Ritratto
Per
un attimo, Feliciano si spense.
Il
sorriso rimase inciso sul volto, gli occhi inebetiti
lievemente socchiusi. Ma la luce che li animava si
affievolì: barcollò e svanì,
come una candela colpita da un improvviso alito di vento.
Rimase
a fissarlo per qualche istante, sorridente e svuotato.
Ludwig lo trovò vagamente inquietante: sembrava che il suo
amico fosse stato mummificato
nella cera, con quell’espressione artificiosa.
Il
tedesco non aveva intenzione di affrontare un discorso
così personale in mezzo alla calca della laguna, per cui
aveva preferito chiamare
Feliciano a casa sua; l’amico non aveva protestato, anzi,
aveva accettato
festante come un cucciolo. Probabilmente non aveva intuito il vero
motivo dell’invito
dell’altro: l’atmosfera era cambiata di colpo, da
solare a glaciale, non appena
la domanda era esplosa nel salotto.
Non
pensava che per l’italiano sarebbe stato uno shock
così
grande sentirsi interrogare sulla propria famiglia. Le sue riserve su
quell’argomento erano lampanti, ma non tanto da far presagire
un atteggiamento
del genere: Feliciano si era paralizzato in una sorpresa asfittica,
incapace di
muoversi o parlare.
«Se
non vuoi rispondere…» cercò di arginare
Ludwig, ma
l’amico scosse il capo, riscuotendosi finalmente dalla sua
immobilità.
Il
tedesco attese con pazienza che l’altro pescasse dai
recessi della sua anima la forza necessaria per rispondere.
Aveva
pensato tutta la notte a come porre la domanda nel
modo più gentile possibile; aveva scartato i fronzoli
fasulli, le gentilezze
ingannevoli e le premure leziose: non rientravano nel suo carattere, e
non le
avrebbe ammesse nemmeno in una situazione di emergenza. Così
aveva optato per
una domanda schietta; almeno non sarebbe stato accusato di ipocrisia.
Perché
non parli
mai dei tuoi genitori?
La
tracolla venne aperta dalle mani irrequiete di Feliciano,
che estrasse il blocco per appunti e se lo strinse al petto; aveva
bisogno di
un appoggio per addentrarsi nella selva di quella risposta.
«Hai
una famiglia stupenda, sai?» cominciò
l’italiano.
Quello che gli curvò le labbra fu l’ombra del suo
solito sorriso, smorzato e
sfiancato nonostante i tentativi del ragazzo.
Le
sopracciglia dorate di Ludwig si sollevarono, soppesando
le parole dell’amico e mettendole a confronto con gli episodi
che aveva
ricordato il giorno prima. Non avrebbe definito
“splendidi” i giorni in cui Gilbert
era stato trattato come un malato ed esiliato con infamia.
«Normale»
minimizzò, stringendosi nelle possenti spalle.
Le
dita di Feliciano si serrarono sul blocco, piegandone gli
angoli; il ragazzo appoggiò il naso sulla spirale che teneva
insieme i fogli da
disegno, aspirando il profumo della carta. Ne fu rinfrancato a
sufficienza per
continuare:
«È
una famiglia unita.»
Di
nuovo, Ludwig non si espresse con toni troppo entusiasti.
Certo, la sua famiglia era stata molto compatta nel puntare il dito
contro il
cugino… ma non era quello il tipo di concordia cui si
riferiva Feliciano.
«Nonno
Roma mi vuole bene» l’italiano si
dondolò sul divano,
tamburellando le dita sul dorso del blocco. «Ma il
papà e la mamma…»
Le
iridi castane si adombrarono tanto da sembrare color
piombo; il petto del giovane si gonfiò di un sospiro ebbro
di lacrime, che
venne ingoiato anziché esalato; le labbra si mossero
incerte, come se avessero
dimenticato la loro lingua madre. La malinconia del ragazzo
scavalcò le
barriere del tedesco e gli infisse una spina di compassione dritta nel
cuore.
Ludwig non trattenne la propria mano, e lasciò che
atterrasse sulla testa
dell’amico, battendo alcune pacche cameratesche.
La
carezza rassicurò incredibilmente l’italiano,
ravvivando
la fiammella del suo buonumore, sebbene fievolmente.
Passò
ancora qualche istante prima che la bocca impaurita di
Feliciano riuscisse ad articolare:
«Papà
è morto quando io ero troppo piccolo. Solo Lovino si
ricorda qualcosa di lui» il suo corpo ebbe bisogno di un
altro profondo respiro
per esalare: «La mamma… non era adatta ad
allevarci.»
Gli
occhi del tedesco attesero indulgenti che l’amico
riuscisse a parlare di nuovo:
«Siamo
stati allevati dalla famiglia di Antonio.»
Ludwig
odiò profondamente il cugino per la prima volta nella
sua vita: per colpa delle sua metafore bislacche, in un frangente
drammatico
come quello gli era venuto in mente un ciuffo di panna rosa semovente.
«Lavora
allo stesso ristorante di tuo fratello, giusto?»
s’informò il tedesco.
«Come
fai a saperlo?» confermò Feliciano.
«Anche
mio cugino lavora lì» rispose breve
l’altro.
L’italiano
ridacchiò per quella strana coincidenza, e si
rannuvolò poco dopo alla domanda dell’amico:
«Come
mai tua madre non fu reputata idonea?»
Feliciano
si aggrappò ancora di più al blocco,
accartocciandolo anche al centro.
«Mia
madre…» passò la lingua sulle labbra
secche, e terminò
in un unico fiato: «Cercò di strangolare mio
fratello.»
Il
suo cuore si ingolfò: Ludwig lo sentì arrancare,
tossire
ed accasciarsi nel suo petto. Perfino la sua voce e il suo sguardo, di
solito
inossidabili, barcollarono nel muoversi su quel terreno dissestato: non
aveva
nemmeno ipotizzato una spiegazione del genere, e ora si trovava
completamente disarmato
di fronte al mostro di quella rivelazione.
«Cercò…»
«Nonno
Roma aveva capito da tempo che la mamma non era
adatta a crescerci: non aveva superato la morte di
papà» ricapitolò precipitoso
Feliciano. «Aveva avviato delle pratiche per affidarci alla
famiglia di
Antonio. Li conosce da una vita, e si fida ciecamente di loro. Non
potendo
muoversi da Roma, era la scelta migliore» graffiò
il dorso cartonato del
blocco, nervoso. «La mamma capì che stavano per
portarci via e…» Feliciano
morse le labbra nell’agonia di una risata senza gioia.
«Era depressa da tempo.
Non era molto stabile.»
Le
scuse per aver posto delle domande così indelicate, il
dispiacere per il suo passato, chiedere perdono per
l’indelicata curiosità,
compiangere i giorni tragici dell’amico: tutte quelle urgenze
si accatastarono
spasmodicamente dentro di lui, occludendogli la gola.
Feliciano
utilizzò quel silenzio per aprire il blocco con
uno scatto e sfogliare veloce gli schizzi che aveva disegnato:
paesaggi,
personaggi fantastici e nature morte sfrecciarono veloci, come i
fotogrammi del
vecchio cinematografo.
Le
parole zampillarono sulle sue labbra senza che Feliciano
se ne accorgesse, come l’acqua che sgorga da un recipiente di
vetro spezzato.
«Per
questo dipingo sempre cose che non esistono.
L’immaginazione è stata gentile con me, non mi ha
mai fatto del male.»
La
fronte pallida del tedesco si aggrottò.
«Ma
a me hai fatto il ritratto» ricordò.
«Perché
tu sei l’unica cosa buona di questo mondo.»
Il
cinguettio innocente dell’italiano lo pizzicò allo
sterno, insidiandogli un granello di calore nel petto.
Ora
era a conoscenza dei segreti dell’amico, quindi la
curiosità non era più la giustificazione corretta
al suo interessamento per
Feliciano. Ma c’era sempre la possibilità che
fosse la compassione ad
accendergli il cuore.
Osservò
meglio l’amico, che ancora lo fissava con un sorriso
sincero, sebbene spossato dalle confessioni precedenti.
Anche
il cugino aveva attraversato dei momenti difficili, e
anche per lui aveva provato empatia. Ma la partecipazione per Gilbert
non gli
aveva stuzzicato le guance con l’imbarazzo, non lo aveva
fatto sentire a
disagio come se improvvisamente ogni parola potesse essere foriera di
strani
sottintesi.
Feliciano
interpretò male il suo riserbo, scambiandolo per
mancanza di fiducia nelle sue parole.
«Io
ti voglio bene, Ludwig» reiterò.
Il
tedesco si ritrovò le braccia dell’italiano
allacciate al
collo senza nemmeno sentirlo arrivare, preso com’era nel
ruminare su quanto
fosse stato sbagliato costringere Feliciano a rivivere le memorie sulla
sua
famiglia distrutta e su quanto fosse doppiamente sbagliato perdersi in
considerazioni sui propri sentimenti anziché tranquillizzare
l’amico.
Le
mani del tedesco calarono a coprire la schiena dell’amico
solo dopo alcuni istanti di immobilità indecisa.
«Mi
dispiace di essere stato indiscreto» pronunciò,
quasi
marziale per via dell’imbarazzo.
Feliciano
gli sfregò il viso alla base del collo come un
gattino.
«Va
bene così. Te ne avrei parlato comunque, un
giorno.»
E
mentre il divano ospitava i due amici abbracciati, il
gradino di fronte al portone dell’appartamento offriva asilo
ad un giapponese,
troppo discreto per irrompere in casa e troncare
l’intimità dei due ragazzi.
***
Era
passato qualche giorno dalla confessione di Feliciano, e
la sua visita a casa di Ludwig era diventata il pettegolezzo preferito
dal personale
di uno specifico ristorante.
«Secondo
me sarebbero una bella coppia.»
«Non
devono essere
una coppia!»
«Non
dovresti essere così attaccato a tuo fratello.»
«È
ancora troppo piccolo per certe cose!»
Gilbert
roteò gli occhi ramati con teatrale esasperazione e
bloccò Antonio strattonandolo per il grembiule.
«Puoi
spiegargli che, secondo la legge italiana, Feliciano è
adulto e padrone delle sue scelte?» sbuffò.
«E che esistono delle buone
cliniche per curare il brother-complex
troppo sviluppato?»
«Non
trattarmi come un malato!» s’inviperì
Lovino.
«Non
sei malato» patteggiò Antonio, avvicinandosi al
fidanzato. «Ma è vero che ormai Feliciano
è abbastanza grande da…»
«Stai zitto»
sibilò il ragazzo, fulminandolo con gli occhi.
Gilbert
non si lasciò sfuggire l’occasione di molestare il
collega più giovane. Era davvero felice che Antonio avesse
scelto proprio lui
come partner: la vita era diventata più briosa da quando
c’era Lovino da
infastidire.
«Non
puoi opporti al corso naturale delle cose»
sermoneggiò,
con un ghigno sardonico. «Io avevo un anno in meno
quando…»
«Non
mi interessa!» strepitò l’altro,
sbracciandosi come un
mozzo che fa i segnali con le bandiere in alto mare. «Fidati,
non mi interessa!
Sono affari tuoi, e tuoi devono
rimanere!»
«…
quando ho conosciuto Matthew» concluse Gilbert con un
soffio malizioso. «Cosa avevi pensato?»
«Il
peggio, conoscendo la tua mente perversa» lo
stroncò il
giovane, stizzito.
L’altro
non replicò allo sbottare di Lovino. Non aveva senso
esaurire tutto il divertimento in una sola mano: avrebbe aspettato un
po’ di
tempo, poi lo avrebbe pugnalato a tradimento con
quell’argomento durante la
serata per il gusto di vederlo trasalire.
Guardò
fuori dalla finestra, e trovò lo spunto per la sua
prossima frecciatina.
Pioveva.
E
la pioggia era universalmente riconosciuta come creatrice
di situazioni equivoche.
***
Erano
fuggiti da piazza San Marco
appena avevano avvistato la prima nuvola.
I
previdenti veneziani avevano
cominciato a montare le passerelle di legno: ben presto
l’acqua sarebbe
arrivata alle ginocchia, e quelle lingue lignee erano la loro unica
possibilità
di attraversare la piazza. In quella stagione, un’ora era
più che sufficiente
perché la pioggia allagasse ogni vicolo.
Avevano
scelto una pessima giornata per
visitare San Marco, e lo capirono quando il cielo si aprì
sulle loro teste: non
corsero abbastanza in fretta da evitare il primo scroscio, e trovarono
riparo
sotto un pergolato macilento solo dopo essere stati inzuppati dalla
tempesta
molesta.
Il
cellulare di Feliciano squillò, e
l’sms del servizio maree lo avvisò che per quel
giorno era prevista una
pericolosa acqua alta. Il medesimo messaggio fece vibrare anche il
telefono di
Ludwig. Quel servizio era veramente tempestivo: riusciva ad avvisarli
sempre
quando erano troppo lontani da casa per cambiare piani o quando erano
abbastanza bagnati da poter riempire un catino.
«Avrei
dovuto guardare meglio le
previsioni del tempo» si rammaricò spigliato
Feliciano, estraendo un oggetto
cilindrico nero dalla tracolla.
Ludwig
lo osservò perplesso, e
l’italiano lo srotolò perché anche
l’amico potesse capire di cosa si trattasse.
«Sacchi
per la spazzatura?» domandò
incerto il tedesco.
«In
questa stagione, è meglio essere
previdenti. Gli stivali sono troppo ingombranti da portare»
spiegò tranquillo
Feliciano. Procedette a mostrare all’altro come creare un
paio di anfibi con
poche semplici mosse: spiegò il sacco nero, vi
infilò il piede e lo fermò poco
sotto il ginocchio con lo spago incorporato.
Piuttosto
perplesso sull’effettiva
efficacia di quel metodo, anche il tedesco indossò quegli
stivali improvvisati.
La plastica scura si gonfiò e arricciò in strani
modi, dando l’impressione che
gli fossero state impiantate due zampe di mammut dal pelo corvino.
«È
l’unico modo per tenere i piedi
asciutti» si giustificò Feliciano, tentando di
rincuorare l’amico.
Ludwig
preferì non fargli notare quanto
quel rimedio fosse umiliante ed inutile: le loro scarpe erano diventate
una piccola
pozzanghera, arrivando ad infradiciare il calzino e a congelare la
pelle
sottostante. D’altronde, non vi era più un solo
centimetro del loro corpo
asciutto: le nuvole si erano preoccupate di setacciarli ovunque, dai
capelli
alle caviglie, senza trascurare nemmeno una singola piega.
Ludwig
cercò di strizzare la felpa
color militare e di scrollare un po’ d’acqua dai
capelli fradici. Feliciano, al
contrario, sembrava perfettamente a suo agio con la frangia grondante e
i
vestiti ridotti ad un ammasso di grinze annacquate.
«Dovresti
asciugarti un po’» lo
consigliò severo il tedesco.
«Mi
bagnerò di nuovo non appena
usciremo da qui» fece notare con un sorriso svampito
l’italiano.
Le
palpebre batterono sugli occhi
azzurri, in parte per lo stupore e in parte per scacciare alcune gocce
d’acqua.
«Vuoi
avventurarti di nuovo in quel
diluvio?»
«Possiamo
metterci un sacco in testa
per ripararci dalla pioggia» decise l’altro.
Ludwig
vide le testate dei giornali
scorrergli davanti agli occhi come in un incubo: “la laguna
partorisce strani
esseri di plastica nera”; “avvistati due grossi
lombrichi umanoidi: alieni o
visione?”.
«Aspettiamo
che si calmi un po’» sospirò,
esasperato.
Feliciano
si strinse beato nelle
spalle, accettando senza proteste la proposta dell’amico.
«Ora
dovresti scrollarti quella pioggia
di dosso» gli rese noto il
tedesco.
L’italiano
fissò i propri abiti come se
li vedesse per la prima volta, e cominciò a strizzarli con
la malagrazia di un
bambino; Ludwig fu costretto ad aiutarlo quando il ragazzo
cominciò ad
avvitarsi su se stesso per spremere la maglietta sulla schiena.
Feliciano
sistemò con cura la tracolla,
in modo che rimanesse incastrata tra la sua gamba e il muro, ben
riparata dalla
bufera: non avrebbe permesso che i suoi schizzi si bagnassero come lui.
L’italiano
stese le mani davanti a sé,
i pollici e gli indici tesi a “L” a formare una
cornice attorno al volto del
tedesco.
«Devo
farti un altro ritratto, con i
capelli in questo modo» decise Feliciano.
Ludwig
passò indeciso una mano nella
chioma zuppa: la pioggia aveva distrutto la sua solita pettinatura con
i
capelli tirati all’indietro, arruffandogli sulla fronte la
lunga frangia.
«Avevi
detto che preferivi disegnare
cose inesistenti…»
«Ma
tu sei l’eccezione» sorrise l’altro.
Feliciano
non aveva più toccato
l’argomento della sua famiglia dal giorno in cui
l’aveva sviscerato: da allora aveva
cercato di distanziarsene il più possibile, e Ludwig non
aveva fatto ulteriori
pressioni per forzarlo a parlarne di nuovo.
L’italiano
aveva dipinto solo scenari
immaginari da quando la realtà si era rivelata troppo dura
per lui; Ludwig era stato
l’unica breccia nel suo mondo di fantasia. Era presuntuoso
sperare di poter
diventare la fenditura anche nel suo animo congelato nel passato?
Gli
occhi castani di Feliciano si
posarono sul tedesco, confusi ma non infastiditi, quando le mani
più forzute
del compagno si appoggiarono sullo stipite di pietra dietro di lui,
bloccandogli la testa tra gli avambracci nerboruti.
Ludwig
sentì l’amico chiamare il suo
nome con fare interrogativo, e quella domanda sembrò
stendersi nella sua mente
come colla, infangandogli i pensieri. Troppi giorni di riflessioni
ansiose
avevano sfiancato le sue meningi: ormai era stanco di pensare. E quando
l’italiano aveva ribadito che lui era l’unica cosa
che amava al mondo, non gli
era più parso così blasfemo avvicinarsi in quel
modo.
La
pioggia scrosciava rumorosa nel
mondo al di fuori di quella nicchia scavata nei mattoni, e le nuvole si
scontravano ruggendo; solo in quel riparo occasionale era calato un
improvviso
silenzio.
Era
stato Ludwig ad avvicinarsi, ma fu
Feliciano ad annullare la distanza tra loro: una miriade di emozioni
gli fecero
scintillare le iridi e tremare le labbra prima di solleticare le piante
dei
piedi per farle alzare e raggiungere così
l’altezza dell’amico.
Nonostante
gli sforzi dell’italiano, il
tedesco dovette chinarsi per unire le labbra alle sue.
Un
primo bacio del genere non rientrava
nelle fantasie di nessun essere umano: fradici, in mezzo alla tempesta
e con
dei sacchi della spazzatura arpionati alle gambe.
Feliciano
sentì la nuca poggiarsi al
muro, le mani aggrapparsi alla maglia inzuppata dell’amico,
la bocca muoversi
assieme a quella del tedesco; il braccio di Ludwig gli avvolse la
schiena,
riscaldandogli la pelle infreddolita, la mano libera del compagno fissa
sul
muro a pochi centimetri dalla sua testa.
Per
un attimo si chiese se fossero
quelle le cose contro le quali Lovino lo aveva messo in guardia. Il
pensiero lo
sfiorò solo un secondo: era impossibile che il fratello
volesse privarlo di
quell’esperienza.
Nessuno
dei due udì il rombo del
temporale mentre si stringevano nel bacio; il mondo sembrò
perdere consistenza
al di fuori di quella cornice di mattoni.
Potrà
sembrarvi strano, ma davvero a Venezia chi non ha gli stivali gira con
i sacchi
della spazzatura legati sotto il ginocchio xD Pur di non bagnarsi i
piedi,
questo ed altro XD
Well,
con questo si conclude la parte “introduttiva”; dal
prossimo capitolo inizierà
il cuore della fanfic, incentrato per lo più
sull’omofobia.
Come
sempre, grazie per essere arrivati a leggere anche le
postille<3<3<3<3
A
presto!
Red