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Autore: Sigyn    27/08/2012    2 recensioni
Rodelind ora ha una ragazza che continua a chiamarla, una crisi di gelosia e un pianoforte - e tanti, troppi ricordi.
[Fem!Austria, Fem!Prussia - accenni Fem!Spagna/Fem!Austria, Fem!Spagna/Fem!Francia e Male!Ungheria/Fem!Prussia, vago Fem!Austria/Fem!Prussia]
[Missing Moments di How I Met My Boyfriend]
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het, Shoujo-ai | Personaggi: Austria/Roderich Edelstein, Prussia/Gilbert Beilschmidt
Note: AU, Missing Moments | Avvertimenti: Gender Bender
- Questa storia fa parte della serie 'Boys will be Girls and Girls will be Boys '
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The Other Side Of The Coin


 

 

Nella tasca della borsa di Rodelind, il cellulare vibra ancora una volta, insistente.

La ragazza non si ferma per rispondere, ma affretta nuovamente il passo. Sta quasi correndo, ormai – quasi, perché correre per i corridoi è contro le regole della World Academy, e, a parte l’ovvio rispetto che deve a quella scuola così importante e prestigiosa e alle opportunità che le offre, lei è comunque troppo composta per correre senza una ragione importante.

A meno che tu non sia in pericolo di vita, non c’è un solo motivo valido per non impiegare un po’ di tempo in più nel camminare come una persona civile, le ripeteva sua madre quando era bambina, e quando ancora si parlavano. Rodelind arriva davanti alla porta in lucido legno scuro dell’aula di musica con la sua voce che le rimbomba nella testa, annoiata e vagamente irritata, e afferra la maniglia con il bisogno di raggiungere il pianoforte che si fa sempre più pressante.

Un’ultima vibrazione, e poi più nulla. Solo l’ennesimo messaggio di Anita, probabilmente.

Quello che hai visto non vuol dire niente, querida. Non è successo nulla, querida. Smettila subito di fare così e chiamami, Rodelind. Mi dispiace, querida. Chiamami.

Non avrebbe dovuto rinfacciarle così duramente la sua mancanza di serietà, o la sua amicizia con quell’oca francese, quella Françoise Bonnefoy dai capelli biondi e morbidi e perfetti e il sorriso smagliante e civettuolo. Forse è stata un po’ ingiusta, riflette dirigendosi con passo svelto e sicuro verso lo strumento, senza nemmeno guardarsi intorno, ripercorrendo la strada che ha già fatto così tante volte. Anche se essere amico di Françoise sarebbe un difetto in chiunque, a suo giudizio: in una ragazza già così pigra e con la testa eternamente tra le nuvole come Anita, aggrava soltanto la situazione, pensa, nervosa.

Rodelind si accorge della ragazza seduta sullo sgabello solo dopo esserle arrivata alle spalle, e, se il suo umore non fosse già nero, questo basterebbe a peggiorarlo.


- Gilda – sibila tra i denti, le labbra storte in una smorfia contrariata.


L’altra si volta di scatto verso di lei, e per un attimo solo Rodelind ha l’impressione che le loro espressioni siano identiche. Poi, Gilda si passa una mano tra i corti capelli biondi e le scaglia contro uno di quei suoi odiosi sorrisi – uno di quelli affilati e beffardi, irritanti quanto fascinosi, che le danno l’aria di un animale con troppi denti e troppi artigli che ha appena trovato la sua preda.

- Spostati – le ordina Rodelind, secca: non ha voglia di parlare con nessuno, in questo momento, e men che meno con lei. Gilda, in tutta risposta, sorride ancora di più, e tenta un breve accordo stonato sui lucidi tasti d’avorio. Rodelind le lancia uno sguardo esasperato, e lei ridacchia: la sua risata è sempre acuta e fastidiosa, infantile, come quella di una bambina capricciosa.


- Che ci fai qui? – le chiede infine, guardandola interessata. E ci sono troppe risposte che Rodelind potrebbe darle.

Le amiche di Anita non possono assolutamente fare a meno di molestarla quando usciamo insieme, e lei si comporta come se
questo fosse normale. Non ho preso il massimo dei voti nel test della scorsa settimana per un solo, unico punto. Papà ha chiamato e ha voluto parlare solo dei miei risultati scolastici, e non ho la più pallida idea di cosa questo significhi. E mia madre, invece, non si è ancora fatta sentire.

 - Ho litigato con la mia fidanzata – è tutto ciò che riesce a dire, alla fine, e la sua voce trema in modo quasi impercettibile mentre finisce di pronunciare l’ultima parola.

La mia fidanzata – ha ancora un sapore così strano, nella sua bocca. Non esattamente sgradevole, ma nuovo e in un certo senso alieno, estraneo. Poche semplici parole, e tutto un mondo nascosto dietro di esse: sei sillabe, e sono più complicate di un intero scioglilingua.

Per un attimo, Gilda sembra sul punto di dire qualcosa – una battuta di cattivo gusto, probabilmente – ma poi, inaspettatamente, si alza, e Rodelind si domanda quanto effettivamente abbia capito dal tono della sua voce. Le indica lo sgabello con un inchino teatrale ed esagerato, in un ironico invito. Lei non se lo fa ripetere due volte, posa la borsa sul pavimento in un gesto rapido ma delicato e si siede immediatamente, e le sue dita scattano verso i tasti in un gesto meccanico, vecchio di anni di pratica e di costanza e di bisogno.

Suonare riesce sempre a calmarla: la musica le riempie la mente e l’anima, con la precisione matematica delle note e dei ritmi, l’armonia e l’equilibrio dei suoni e dei silenzi. Quello dell’Academy è un pianoforte verticale, un vecchio strumento dai tasti duri e dai pedali scricchiolanti: niente a che vedere con quello a coda a casa, in Austria, sempre lucido e perfettamente accordato, come se non fosse passato nemmeno un anno da quando i suoi genitori l’hanno acquistato.

Ma quando comincia a suonare le prime note e decide in pochi istanti la sinfonia che riesce ad esprimere meglio le emozioni che prova, tutto questo non importa più. Ci sono solo la sterminata distesa di bianco e nero di fronte ai suoi occhi, e la melodia cupa e frenetica che la avvolge e scorre da un punto da qualche parte nel profondo di lei fino alla punta delle sue dita rapide e delicate.

Per qualche minuto, si perde in un mondo fatto di musica, nella successione di note e accordi e diesis e bemolle, e pensa solo al movimento ininterrotto delle sue dita, alla pressione perfettamente controllata dei polpastrelli sui tasti.

Poi, la voce di Gilda la riporta alla realtà.

- Quindi, hai semplicemente litigato con la tua ragazza? Sembra che tu la voglia ammazzare! – ride. Rodelind sente il suo sguardo su di sé, sulle sue mani che non si fermano per un istante nemmeno quando le risponde, stizzita: - Non sono affari tuoi -.

Non si illude che Gilda decida di lasciarla sfogare in pace, né che abbia qualcosa di più importante o produttivo da fare che continuare a disturbarla. E, infatti, la ragazza ricomincia subito, una nota provocatoria nel tono casuale: - Sai, anch’io ho dei problemi con lui -.

Un ultimo accordo profondo e cupo, e Rodelind alza lo sguardo su di lei, le mani ora immobili sulla tastiera. Non ha alcun bisogno di chiedere chi sia questo lui.

- Credevo che lo scopo fosse proprio quello – dice, portandosi un boccolo scuro dietro l’orecchio e raddrizzandosi gli occhiali sul naso: - Rendergli la vita un inferno. O vendicarti, o in qualunque altro modo tu voglia chiamare questo tuo stupido capriccio -.

Gilda è seduta a gambe incrociate di fronte al pianoforte, sul pavimento: alle sue spalle c’è un’ordinata fila di sedie dall’aria solida e abbastanza comoda, ma lei non sembra curarsene. La fissa e sorride in silenzio, il viso appoggiato sul palmo di una mano, la corta gonna rossa della divisa sollevata sulle gambe lunghe e magre – Rodelind deve costringersi a distogliere lo sguardo e a riportarlo sulla sua faccia, sperando ardentemente che l’altra non noti il lieve rossore sulle sue guance.

- Vendetta – Gilda pronuncia quella parola con cura e attenzione, lentamente, soffermandosi su ogni sillaba come se cercasse di gustarne il sapore: - Sì. Mi piace come suona -. Le sue labbra sono scarlatte, lucide. Rodelind nota che hanno lo stesso colore delle sue unghie, lunghe e affilate e ben curate. Scuote la testa e abbassa lo sguardo, e riprende a suonare, ma sa già che non riuscirà più a concentrarsi completamente – non in quel modo totale, devastante, capace di allontanarla dai suoi problemi e dal mondo intero.

Si chiede cosa sia successo alla Gilda che conosceva un tempo, alla ragazzina ossuta che ogni estate era la sua vicina di casa per qualche settimana, al maschiaccio con le ginocchia e i gomiti pieni di sbucciature e piccoli tagli e l’ego smisurato. E poi, ricorda gli occhi verdi e limpidi di Elek in un giorno di sole, i suoi disordinati capelli castani nel vento, la sua risata.

Non che lei e Gilda fossero mai state veramente amiche, o che i suoi genitori avrebbero accettato con gioia di vederla giocare con quella ragazzina con i capelli arruffati e i vestiti costantemente sporchi di terra ed erba. Ma, ogni tanto, le piaceva affacciarsi sul cortile della villa dalla finestra della stanza da musica e parlare con lei, punzecchiarla e farsi prendere in giro, litigare e fare la pace dopo giorni di silenzio iroso. Rodelind non aveva mai avuto molti amici, a scuola, e quello per lei era abbastanza.

Poi, Gilda aveva conosciuto Elek, e aveva cominciato a litigare con lui. Spiarli dalla finestra era stato interessante e doloroso allo stesso tempo per Rodelind: stavano bene insieme, era chiaro, e l’irritante risata di Gilda in quel periodo era stata più spensierata e più allegra di quanto l’avesse mai sentita prima.

Forse era per questo che lei stessa aveva iniziato a desiderare tanto di conoscere quel ragazzo, e che un giorno aveva accettato il suo goffo tentativo di mettere in piedi una conversazione e aveva finto di credere che lui capisse sul serio qualcosa di musica classica. Forse, a quei tempi si sentiva più sola di quanto volesse ammettere.

Ovviamente, non aveva intenzione di usarlo in quel modo, all’inizio: aveva presto notato tutte quelle sue qualità che facevano brillare lo sguardo di Gilda, ed era arrivata ben presto a considerarlo il suo migliore amico. Elek si era subito dimostrato simpatico, e dolce, e premuroso, e leale, e tante altre cose che avrebbero mandato in visibilio qualsiasi altra ragazza.

Rodelind non aveva mai avuto una cotta per un ragazzo, e, quando le sue compagne di scuola parlavano di certi argomenti, lei poteva solo rimanere ad ascoltarle in silenzio, sentendosi a disagio per un motivo che non riusciva a comprendere ma che già allora la faceva sentire isolata, diversa, strana. Forse, era per questo che aveva lasciato che quel giorno lui la baciasse: non era stata una sensazione sgradevole – le loro labbra si erano appena sfiorate -, eppure non era stato nemmeno bello, non come avrebbe dovuto essere. Niente fuochi d’artificio che esplodevano nella sua mente, nessun rintocco di campane in sottofondo.

Forse era per questo che, in seguito, aveva disperatamente tentato di innamorarsi di lui – anche se c’erano due o tre ragazze nella sua classe che sembravano farsi sempre più belle ogni anno, anche se non era mai riuscita a sentire nulla per nessun ragazzo.

Il suo cellulare la distrae da quei pensieri. Lo estrae dalla borsa senza pensare, in un gesto automatico, e scocca una rapida occhiata allo schermo: Anita, di nuovo. La cosa più assurda e dolorosa dello stare con lei, riflette, è che, nonostante l’aria svampita e la leggerezza con cui vive ogni aspetto del loro rapporto, è una ragazza dolce  e gentile, non particolarmente premurosa ma nemmeno indifferente quanto talvolta le piacerebbe poter credere.

Per un istante, desidera con tutto il cuore che Elek sia lì, che le regali una battuta e un sorriso e allevi i suoi sensi di colpa con uno sguardo gentile, che la incoraggi a provare un’altra volta o, almeno, a mettere le cose in chiaro con la sua ragazza. Ma è solo un attimo. Non può affidarsi a lui per ogni suo problema, non sarebbe giusto nei suoi confronti – ed Elek la aiuterebbe senza battere ciglio, senza chiedere nulla in cambio, come ha già fatto troppe volte, e la riconoscenza e il senso di colpa un giorno diventerebbero troppo grandi da sopportare.

- Dovrei richiamarla – mormora, mentre si alza dallo sgabello, più a se stessa che a chiunque altro, e la sua voce sommessa suona distante e strana perfino alle sue orecchie.

Gilda annuisce brevemente, anche lei sovrappensiero. – Dovresti dirgli chi sono – dice, l’espressione improvvisamente seria, gli occhi adombrati.

Rodelind scrolla le spalle: - Già. Dovrei -. Si ferma a guardarla – le gambe lunghe e bianche, l’uniforme disordinata, le labbra incredibilmente rosse su cui aleggia ancora il fantasma di un sorriso, lo sguardo pieno di qualcosa di malinconico e dolce che lei non riesce a spiegarsi – e sa che non lo farà.

Forse perché è meglio che Elek lo scopra da solo, o che non lo scopra affatto e continui a stare con lei e un giorno la lasci e non se ne preoccupi mai più. Forse perché Gilda una volta è stata la sua unica vera amica, o per ciò che vede nei suoi occhi, o perché le cose potrebbero non finire così male come teme.

E Gilda le riserva un altro di quei suoi sorrisi così seccanti, come se avesse capito: - Oh, andiamo! Non vorrai certo far saltare la mia meravigliosa recita, no? E poi, il mio fascino è sicuramente abbastanza per dissuaderti, ci scommetto! -. Si passa una mano tra i capelli così biondi da sembrare d’argento, in un gesto che ha qualcosa di plateale e canzonatorio e quasi seducente, e Rodelind non stenta a credere che pensi davvero ciò che ha detto.

Suo malgrado, Rodelind si ritrova a sorriderle a sua volta, mentre si avvicina alla porta. - Almeno il tuo ego è rimasto identico – le dice, la maniglia già stretta nella mano che non regge la borsa.

Il cosa vorresti dire, con questo?! strillato di Gilda la raggiunge nello stesso momento in cui si chiude la porta alle spalle, e Rodelind ripensa per un attimo a quando erano solo due ragazzine, poco più che bambine, senza uomini né donne tra loro, con il tepore del sole dell’estate sulla pelle e una risposta pungente sempre sulle labbra.
 

 

 

  
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