Nella tasca della
borsa di Rodelind, il cellulare vibra ancora una volta, insistente.
La
ragazza non
si ferma per rispondere, ma affretta nuovamente il passo. Sta quasi
correndo, ormai – quasi,
perché correre per i corridoi è contro le regole
della World Academy, e, a parte l’ovvio rispetto che deve a
quella scuola così importante e prestigiosa e alle
opportunità che le offre, lei è comunque troppo
composta per correre senza una ragione importante.
A meno che tu non sia in pericolo
di vita, non
c’è
un solo
motivo valido
per non impiegare un po’ di tempo in
più nel camminare come una persona civile, le
ripeteva sua madre quando era bambina, e quando ancora si parlavano.
Rodelind arriva davanti alla porta in lucido legno scuro
dell’aula di musica con la sua voce che le rimbomba nella
testa, annoiata e vagamente irritata, e afferra la maniglia con il
bisogno di raggiungere il pianoforte che si fa sempre più
pressante.
Un’ultima
vibrazione, e poi più nulla. Solo l’ennesimo
messaggio di Anita, probabilmente.
Quello che hai visto non vuol dire niente,
querida. Non
è successo
nulla, querida. Smettila
subito di fare così e chiamami,
Rodelind. Mi dispiace, querida.
Chiamami.
Non
avrebbe
dovuto rinfacciarle così duramente la sua mancanza di
serietà, o la sua amicizia con quell’oca francese,
quella Françoise Bonnefoy dai
capelli biondi e morbidi e
perfetti e il sorriso smagliante e civettuolo. Forse è stata
un po’ ingiusta, riflette dirigendosi con passo svelto e
sicuro verso lo strumento, senza nemmeno guardarsi intorno,
ripercorrendo la strada che ha già fatto così
tante volte. Anche se essere amico di Françoise sarebbe un
difetto in chiunque,
a suo giudizio: in una ragazza già così pigra e
con la testa eternamente tra le nuvole come Anita, aggrava soltanto la
situazione, pensa, nervosa.
Rodelind si
accorge della ragazza seduta sullo sgabello solo dopo esserle arrivata
alle spalle, e, se il suo umore non fosse già nero, questo
basterebbe a peggiorarlo.
- Gilda –
sibila tra i denti, le labbra storte in una smorfia contrariata.
L’altra
si volta di scatto verso di lei, e per un attimo solo Rodelind ha
l’impressione che le loro espressioni siano identiche. Poi,
Gilda si passa una mano tra i corti capelli biondi e le scaglia contro
uno di quei suoi odiosi sorrisi – uno di quelli affilati e
beffardi, irritanti quanto fascinosi, che le danno l’aria di
un animale con troppi denti e troppi artigli che ha appena trovato la
sua preda.
- Spostati
– le ordina Rodelind, secca: non ha voglia di parlare con
nessuno, in questo momento, e men che meno con lei. Gilda, in tutta
risposta, sorride ancora di più, e tenta un breve accordo
stonato sui lucidi tasti d’avorio. Rodelind le lancia uno
sguardo esasperato, e lei ridacchia: la sua risata è sempre
acuta e fastidiosa, infantile, come quella di una bambina capricciosa.
- Che ci fai
qui? – le chiede infine, guardandola interessata. E ci sono
troppe risposte che Rodelind potrebbe darle.
Le amiche di Anita non possono
assolutamente fare
a meno
di molestarla quando usciamo insieme, e lei
si comporta come se
questo fosse normale. Non ho preso
il massimo dei voti nel
test della
scorsa settimana per un solo, unico punto. Papà ha
chiamato e ha voluto parlare solo dei miei risultati
scolastici, e
non ho la più pallida idea di cosa questo significhi. E mia
madre, invece, non
si è ancora
fatta sentire.
- Ho
litigato con la mia fidanzata – è tutto
ciò che riesce a dire, alla fine, e la sua voce trema in
modo quasi impercettibile mentre finisce di pronunciare
l’ultima parola.
La mia fidanzata –
ha ancora un sapore così strano, nella sua bocca. Non
esattamente sgradevole,
ma nuovo e in un certo senso alieno, estraneo. Poche semplici parole, e
tutto un mondo nascosto dietro di esse: sei sillabe, e sono
più complicate di un intero scioglilingua.
Per un attimo,
Gilda sembra sul punto di dire qualcosa – una battuta di
cattivo gusto, probabilmente – ma poi, inaspettatamente, si
alza, e Rodelind si domanda quanto effettivamente abbia capito dal tono
della sua voce. Le indica lo sgabello con un inchino teatrale ed
esagerato, in un ironico invito. Lei non se lo fa ripetere due volte,
posa la borsa sul pavimento in un gesto rapido ma delicato e si siede
immediatamente, e le sue dita scattano verso i tasti in un gesto
meccanico, vecchio di anni di pratica e di costanza e di bisogno.
Suonare riesce
sempre a calmarla: la musica le riempie la mente e l’anima,
con la precisione matematica delle note e dei ritmi,
l’armonia e l’equilibrio dei suoni e dei silenzi.
Quello dell’Academy è un pianoforte verticale, un
vecchio strumento dai tasti duri e dai pedali scricchiolanti: niente a
che vedere con quello a coda a casa, in Austria, sempre lucido e
perfettamente accordato, come se non fosse passato nemmeno un anno da
quando i suoi genitori l’hanno acquistato.
Ma quando
comincia a suonare le prime note e decide in pochi istanti la sinfonia
che riesce ad esprimere meglio le emozioni che prova, tutto questo non
importa più. Ci sono solo la sterminata distesa di bianco e
nero di fronte ai suoi occhi, e la melodia cupa e frenetica che la
avvolge e scorre da un punto da qualche parte nel profondo di lei fino
alla punta delle sue dita rapide e delicate.
Per qualche
minuto, si perde in un mondo fatto di musica, nella successione di note
e accordi e diesis e bemolle, e pensa solo al movimento ininterrotto
delle sue dita, alla pressione perfettamente controllata dei
polpastrelli sui tasti.
Poi, la voce
di Gilda la riporta alla realtà.
- Quindi, hai
semplicemente litigato con
la tua ragazza? Sembra che tu la voglia ammazzare! – ride.
Rodelind sente il suo sguardo su di sé, sulle sue mani che
non si fermano per un istante nemmeno quando le risponde, stizzita: -
Non sono affari tuoi -.
Non si illude
che Gilda decida di lasciarla sfogare in pace, né che abbia
qualcosa di più importante o produttivo da fare che
continuare a disturbarla. E, infatti, la ragazza ricomincia subito, una
nota provocatoria nel tono casuale: - Sai, anch’io ho dei
problemi con lui -.
Un ultimo
accordo profondo e cupo, e Rodelind alza lo sguardo su di lei, le mani
ora immobili sulla tastiera. Non ha alcun bisogno di chiedere chi sia
questo lui.
- Credevo che
lo scopo fosse proprio quello – dice, portandosi un boccolo
scuro dietro l’orecchio e raddrizzandosi gli occhiali sul
naso: - Rendergli la vita un inferno. O vendicarti, o in
qualunque altro modo tu voglia chiamare questo tuo stupido capriccio -.
Gilda
è seduta a gambe incrociate di fronte al pianoforte, sul
pavimento: alle sue spalle c’è
un’ordinata fila di sedie dall’aria solida e
abbastanza comoda, ma lei non sembra curarsene. La fissa e sorride in
silenzio, il viso appoggiato sul palmo di una mano, la corta gonna
rossa della divisa sollevata sulle gambe lunghe e magre –
Rodelind deve costringersi a distogliere lo sguardo e a riportarlo
sulla sua faccia, sperando ardentemente che l’altra non noti
il lieve rossore sulle sue guance.
- Vendetta
– Gilda pronuncia quella parola con cura e attenzione,
lentamente, soffermandosi su ogni sillaba come se cercasse di gustarne
il sapore: - Sì. Mi piace come suona -. Le sue labbra sono
scarlatte, lucide. Rodelind nota che hanno lo stesso colore delle sue
unghie, lunghe e affilate e ben curate. Scuote la testa e abbassa lo
sguardo, e riprende a suonare, ma sa già che non
riuscirà più a concentrarsi completamente
– non in quel modo totale, devastante, capace di allontanarla
dai suoi problemi e dal mondo intero.
Si chiede cosa
sia successo alla Gilda che conosceva un tempo, alla ragazzina ossuta
che ogni estate era la sua vicina di casa per qualche settimana, al
maschiaccio con le ginocchia e i gomiti pieni di sbucciature e piccoli
tagli e l’ego smisurato. E poi, ricorda gli occhi verdi e
limpidi di Elek in un giorno di sole, i suoi disordinati capelli
castani nel vento, la sua risata.
Non che lei e
Gilda fossero mai state veramente amiche, o che i suoi genitori
avrebbero accettato con gioia di vederla giocare con quella ragazzina
con i capelli arruffati e i vestiti costantemente sporchi di terra ed
erba. Ma, ogni tanto, le piaceva affacciarsi sul cortile della villa
dalla finestra della stanza da musica e parlare con lei, punzecchiarla
e farsi prendere in giro, litigare e fare la pace dopo giorni di
silenzio iroso. Rodelind non aveva mai avuto molti amici, a scuola, e
quello per lei era abbastanza.
Poi, Gilda
aveva conosciuto Elek, e aveva cominciato a litigare con lui. Spiarli
dalla finestra era stato interessante e doloroso allo stesso tempo per
Rodelind: stavano bene insieme, era chiaro, e l’irritante
risata di Gilda in quel periodo era stata più spensierata e
più allegra di quanto l’avesse mai sentita prima.
Forse era per
questo che lei stessa aveva iniziato a desiderare tanto di conoscere
quel ragazzo, e che un giorno aveva accettato il suo goffo tentativo di
mettere in piedi una conversazione e aveva finto di credere che lui
capisse sul serio qualcosa di musica classica. Forse, a quei tempi si
sentiva più sola di quanto volesse ammettere.
Ovviamente,
non aveva intenzione di usarlo in quel modo, all’inizio:
aveva presto notato tutte quelle sue qualità che facevano
brillare lo sguardo di Gilda, ed era arrivata ben presto a considerarlo
il suo migliore amico. Elek si era subito dimostrato simpatico, e
dolce, e premuroso, e leale, e tante altre cose che avrebbero mandato
in visibilio qualsiasi altra ragazza.
Rodelind non
aveva mai avuto una cotta per un ragazzo, e, quando le sue compagne di
scuola parlavano di certi argomenti, lei poteva solo rimanere ad
ascoltarle in silenzio, sentendosi a disagio per un motivo che non
riusciva a comprendere ma che già allora la faceva sentire
isolata, diversa,
strana. Forse, era per questo che aveva lasciato che quel
giorno lui la baciasse: non era stata una sensazione sgradevole
– le loro labbra si erano appena sfiorate -, eppure non era
stato nemmeno bello,
non come avrebbe dovuto essere. Niente fuochi d’artificio che
esplodevano nella sua mente, nessun rintocco di campane in sottofondo.
Forse era per
questo che, in seguito, aveva disperatamente tentato di innamorarsi di
lui – anche se c’erano due o tre ragazze nella sua
classe che sembravano farsi sempre più belle ogni anno,
anche se non era mai riuscita a sentire nulla per nessun ragazzo.
Il suo
cellulare la distrae da quei pensieri. Lo estrae dalla borsa senza
pensare, in un gesto automatico, e scocca una rapida occhiata allo
schermo: Anita, di nuovo. La cosa più assurda e dolorosa
dello stare con lei, riflette, è che, nonostante
l’aria svampita e la leggerezza con cui vive ogni aspetto del
loro rapporto, è una ragazza dolce e gentile, non
particolarmente premurosa ma nemmeno indifferente quanto talvolta le
piacerebbe poter credere.
Per un
istante, desidera con tutto il cuore che Elek sia lì, che le
regali una battuta e un sorriso e allevi i suoi sensi di colpa con uno
sguardo gentile, che la incoraggi a provare un’altra volta o,
almeno, a mettere le cose in chiaro con la sua ragazza. Ma è
solo un attimo. Non può affidarsi a lui per ogni suo
problema, non sarebbe giusto nei suoi confronti – ed Elek la
aiuterebbe senza battere ciglio, senza chiedere nulla in cambio, come
ha già fatto troppe volte, e la riconoscenza e il senso di
colpa un giorno diventerebbero troppo grandi da sopportare.
- Dovrei
richiamarla – mormora, mentre si alza dallo sgabello,
più a se stessa che a chiunque altro, e la sua voce sommessa
suona distante e strana perfino alle sue orecchie.
Gilda annuisce
brevemente, anche lei sovrappensiero. – Dovresti dirgli chi
sono – dice, l’espressione improvvisamente seria,
gli occhi adombrati.
Rodelind
scrolla le spalle: - Già. Dovrei -. Si ferma a guardarla
– le gambe lunghe e bianche, l’uniforme
disordinata, le labbra incredibilmente rosse su cui aleggia ancora il
fantasma di un sorriso, lo sguardo pieno di qualcosa di malinconico e
dolce che lei non riesce a spiegarsi – e sa che non lo
farà.
Forse
perché è meglio che Elek lo scopra da solo, o che
non lo scopra affatto e continui a stare con lei e un giorno la lasci e
non se ne preoccupi mai più. Forse perché Gilda
una volta è stata la sua unica vera amica, o per
ciò che vede nei suoi occhi, o perché le cose
potrebbero non finire così male come teme.
E Gilda le
riserva un altro di quei suoi sorrisi così seccanti, come se
avesse capito: - Oh, andiamo! Non vorrai certo far saltare la mia
meravigliosa recita, no? E poi, il mio fascino è sicuramente
abbastanza per dissuaderti, ci scommetto! -. Si passa una mano tra i
capelli così biondi da sembrare d’argento, in un
gesto che ha qualcosa di plateale e canzonatorio e quasi seducente, e
Rodelind non stenta a credere che pensi davvero ciò che ha
detto.
Suo malgrado,
Rodelind si ritrova a sorriderle a sua volta, mentre si avvicina alla
porta. - Almeno il tuo ego è rimasto identico – le
dice, la maniglia già stretta nella mano che non regge la
borsa.
Il cosa vorresti dire, con questo?!
strillato di Gilda la raggiunge nello stesso momento in
cui si chiude la porta alle spalle, e Rodelind ripensa per un attimo a
quando erano solo due ragazzine, poco più che bambine, senza
uomini né donne tra loro, con il tepore del sole
dell’estate sulla pelle e una risposta pungente sempre sulle
labbra.