta che usciamo decentemente..” mi giustifico, ma Cristina non mi ascolta. Strabuzza un paio di volte gli occhi e butta fuori il fumo della marlboro dalla bocca.

“La seconda volta che uscite? E già ti porta a conoscere noi? Sei passi e passi avanti, ragazzo mio...” mi fa un sorriso complice, poi mi mette una mano sulla spalla “mamma approva. Comunque lei è sempre felice. Che piova o ci sia il sole, ha la felicità dentro. Lei illumina la vita della gente. Si, può sembrare una specie di Gesù Cristo che salva le anime di noi poveri dannati, ma la realtà è che la sua presenza infonde tranquillità. Ha sempre una risposta e un consiglio da dare a chiunque ne abbia bisogno.”mormora, in modo che possa sentirla solo io.

Vedo Paola alzarsi con Arrigo, il ragazzo davanti a lei, e andare lontano dal tavolo e dalla confusione. Non riesco a sentire quello che dicono, ma li vedo gesticolare, litigare forse. Lui ad un certo punto la abbraccia a lungo, e lei cerca di divincolarsi, scivolando quasi sul pavimento. Ma lui la tiene stretta, lei ad un certo punto smette di dibattersi e si arrende, abbracciandolo a sua volta. Ho un fremito di gelosia che mi blocca la gola, e il sorso di spritz che sto bevendo mi va di traverso, facendomi tossire. Lei torna, ha il viso teso, stranito. Non parla con nessuno, si limita a bere il suo spritz e a succhiare la fetta d'arancia che ha nel bicchiere, rispondendo a monosillabi. Ad un certo punto si alza, stiracchiandosi.

“Sai,lo facevo sempre, da piccola” indica i pezzi di buccia d'arancia che galleggiano nel ghiaccio sciolto. “Sempre. Anche con il limone della cocacola o dell'acqua frizzante di mia mamma. Poi facevo sempre questa faccia qui” strizza gli occhi e arriccia bocca e naso. “E lei rideva sempre.” Mi fa un sorriso storto, e le fossette compaiono solo sulla guancia destra. Si alza, e lascia tre euro sul tavolo, rivolgendosi a Cristina.

“Mamma, questi sono i soldi per me e Matteo, paghi tu così non devo andare dentro?” Faccio per protestare ma non me ne da il tempo. Saluta velocemente tutti e mi porta via.

“C'è un posto che voglio farti vedere.” Mi dice, mentre corriamo da un portico all'altro. Passiamo vicino al duomo, dove tutti i ragazzi di buona famiglia si riuniscono a non fare assolutamente un cazzo. Eccoli lì. Manichini umani, stanno tutti appollaiati come piccioni sul muretto coperto dalle arcate. Guardano la gente che passa, meditando, forse. O forse no. Lei ne riconosce uno, che saluta con un cenno distratto della mano, prima di proseguire.

“Non mi piace quella gente. E non sopporto che mio fratello ci vada in giro, gli mangiano anche il poco di cervello che ha. Sta crescendo senza opinioni, senza sentimenti. Si è comprato un giubbotto da 300 euro di cui non aveva bisogno, si è comprato la moto, si è comprato i jeans di Dolce e Gabbana ma se gli chiedi che ne pensa della situazione politica italiana ti dice “viva Berlusconi”, come tutti i suoi amichetti del cazzo.” Stizzita, calcia un po' d'acqua da una pozzanghera. Gli spruzzi brillano alla luce dei lampioni, e poi ricadono a terra,confondendosi con la pioggia. Camminiamo in silenzio sotto ai portici, il rumore dei suoi passi crea un rumore che sbatte contro i muri e che torna indietro, in un'eco.

“Non ho una camminata molto femminile eh?” Mi domanda, accorgendosi anche lei del rumore.

Scuoto la testa in un segno di diniego. Non ho voglia di parlare, ho voglia di tenerla per mano e basta. Lei sembra capire, e smette di parlare. Sotto al ponte ci sono dei neon, che rendono l'acqua blu. Il riflesso delle luci nell'acqua del fiume trafitto dalle gocce di pioggia mi rende ancora più triste. Penso a Martina, e poi guardo Paola negli occhi. Sono arrabbiato con lei. All'improvviso. Un'ondata di rabbia, perchè lei non è Martina. Mi accorgo di quanto siano irrazionali i miei pensieri, ma è come se un anno di dolore stesse tornando fuori, ed io dovessi difendermi attaccando lei, che è davanti a me e mi guarda.

“..Beh?” il mio tono è freddo, irritato. Lei aggrotta le sopracciglia, confusa.

“Beh cosa?” Tende un braccio, mostrandomi il ponte, le luci e l'acqua blu. Continua a piovere. “Non pensi che sia stupendo?” Si aspetta un si come risposta, e in realtà è stupendo. Ma perchè c'è lei a renderlo tale. Scuoto la testa e il cappuccio mi cade sulle spalle.

“No. Non è stupendo. Questo posto fa schifo.” Lei si irrigidisce, e raddrizza le spalle. Gli occhi, da confusi e disorientati, diventano freddi e ostili. La bocca si contrae, forse sta serrando i denti. Ha i capelli tutti bagnati, la pioggia le ha infradiciato anche il cappotto.

“Non fa schifo” mormora, guardando di nuovo il ponte, come per rassicurarsi che davvero sia come ha detto.

“Invece si. Fa freddo e piove e tu mi porti a vedere un ponte con delle luci blu? E ti aspetti che dica che è stupendo?” Voglio renderla triste. Triste e arrabbiata come sono io in questo momento. Voglio toglierle la felicità perchè non può essere come ha detto Cristina. Non può essere sempre felice. E non può avermi reso così felice nel giro di due settimane.

“Ma mangiati una merda” Rimango di sasso. Credo di aver capito male, distratto com'ero da una miriade di pensieri incazzati.

“Prego?” dico, cercando di concentrarmi.

“Mangiati una merda. Ti saluto.” Si incammina verso la strada da dove siamo venuti. Passa con il semaforo rosso e una macchina inchioda, evitandola per un pelo. La vedo alzare il braccio destro e poi il dito medio per ringraziare il conducente, ma non so come, penso che quell'insulto sia diretto a me.

  
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