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Autore: Dicembre    25/08/2012    4 recensioni
Inghilterra, 1347.
Di ritorno dalla battaglia di Crécy, un gruppo di sette mercenari è costretto a chiedere ospitalità ed aiuto a Lord Thurlow, noto per le sue abilità mediche. Qui si conoscono il Nero, capo dei mercenari, e Lord Aaron. Gravati da un passato che vorrebbero diverso, i due uomini s'avvicinano l'uno all'altro senza esserne consapevoli. Ne nasce un amore disperato che però non può sbocciare, nonostante Maria sia dalla loro parte. Un tradimento e una conseguente maledizione li poterà lontani, ma loro si ricorreranno nel tempo, fino ad approdare ai giorni nostri, dove però la maledizione non è ancora stata sconfitta. E' Lucifero infatti, a garantirne la validità, bramoso di avere nel suo regno l'anima di Aaron, un prescelto di Dio. Ma nulla avrebbe avuto inizio se non fosse esistita la gelosia di un mortale. E nulla avrebbe fine se la Madonna e Lucifero fossero davvero così diversi.
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo Trentotto - Chiudere gli occhi

 

 

Non poteva guardare negli occhi Cencio. Sapeva perché il ragazzo era lì e lui, che cosa avrebbe potuto dirgli? Non c'era nulla da dire, se non vattene.

 

Eppure nonostante sapesse che fosse l'unica strada possibile, si sentiva malissimo. Aveva dovuto obbligare i piedi a rimanere immobili e lo sguardo a rimanere fisso. Non aveva potuto girarsi e rassicurare il suo amico che sì, tutto sarebbe andato a posto. E che loro non si sarebbero mai separati.

Gli avrebbe mentito. E Luppolo non era uomo da mentire così.

 

Il litigio con Chiaro era stato tanto inevitabile quanto aspettato.

Se non avessero litigato quella sera, sarebbe di sicuro successo la sera successiva, o quella dopo ancora. Il suo discorso con Nero, il litigio di quel giorno con Chiaro… era evidente che tutto stava portando verso un'unica destinazione: lo scioglimento del loro gruppo. Avrebbe magari potuto mantenere coi suoi compagni rapporti saldi, ma di sicuro quella vita era destinata ad una fine imminente.

 

E poi c'era Cencio. Ormai era diventato così incontrollabile, che proseguire fingendo che nulla fosse cambiato, che l'italiano altri non fosse che un semplice compagno di ventura, non aveva senso.

E non era più possibile.

Poteva mentire di fronte al ragazzo, poteva fingere di fronte agli altri, ma gli costava sempre più fatica e, sempre più, temeva di non essere stato in grado di mascherare del tutto se stesso.

Quindi l’unica soluzione possibile era quella di prendere un’altra strada. Nero avrebbe capito, senza neanche la necessità di doversi spiegare. Sapeva bene qual era la situazione e sapeva bene anche che la convivenza con Chiaro era ormai impossibile.

Lo scioglimento del loro gruppo era una cosa naturale: Levante sarebbe tornato in Inghilterra, ma presto avrebbe voluto sposare la sua donna italiana; Forgia chissà, probabilmente sarebbe ritornato coi suoi compagni che avrebbe dovuto incontrare lo scorso autunno, se non si fosse ferito. Guardia, poi… Di lui non sapeva molto, né per altro poteva dire che cosa avrebbe voluto fare. Ma con Nero che sarebbe tornato in queste terre, quella loro parentesi da raminghi era destinata a concludersi.

 

Le stelle brillavano, nel cielo terso. Luppolo continuava a guardarle, perdendosi fra l’una e l’altra: che cosa avrebbe dovuto fare?

Questa era la domanda per cui gli premeva trovare risposta. Cosa fare?

Non lo sapeva. Forse sarebbe dovuto tornare in Scozia. Non avrebbe faticato di certo a trovare un buon utilizzo della propria spada, anche se probabilmente molti non avrebbero capito perché era stato al soldo di un inglese. Il re, per di più.

Sarebbe potuto rimanere lì…

Scosse la testa, cercando di rimettere a fuoco le stelle che s’erano offuscate, nel suo sguardo fisso, e s’erano perse.

Cercò di scuotersi, forse la notte avrebbe portato consiglio.

Sentì un battere d’ali e un grido in cielo.

Cleto aveva spiccato il volo, probabilmente andava da Nero ad avvisarlo di quello che era appena successo. Incredibilmente il falco aveva notizia sempre di tutto, nonostante Luppolo sapesse che Cleto non era nella stanza quando lui e Chiaro avevano litigato.

Avrebbe avvisato Nero, che sarebbe tornato.

Questo rasserenò Luppolo. Sapere che l’indomani il capo sarebbe arrivato gli dava una sensazione di sicurezza. Avrebbe, se non altro, potuto parlare con lui della decisione presa: andarsene.

Avrebbe voluto anche parlarne con Cencio, ma quello, sospirò, era impossibile.

 

Luppolo camminò per i corridoi bui del castello non volendo procurarsi una torcia. La luce delle torce sui muri era sufficiente per i suoi occhi che si abituavano subito all’oscurità.

Entrato nella sua stanza, chiuse il pesante portone alle sue spalle.

Sospirò, ma non gli venne dato il tempo di fare altro perché qualcosa lo colpì violentemente al volto.

“Falso e bugiardo! Ecco cosa sei!”

La voce di Cencio, nell’oscurità, rimbombò.

Luppolo si portò la mano alla bocca, non riuscì a vedere il sangue che gli usciva dal piccolo taglio che il pugno gli aveva procurato, ma ne sentì il sapore.

Non disse nulla.

“Avevi promesso. E hai mentito!”

“Che cosa avevo promesso?”

Luppolo sentì Cencio stringere di nuovo i pugni.

“Hai intenzione di andartene, vero? Vuoi andartene perché non sopporti più Chiaro…E io? Che cosa dovrei fare io?”

Luppolo scrollò le spalle: “Per favore, Cencio”

“Per favore un corno e no, non me ne vado”

Luppolo fece qualche passo verso il camino, per accendere in fuoco nella stanza.

“Non te ne stare lì muto, pensando che io desista solo perché non dici niente. Avevi promesso che saremmo stati insieme, che ti saresti preso cura di me, Luppolo. Perché ora ti rimangi la parola data?”

“Non sono tue padre, Cencio”

“Oh basta con questo non sono tuo padre, lo dici ogni volta…”

Luppolo sospirò, spossato da quella notte che sembrava non avere fine

“Che cosa vuoi che ti dica? Che cosa vuoi sentirti dire, Cencio?”

“Voglio sentire quello che hai promesso. Che potrò venire con te, ovunque avrai intenzione di andare, che p…”

Le parole morirono sulle labbra di Cencio, quando sentì Luppolo scuotere la testa.

“Di’ qualcosa…” lo supplicò “ di’ qualunque cosa. Dimmi che mi sbaglio, dimmi che ho ragione. Di’ qualcosa”

Luppolo rimase in silenzio, scuotendo nuovamente la testa.

“Perché rimani in silenzio?” Cencio faticava a trovare le parole. “Perché… forse…” deglutì “E’ per quello che è successo al Monastero di St. George?”

Luppolo si raggelò e sgranò gli occhi.

Il Monastero di St. George…Cencio lo ricordava? Che cosa avrebbe dovuto dire? Quale giustificazione possibile avrebbe potuto trovare?
Cercò di mantenere il sangue freddo.

“Cosa intendi dire?”

Cencio esitò e Luppolo non seppe interpretare quell’esitazione: o una condanna o una salvezza. Aspettò quindi che l’amico parlasse.

“E’ successo qualcosa al Monastero, vero?”

Significava che non ricordava bene?

“Spiegati meglio non capisco.”

“Ho una strana sensazione addosso da quel giorno. Ma non ricordo niente di quello che è successo. Visto poi come sono stato male il giorno dopo, non fatico a pensare di aver ecceduto con la birra…”

“Ecceduto…” Luppolo si lasciò sfuggire un commento sarcastico prima di riuscire a fermarsi.

Si morse la lingua.

“Allora ti ricordi? E’ successo qualcosa, vero? Ho detto o fatto qualcosa che non dovevo?” Chiese Cencio con foga “Dev’essere così, perché da quel giorno…”

Quel ragazzino fastidioso lo capiva fin troppo bene, pensò Luppolo.

“Non è successo niente” tagliò corto lo scozzese.

Cencio non rispose e per un istante, vi fu solo silenzio.

“Va’ via…” disse infine Luppolo “Va’ via Cencio. Non stasera. Ne parliamo un’altra volta, ma per favore, non stasera…”

Quella di Luppolo era una supplica. Cencio non ricordava di aver mai sentito quel tono di voce e per un istante, pensò davvero di andarsene. Forse era giusto così, forse.

Ma riuscì ad imporsi di rimanere.

“No Luppolo” e l’abbracciò, stringendosi forte a lui sapendo che di lì a poco sarebbe stato obbligato ad abbandonare quell’abbraccio così naturale.

Luppolo lo afferrò per le spalle e lo scaraventò lontano da sé. Cencio urtò con la schiena il muro

“Sei impazzito?”

“Non mi dire di andare via, Luppolo. Mai” Nonostante la spinta fosse stata violenta,  Cencio non desistette. E si riavvicinò all’amico “Dimmi qualunque cosa, ma non di andare via. Io so c…”

“Tu non sai niente” Luppolo gridò, maledicendo il suo tono di voce, il tremore delle sue mani. Maledicendo Cencio che non voleva saperne di comportarsi in maniera assennata.

“So molto di più di quanto ti piace credere” il tono di Cencio era serissimo.

“No, ti sbagli” perché insisteva? Luppolo non aveva le forze. Era stanco di litigare, stanco di parlare, stanco di tutto. E Cencio era lì che insisteva.

Era lì, bastava allungare un braccio per averlo vicino… perché no? Non poteva essere quella sera uguale alla sera alla sera al monastero St. George? Una parentesi. Un breve inframmezzo in quella confusione così sfibrante.

Cencio si avvicinò di nuovo.

“Non mi sbaglio” Luppolo si accorse che quelle parole era state bisbigliate al suo orecchio e il suo autocontrollo venne meno.

“Cencio, perché?” chiese Luppolo con voce strozzata.

“Shhh” disse semplicemente il ragazzo, stringendosi ancora più forte

“Tu non sai…” cercò di dire lo scozzese “Io cosa voglio. Io ti…”

Cencio lo interruppe baciandolo a fior di labbra.

“Io so esattamente che cosa vuoi”

In un brevissimo momento di lucidità, Luppolo si chiese se per caso Cencio vedesse in lui il suo nuovo Guido. Un padrone le cui esigenze devono essere assecondate dallo schiavo.

“Cencio, tu...?”

E di nuovo fu interrotto dall’italiano che lo baciò, questa volta più profondamente. Tanto da togliergli il fiato.

Le parole non venivano, le mille domande s’erano seccate nella gola di Luppolo che non aveva più fiato, se non sulla bocca di Cencio.

Per mesi, per anni aveva temuto e voluto un istante così, ma che cosa doveva fare?

“Che cosa…” riuscì a dire con la bocca impastata “Che cosa devo fare?”

Cencio sorrise: “Spogliarmi”.

La mano di Luppolo fu molto più veloce della sua mente perché si aggrappò alla casacca di Cencio e tirò, strappandola, ma non lasciò la presa e Luppolo si ritrovò con le labbra a fior di quelle troppo belle del suo ladro e la mano stretta intorno a dei brandelli di stoffa.

Lo guardò negli occhi,  scosse la testa.

Non per dire no, né per dire sì. Scosse la testa con gli occhi sgranati di chi non è  più padrone di sé.

“Cencio io impazzisco di te. Sei la mia bellissima testa vuota. Sei…?”

“Tienimi con te” gli bisbigliò Cencio nell’orecchio, dopo averne baciato l’orlo “Tienimi con te. Stretto, finché avrai forza nelle braccia. Vicino a te.”

Gli slacciò la blusa molto più delicatamente di quanto non avesse fatto prima l’altro, disfacendone ogni nodo.

Una lentezza insopportabile.

Luppolo lo afferrò per le braccia e lo sollevò di peso portandolo sul suo letto e ricadendoci sopra.

Gli strati sottostanti alla blusa vennero tolti con la stessa veemenza con cui questa era stata tolta, la pelle sottostante doveva essere baciata e doveva essere morsa.

Luppolo era sicuro che la sua bocca stava lasciando segni rossi sull’addome di Cencio così come era sicuro che le unghie del ragazzo si fossero infilzate definitivamente nella sua nuca.

Ma che importanza aveva?

Cencio avrebbe potuto strappargli la pelle di dosso, in quel momento, Luppolo ne sarebbe stato contento.

Si fermò ansimando sul suo ombelico e cominciò a giocare con la pelle tutt’intorno, prima scaldandola con la bocca, poi raffreddandola col respiro.

Cencio gemette. E attorcigliò le gambe intorno a Luppolo.

In quell’abbraccio, Luppolo, si sentì finalmente felice. Non esitò più, non si chiese più niente. Cencio era lì, nelle sue braccia e tanto bastava. Ridisegnò la strada del ritorno alla bocca di Cencio con piccoli baci lungo il fianco del ragazzo e poi glielo disse.

Glielo disse all’orecchio perché non voleva che nessuno in quella stanza vuota lo sentisse dire che era innamorato pazzo di quel ragazzo, glielo disse nell’orecchio perché non aveva voce se non per gridare.

Cencio lo abbracciò, baciandolo di nuovo.

 

La mattina illuminò i due uomini, ancora avvinghiati l’uno all’altro. Il moro era rannicchiato, quasi completamente sotto le coperte. Solo il naso e qualche ciuffo di capelli s’intravedeva. La guancia appoggiata  nell’incavo della spalla del rosso che ancora non era riuscito a prender sonno. Non avrebbe potuto dormire, il suo cuore batteva ancora troppo forte per addormentarsi.

Luppolo temeva che dormendo tutto quello che era successo quella notte diventasse un sogno e che quando si fosse risvegliato, si sarebbe trovato da solo, nel letto.

Quel ragazzino era un diavolo anche a letto, Luppolo si ritrovò a sorridere al ricordo e a quanto Cencio fosse disinibito.

A quanto Cencio fosse bello nudo sopra di lui.

“Ancora non dormi?” la voce impastata di Cencio spaventò Luppolo.

“Ormai è già l’alba…”

Cencio non rispose e Luppolo pensò che il ragazzo si fosse riaddormentato, invece dopo un po’, riprese a parlare.

“Luppolo…”

“Dimmi” disse lui

“Se anche adesso l’idea di lasciarmi andare via ti sfiora quella stupida testa che ti ritrovi, giuro…” si rannicchiò ulteriormente nelle braccia dello scozzese “Giuro che ti ammazzo”.

“Hai troppa aria in testa, sciocco”

Luppolo chiuse gli occhi.

 

 

  
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