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Autore: AntheaMalec    27/08/2012    12 recensioni
La prima volta che lo vide fu davanti alla scuola, nell’angolo più appartato del cortile d’ingresso. John aveva incominciato a sbirciarlo di nascosto per giorni mentre tutti i suoi compagni sembravano non notarlo nemmeno. Non sapeva il suo nome, né altro, per la verità. Aveva solamente preso a guardarlo, sempre più spesso e con sempre più insistenza, ostinandosi a oltrepassare la barriera trasparente che sembrava distanziare quello strano ragazzo dal resto del mondo.
Possedeva occhi di ragazzo, mani di ragazzo, corpo di ragazzo e viso di ragazzo, ma tutto in lui, in un certo modo, sembrava gridare il contrario. Come stringeva la presa sulla sua cartella monocromatica, ad esempio, oppure il modo che aveva di camminare o la sua semplice espressione facciale.
Di lui non aveva paura; piuttosto, si sentiva come davanti al mare, quel mare così profondo che, quando ci entravi, non sapevi mai se avevi qualcosa sotto ai piedi oppure no. Non proprio spaventato, ma certamente nervoso di rivederlo, ogni mattina davanti a scuola, fino a quando non si accorse che quello sguardo all’apparenza posato sul nulla, aveva cambiato direzione. Gli occhi puntati su John, come se volesse qualcosa.
Genere: Fluff, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Finalmente. Questa one-shot (lo è?) è stata per me come un parto gemellare. Faticoso, stancante e, ora come ora, deludente. Ho cercato di rimanere il più IC possibile, strappandomi quasi i bulbi oculari per cercare di collaborare con Word, ma, se proprio dovreste vedere dei caratteri OOC date la colpa all’adolescenza, all’amore o quello che volete voi u.u
Anyway, vorrei fare un piccolo ma sentito ringraziamento a Jessie perché ogni volta è una valanga di fluff che mi aumenta l’autostima, anche se non se ne accorge nemmeno <3 Grazie mille a chi avrà l’arduo coraggio di arrivare fino alla fine e di lasciare una recensione, siete tutta la mia vita.
 
 
 
L’anima incontra l’anima sulle labbra degli amanti
 
Se una persona non se ne va dopo tutte le tue stranezze, i tuoi sbalzi d’umore e i tuoi errori, faresti meglio a prenderla, stritolarla tra le braccia e non lasciarla andare via.
Mai.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La prima volta che lo vide fu davanti alla scuola, nell’angolo più appartato del cortile d’ingresso. John aveva incominciato a sbirciarlo di nascosto per giorni mentre tutti i suoi compagni sembravano non notarlo nemmeno. Non sapeva il suo nome, né altro, per la verità. Aveva solamente preso a guardarlo, sempre più spesso e con sempre più insistenza, ostinandosi a oltrepassare la barriera trasparente che sembrava distanziare quello strano ragazzo dal resto del mondo.
Possedeva occhi di ragazzo, mani di ragazzo, corpo di ragazzo e viso di ragazzo, ma tutto in lui, in un certo modo, sembrava gridare il contrario. Come stringeva la presa sulla sua cartella monocromatica, ad esempio, oppure il modo che aveva di camminare o la sua semplice espressione facciale.
Di lui non aveva paura; piuttosto, si sentiva come davanti al mare, quel mare così profondo che, quando ci entravi, non sapevi mai se avevi qualcosa sotto ai piedi oppure no. Non proprio spaventato, ma certamente nervoso di rivederlo, ogni mattina davanti a scuola, fino a quando non si accorse che quello sguardo all’apparenza posato sul nulla, aveva cambiato direzione.
Gli occhi puntati su John, come se volesse qualcosa. Evidentemente, non gli passava nemmeno per la testa di venire a prenderselo, qualunque cosa fosse, come facevano gli altri ragazzi, con una certa dose di violenza. Lui no. Non avanzava pretese, solo sguardi, come se avesse tutto il tempo del mondo per aspettare. Occhi sanguisuga, ma freddi; riservati, eppure insistenti. John si teneva a debita distanza, ma il suo sguardo lo veniva a stanare attraverso tutto il cortile, se necessario.
Erano entrambi soli, forse lui più di John, talmente solo che non si metteva a litigare neanche con i suoi coetanei. Avrebbe voluto farlo, avvicinarsi a lui e parlarci, chiedergli come si chiamava, perché non aveva mai fatto amicizia con nessuno o, più semplicemente, se le sue materie lo interessavano tanto quanto a John. Si sarebbe accontentato anche di un semplice ‘mi passi il sale, per favore? Grazie’, ma sapeva che era tanto desiderabile quanto impossibile.  Avrebbe voluto prendere le sue lacrime –piangeva? Tutti piangono– per prendersene cura, prendere i suoi capricci e prendersene cura, le sue grida, il suo amore nascosto, tutto. Voleva prenderlo fra le braccia e dirgli: ‘io avrò cura di tutto ciò che ti fa male, strapperò via ogni tuo dolore’, ma quelle parole rimanevano sospese nell’aria come il più temuto dei segreti.
Di lui, una volta suonata la campanella di inizio lezioni, sparivano le tracce. John provò a cercarlo nei corridoi tra un’ora e l’altra, con risultati scadenti. Ogni tanto, nel buio della sua cameretta, mentre le urla dei suoi genitori gli incendiavano la testa, si chiedeva da dove diavolo provenisse tutta quella particolare attenzione per il ragazzo riccioluto e solitario. Era strano e senza senso, un’idiozia bella e buona. Eppure era lì, era così chiara da sembrare quasi irreale, quella voglia di conoscerlo che non lo lasciava mai in pace.
Di parlarne con qualcuno era impossibile, sapeva quanto le voci corressero alla velocità della luce in una scuola come quella che frequentava e di parlarne con qualcuno dei suoi parenti, beh, non avrebbe avuto di certo l’imbarazzo della scelta. Sua sorella era perennemente fuori casa e quando tornava non era nemmeno in grado di parlare con lui, visto che la maggior parte delle volte era ubriaca da star male.
Non erano mai andati d’accordo e questo conferiva un muro tra loro due che pareva invalicabile; John considerava quella una faccenda estremamente privata, non sicuramente da mettere nelle mani di una sorella distante e confusa. Avrebbe potuto parlarne con sua madre –avrebbe potuto?– o con suo padre, ma ogni sera, a cena, li guardava fissi negli occhi e non riusciva a proferire parola, chiuso in una bolla impenetrabile di curiosità e segreti e incertezza che loro, grandi e maturi, non avrebbero compreso.
Perciò ogni notte andava a letto e si risvegliava nella medesima posizione, pronto per rivederlo. Alle volte avrebbe voluto che la notte durasse per sempre, in un limbo incastonato nel tempo, ma non esisteva niente di tanto lungo che impedisse al sole di sorgere ogni mattina. Nemmeno quel ragazzo.
 



John si massaggiò piano una tempia con la mano destra, imprecando mentalmente contro la scelta fatta anni addietro di frequentare una grammar school*. Mordicchiò nervosamente il beccuccio della penna incastrato tra i denti, una mano che sorreggeva un grande tomo di filosofia e gli occhi che passavano da un rigo al corridoio pieno di gente, cercando di non scontrarsi con nessuno. Cercò di mormorare qualche informazione a voce bassa, imprimendosela tra le labbra e nella memoria, con scarso successo. Tra pochi minuti avrebbe avuto il fatale compito di fine primo quadrimestre e non era preparato nemmeno il decimo di come avrebbe dovuto essere. Panico, assurdo e maledettissimo panico. Cambiò pagina proprio nel momento in cui andò a sbattere contro qualcuno, salvando il libro appena in tempo per non farlo cadere a terra.

« Attento a dove vai! » Stava già per chiedere scusa quando le parole gli morirono in gola. Massa di riccioli neri, zigomi alti, occhi –quegli occhi, quello sguardo–, era lui. L’ironia della vita era sempre stata antipatica a John tanto quanto la filosofia e in quel momento, tra tutte le domande e i pensieri che aveva fatto su quel tipo eccentrico, non riuscì a dire una parola.
Aveva l’espressione a metà tra l’infastidito e l’annoiato, girava con le mani in tasca e la cartella sulle spalle, come se fosse pronto ad andarsene subito, nonostante fosse solo metà mattinata.
Si era fermato un momento, lo sguardo dritto nel suo come non lo era stato mai –era tutto così esplicito, ora, non era più solo immaginazione. « Oh…io, non… » Prima che John potesse ricollegare il cervello a tutto il resto del corpo, il ragazzo era sparito tra la folla, lasciando dietro di sé nient’altro che l’eco della sua voce bassa. Ce l’aveva avuto lì, a distanza di pochi centimetri –gli aveva sfiorato la spalla nel contatto brusco? Non ne era sicuro, ma gli piaceva pensarlo– eppure non aveva saputo dirgli nulla.
Nemmeno ciao, nemmeno mi passi il sale, anche se non sarebbe c’entrato nulla. John era rimasto lì a guardare il corridoio che si svuotava per minuti che gli sembrarono ore, prima di accorgersi che la campanella aveva già fatto l’ultimo squillo da molto più di dieci minuti e che, sicuramente, era in ritardo su tutta la linea.
Stupido, stupido John, si disse mentre correva al terzo piano in direzione della sua aula.
 
 
 

Respira.

Respira lentamente e calmati, pensò John quando passò davanti al laboratorio di chimica e notava una presenza un po’ familiare da dietro la porta a vetri opachi.
 Entrò lentamente nella stanza, continuando a darsi dell’idiota a ogni battito troppo irregolare che il suo cuore creava. E’ solo un ragazzo, solo un ragazzo sconosciuto che lavora da solo in laboratorio –aveva un permesso, almeno?.
« Non credo che dovresti essere qui. » La sua voce ruppe il silenzio che John aveva così cautamente mantenuto entrando in quel posto. Accidenti. Doppio accidenti. Si schiarì la voce, passando lo sguardo da un oggetto all’altro, non fermandosi mai sulla figura seduta sullo sgabello, intenta a fare chissà cosa al microscopio. « Già, non ci dovrei essere. » Fu tutto quello che riuscì a dire John, torturandosi le mani dietro la schiena.
A John sembrò che il ragazzo sbuffasse infastidito, alzando gli occhi al cielo, prima di rivolgersi verso di lui, ma non ne era sicuro al cento per cento –d’altronde, cosa sapeva a proposito di quel ragazzo? Poteva essere il più antipatico del mondo e avrebbe spiegato perfettamente la sua vita solitaria. Eppure. Eppure c’era qualcosa.
« Quindi perché sei qui? » John ci pensò su un attimo, cercando una scusa plausibile per quella intromissione nel mondo dell’altro. Si poteva benissimo percepire che non era certo una persona di compagnia, aveva quello sguardo tipico delle persone distanti, quelle che credono tutti una massa di idioti informi, insomma. Si rigirò un filo scucito del suo maglione tra le dita, prima di replicare qualcosa di minimamente sensato. « Avevo bisogno anche io del laboratorio, il professore me l’ha consentito. »
Non era vero, ovviamente. I professori non lasciavano mai andare gli alunni in qualunque posto dove avrebbero potuto rompere, contaminare o rubare qualcosa, lo sapevano benissimo entrambi.
« Vale così tanto questa bugia? » Disse l’altro, ritornando a prestare attenzione al suo microscopio, girando manovelle e cambiando vetrini come se lo facesse da tutta una vita. John si sentiva un po’ in imbarazzo di fronte a quella presenza così eccentrica –insomma, doveva proprio sottolineare quanto facesse schifo nel mentire?– ma decise di riprovare ad attaccare un minimo di dialogo.
« Io mi chiamo John Watson. »  Sentenziò, avvicinandosi al tavolo da lavoro e sedendosi sulla sedia accanto alla sua. L’altro sembrò non accorgersi nemmeno di ciò che gli aveva appena detto, un ambiguo sorriso che compariva sul viso ogni volta che annotava frasi o numeri sul taccuino nero poggiato affianco al microscopio.
Aspettò pazientemente che dicesse qualcosa –qualsiasi cosa, dannazione!– ma questo non accennò a nulla, nemmeno un leggero sospiro in sua direzione. L’aveva cancellato dal suo mondo. Era già tutto finito? Forse sarebbe stato meglio andarsene e fare finta di niente per tutto il resto della sua permanenza in quel luogo. « Non mi dici come ti chiami? » Riprovò, sperando di riscuoterlo dal torpore in cui era caduto. « Non mi hai chiesto di farlo. » John aggrottò le sopracciglia, confuso. Pensava di essere stato abbastanza chiaro, veramente. Erano tutte e due in un laboratorio oltre l’orario delle lezioni, probabilmente infrangendo un paio di leggi scolastiche, e gli aveva appositamente detto il suo nome per far sciogliere lo strato di ghiaccio che si erano creati intorno.
« Te lo sto chiedendo ora, allora. » Il ragazzo alzò finalmente gli occhi su di lui, scrutandolo con uno sguardo che gli fece venire i brividi dietro la testa. Strana sensazione, strana persona. Ora si sentiva anche lui sotto un ipotetico microscopio, l’occhio vigile che lo scandagliava da cima a fondo, vivisezionava e catalogava.
Poteva sentire il suo cervello correre alla velocità della luce e riusciva a leggere tutto in quelle iridi chiare. Sembrò soppesare attentamente la sua richiesta, nel silenzio elettrizzato della stanza, prima di far scoprire a John la sua identità. « Mi chiamo Sherlock Holmes. » Avrebbe voluto pronunciarlo a sua volta, dare finalmente un nome reale a quella persona reale –ci stava parlando, era vero, consistente davanti a lui. Sherlock, che nome bizzarro. Non glielo disse.
« Bene, che cosa stai facendo, Sherlock? »  Chiese, l’alone di idiozia che sentiva dentro non accennava a sparire, anzi, si intensificava ad ogni parola. Che cavolo di domanda era? Stupido.
« Non lo vedi da solo? »  Rispose, con una punta di irritazione. Giusto, perfetto, logico. Abbassò lo sguardo, cercando le parole adatte, qualcosa di giusto da dire nel momento giusto. John prese il cellulare dalla tasca, notando l’ora e allarmandosi: il pullman sarebbe passato tra soli quindici minuti e avrebbe dovuto correre per arrivare alla fermata in tempo.
Si alzò dallo sgabello, intenzionato ad avvicinarsi alla porta prima che facesse o dicesse qualcos’altro di irreparabile. Tipo respirare o ricordargli che era presente anche lui nella stanza.
« John? »  Chiamò Sherlock, facendogli mancare un battito. Si girò di nuovo verso di lui, sorridendo appena. « Hai dimenticato il telefono sul tavolo. »  Oh. Oh, già. Idiota. « Sì, hai ragione, scusa. »  John si riavvicinò a Sherlock che aveva preso in mano il suo cellulare e lo stava rigirando come se fosse un giocattolo. Dio, quella situazione sarebbe rimasta impressa nella sua mente come la più imbarazzante di tutta la sua vita. « Grazie. »  Gli disse, prima di infilarsi l’aggeggio in tasca e ripescare le vecchie cuffie da essa, intrecciando il filo intorno al dito. « Comunque mi dispiace per tua sorella, l’alcool è una dipendenza difficile da nascondere alla famiglia. »  
John respirò forte, lo sguardo che era fisso sulla maniglia. Sarebbe stato facile afferrarla e scappare da lì, da lui, dal suo carattere che lo aveva fatto sentire inadeguato già dal primo secondo in cui aveva toccato il pavimento del laboratorio. Poteva farlo, poteva ignorarlo e fare finta che non fosse successo niente, che non gli avesse mai parlato. Poteva, ma non voleva. « Come diavolo fai a sapere di mia sorella? »  
In fondo, il pullman poteva aspettare.
 
 
 

Ci aveva riflettuto tanto, John, rinchiuso nella sua cameretta, la luce spenta e il letto ancora fatto al suo fianco. Aveva riflettuto sulle coincidenze, sulle persone con doti speciali e sulle amicizie improvvisate –esistevano i colpi di fulmine in amicizia?.

Aveva incontrato Sherlock Holmes in un laboratorio di scuola, fuori orario e probabilmente fuori dalla legge, mentre lavorava ad uno dei suoi esperimenti –‘Li faccio spesso, la gente comune mi annoia’, gli aveva detto, e lui si era sentito speciale.
Aveva scoperto tutti i segreti sulla vita sua e della sua famiglia solamente in pochi minuti di conoscenza, senza quasi nessun dialogo tra loro –‘Fenomenale!’, aveva detto John appena Sherlock aveva chiuso il discorso, riprendendo fiato dopo tutte quelle parole infinite, ‘E’ stato straordinario! Assolutamente eccezionale!’. John lo aveva sorpreso, l’aveva letto sul volto di Sherlock che era considerato un tipo strano solo perché era intelligente oltre ai limiti. ‘E’ per questo che non hai nessun amico?’ Gli aveva detto John, cercando il suo sguardo e tenendolo legato al suo.
Compatibile, ecco come sentiva Sherlock, un tassello perfetto da collegare al suo. ‘No, è perché non ne voglio. Gli amici distraggono, gli amici sono una debolezza e io non voglio essere debole, né distratto.’  John si era sentito offeso e non ne aveva capito la ragione. Non erano amici, loro due. Non erano proprio un bel niente.
John sbuffò al buio della sua stanza, il silenzio che galleggiava intorno a lui come un’ irritante coperta nel bel mezzo di agosto.
Non ci capiva proprio nulla. Aveva aspettato mesi per conoscerlo, guardandolo e pensando di aver capito tutto di lui, tutte le sue insicurezze e i suoi pensieri, solamente dandogli un’occhiata i pochi minuti che precedevano la campanella.
La verità era che John non aveva capito niente di Sherlock Holmes. Lui era tutto un grande mistero, un oracolo di intelligenza elevata –‘È poca la gente con cui possa trovarmi in una stanza per più di cinque minuti senza sentirmi stomacato. Tutte le persone sono idiote, incluso te’, gli aveva detto quando si erano trovati davanti al cancello d’ingresso con il cielo che prometteva pioggia, e lui non si era sentito affatto speciale, in quel momento. Sherlock non l’aveva salutato, semplicemente l’aveva guardato un’ultima volta e se n’era andato, salendo su una macchina nera ed elegante.
John percepiva ancora, dopo ore di distanza, il senso di delusione che aveva ricevuto da quella separazione spoglia. Nessuna mezza promessa, nessun ‘ciao, allora domani ti aspetto davanti alla scuola, al solito posto?’. Niente. Si alzò dal pavimento dove si era sdraiato ore prima –la meditazione si fa sempre nei posti più scomodi, l’aveva letto in qualche giornale di sua madre–, gattonando fino al letto e stendendovisi sopra. Si sentiva agitato, come quando stai per salire su una giostra particolarmente divertente e non vedi l’ora di poter esserci seduto sopra e incominciare a urlare. Così si sentiva, in ansia.
« Sherlock Holmes. »  Borbottò, prima di addormentarsi.
 
 
 

Pullman, sette e quaranta.

John continuava a muoversi nervoso, spostando il peso da un piede all’altro, appoggiato al palo del vecchio e rosso mezzo di trasporto. Ricontrollò l’orologio da polso che aveva indossato quella mattina –un vecchio e consumato orologio, perché diavolo se l’era messo?– prima di lanciare un’occhiata fuori dal finestrino. Quella era la sua fermata. Dannazione, era nervoso come un mocciosetto di due anni.
Scese velocemente gli scalini che portavano al marciapiede, il passo velocizzato da una strana voglia crescente di scoprire e vedere –o rivedere– e respirare come non aveva mai fatto in vita sua. Arrivò davanti al grande edificio bianco, le pareti scrostate non gli erano mai sembrate così interessanti come in quel momento. Scivolò da un viso all’altro, fino a trovarlo nel solito angolo del cortile, a destra.
Sembrava non essere cambiato niente, era sempre lì, sempre con lo sguardo perso tra la marmaglia di gente che gli passava davanti senza vederlo –io ti vedo–, fino a posarsi su di lui. L’ondata di delusione che gli provocò il suo lento scandagliarlo, prima di rivolgere gli occhi altrove, lo investì con una tale potenza da frastornarlo. Idiota era stato lui a pensarci tutto il giorno –tutti i giorni–, idiota era stato lui ad attaccare bottone per essere trattato come il banale ragazzo non benestante quale era, idiota era stato lui per tutto quello e per averci sperato, in un’amicizia o in un legame qualsiasi, con un tipo che l’aveva affascinato come Sherlock Holmes aveva fatto.
Il suono della campanella arrivò come una benedizione, distraendolo dalla figura di Sherlock, facendolo fiondare dentro la scuola, in cerca dell’aula per la sua prima lezione. Passò l’ora appuntando svogliatamente sul suo quadernino ed il resto del tempo ad osservare l’orologio, contando i minuti che mancavano per la fine di quella tortura.
La seconda ora avrebbe avuto l’ora buca –ottimo per poter studiare quello che ora stava deliberatamente ignorando–, ciò stava a significare pareti azzurre, scomode sedie di plastica, in poche parole, aula studio. « Watson? »  John tirò su lo sguardo verso la cattedra, dove stava il professore, le mani sui fianchi e l’espressione irosa.
« Per caso stai trovando la mia lezione noiosa? »  Domanda retorica, tutte le sue lezioni lo erano. Un leggero brusio incominciò ad aleggiare in classe. « No, professore, no di certo. »  « Quindi mi potresti riassumere ciò che stavo dicendo poco fa? »  Lanciò uno sguardo agli altri studenti, prima di guardare la pagina del suo quaderno e trovarne solo rombi e cubi disegnati ovunque, causati dalla svogliatezza.
Aprì bocca per rispondere che no, non sapeva di che accidenti stavano parlando, quando la campanella suonò la fine dell’ora e tutti si alzarono per andarsene. John sospirò di sollievo, passandosi una mano sugli occhi. « Salvato per miracolo, Watson. »  Disse, prima di riordinare le sue cose e scomparire insieme alla classe, nel corridoio affollato. Si alzò a sua volta, dirigendosi al piano superiore, verso l’aula riservata allo studio. Salì velocemente le scale, prima di svoltare un angolo e ritrovarsi davanti la stanza vuota, a eccezion fatta per un ragazzo e una ragazza, appartati in un angolo mentre ascoltavano la musica dagli auricolari.
Si sedette su una sedia di plastica bianca, i braccioli intagliati con nomi o disegni volgari che gli fecero accennare un sorriso a labbra chiuse. Aprì lo zaino per tirare fuori il libro di astronomia e i non appunti che aveva scritto durante la precedente ora. Sospirò prima di immergersi in spiegazioni, sintesi e schemi quando un accenno di tosse lo distolse dai suoi pensieri. Guardò i due giovani, ma non sembravano essere stati loro a fare quel rumore, presi com’erano dalla musica, con la testa uno appoggiato a quella dell’altra, quindi spostò lo sguardo fino all’ingresso, dove si trovava Sherlock, un libro sottobraccio e la cartella appesa ad una sola spalla. Sherlock. Anche qui?, pensò John, distogliendo subito gli occhi da lui fino a rimetterli sul suo quaderno.
Fai finta che non esista, fai finta che non esista.
« Ciao… »  Mormorò John quando Sherlock gli passò davanti, non vedendolo –o stava solo facendo finta?. Era vicinissimo, poteva quasi sfiorarlo, lui in piedi in tutta la sua altezza e John seduto in tutta quella banalità che Sherlock riteneva noiosa. Di nuovo, gli sguardi si incontrarono, in quell’azzurro non azzurro degli occhi di Sherlock che erano così belli da poter essere fotografati migliaia di volte, con tutti quei colori e quella patina lucida che li caratterizzava sempre.
Forse era stato avventato da parte di John salutarlo –non si era forse ripromesso di non pensarci più?–, ma non aveva potuto farne a meno. Forse non era stato avventato, dopotutto. Era stato semplicemente inevitabile. Forse avrebbero incominciato a parlarsi senza alcun bisogno di incentivo. O forse no, ma era andata così e tanto era che si sentiva quasi destinato a conoscerlo più a fondo. « Ciao, John. »  Rimase per un momento fermo davanti a lui, in qualcosa che sembrava tanto una statua. « Puoi sederti qui, se vuoi. »  Proruppe John, ancora prima che quelle parole si formassero nel suo cervello. Sherlock aggrottò le sopracciglia, rimanendo, però, fermo.
« Sei strano. »  Disse Sherlock, scrutandolo come se da un momento all’altro John sarebbe scoppiato in un milione di pezzi o trasformato in un gigantesco orso di peluche. Strano? Non si sarebbe definito strano. « Perché? »  Chiese allora, cercando di seguire il filo dei pensieri della persona davanti a lui e fallendo miseramente. « Pensavo che ieri ti avessi…offeso. Di solito succede così alla gente normale. »
Oh. Eccolo lì, chi aveva visto in tutte quelle mattine, la barriera che lo divideva da tutto il mondo. Eccola lì, dov’era la persona che era sicuro ci fosse in lui, chissà come. Quella lieve incrinatura nella voce, quel particolare sguardo da persona smarrita, dietro chili di logica e convinzioni sbagliate. Lui mostrava quella parte intelligente di sé –quella che lui aveva adorato dal primo istante– e tutti se ne andavano, additandolo e sentendosi offesi. Stupidi, idioti. Gli sorrise, cercando di passargli più serenità possibile, prima di indicargli ancora la sedia accanto alla sua. Questo si sedette, appoggiando la propria roba sulle gambe e rovistandoci dentro.
Dette un’occhiata di soppiatto, notando che di libri ce n’erano pochi e che, più che altro, era pieno di taccuini, penne, una lente d’ingrandimento –ma che diavolo ci faceva con quella cosa a scuola?– e un Iphone ultimo modello, buttato a casaccio tra le altre cose. « Comunque, per chiarire, non credo tu abbia detto qualcosa di particolarmente cattivo nei miei confronti tale da offendermi. »  Disse John, sfogliando il proprio libro di astronomia con poco interesse, ormai tutta concentrata altrove. Sherlock alzò un sopracciglio, spostandosi un ricciolo da davanti agli occhi, in modo da poter trovare ciò che stava disperatamente cercando in quel mare di disordine.
« Quando spiattelli in faccia alle persone la loro vita in base a dati che loro definiscono poco importanti, tendono a diventare più stupide del solito. Non capiscono che basterebbe osservare solo più attentamente le cose per avere tutte le informazioni che cercano disperatamente di nascondere. »  « Io non ho nulla da nascondere, posso essere escluso dalle persone stupide? »  Gli chiese, con un sorriso che cresceva senza sosta. Lui si girò per un momento a guardarlo, la mano che finalmente stringeva un pezzetto di carta fitto di scritte e numeri. John si ritrovò addosso il suo sguardo fisso, con un accenno di sorriso che spuntava sulle labbra e gli andava a marcare gli zigomi.
« Adesso non esagerare. »  Rispose, sistemandosi meglio sulla sedia e ributtandosi in un’altra ricerca per trovare una penna. John gli porse la sua, non accennando a spegnere il sorriso che contagiava anche gli occhi. « Tieni, usa la mia. »
Restarono così per tutta l’ora, nel silenzio della stanza, con solo un accenno della musica troppo alta che stavano ascoltando i due ragazzi all’angolo, le spalle che si sfioravano ogni tanto in un tocco accidentale e gli occhi che si cercavano tra le righe dei libri dal poco interesse.
 
 
 

«
Sherlock? »  Lo chiamò John, cercando di farsi prestare attenzione mentre uscivano insieme dal cancello della scuola. « Dimmi. »  Rispose Sherlock, gli occhi che vagavano dalla misteriosa macchina nera posteggiata pochi metri più in là a lui. Un baluginio nel suo sguardo gli fece capire che non c’era niente di buono in quella testolina riccioluta.
Era da qualche giorno che si frequentavano a scuola, la mattina John borbottava con Sherlock di quanto avesse sonno o delle materie noiose che avrebbe dovuto affrontare in mattinata e si riunivano alla fine delle lezioni con le annotazioni di Sherlock su quanto i suoi esperimenti stessero procedendo in maniera grandiosa o delle particolari caratteristiche che aveva visto in un professore qualsiasi. ‘Sarebbe bello poter vivisezionare tutti’, gli aveva detto un giorno, seduti sul muretto che costeggiava il cortile, ‘aprirli tutti e capire cosa ci trovino di interessante gli uni negli altri. Poter sperimentare e creare, solo così potrebbero tornarmi utili’. John non gli aveva dato peso, ormai abituato a uscite di quel genere.
« Ti andrebbe di andare a fare un giro nel parco prima di tornare a casa? »  John aggrottò la fronte, stranito per quella richiesta non da Sherlock. « Come mai? »  Chiese cauto, cercando un qualche interesse che potesse far smuovere Sherlock fino ad un comunissimo parco giochi per bambini.
« Ho solo voglia di fare una passeggiata con te, è così strano? »  Sì, lo era. Strano e con un doppio fine, visto che quello sguardo non gli piaceva per niente. « Va bene, andiamo. »  Fece un segno alla macchina e incominciò a camminare verso il parco dietro la scuola, dove a quell’ora non ci sarebbe stata anima viva. « John, ora io devo fare una cosa, tu resta qui e non ti muovere. »  Disse, arrivati davanti all’entrata secondaria.
John lo fissò confuso, cercando di capire cosa volesse fare. « Perché? Cosa devi fare? »  Sherlock alzò gli occhi al cielo, prendendolo per le spalle e guardandolo dritto in volto. « Fai quello che ti ho detto. Non ti muovere di qui, arrivo subito, promettilo. »  Annuì, imbarazzato dal contatto mai ricercato da entrambe le parti. Lui si guardò un attimo intorno, prima di entrare nel parco e girare fra gli alti alberi, in cerca di qualcosa, finché non scomparì dalla sua vista. John scalciò piano un sassolino che si trovava sulla sua strada, prima di fissare il percorso che aveva seguito Sherlock e incominciare a dirigersi in quella direzione.
Sapeva che gliel’aveva promesso e che probabilmente non era nulla, ma era agitato e il suo sesto senso non sbagliava mai. Lo trovò dietro ad un cespuglio particolarmente florido, lo riconobbe dalla nuvola nera dei suoi capelli che non lasciava dubbi d’appartanenza. Stava insieme ad un altro ragazzo, probabilmente più grande, che aveva visto in giro per scuola e che aveva una brutta reputazione. Restò immobile, azzerando il respiro e fissandolo quasi senza battere le palpebre. Immobile mentre vedeva Sherlock passare delle banconote al ragazzo che sapeva si chiamava James, immobile mentre James passava qualcosa a Sherlock in una busta bianca dall’aria innocente –ma che innocente, lo sapeva, ormai, non era–, immobile quando Sherlock salutò con un cenno del capo e si voltò nella sua direzione. Immobile anche Sherlock, ora.
Tutto sembrava essere un grosso nodo che stringeva John a dismisura. Lo aveva usato come diversivo per comprarsi chissà quale droga, lo aveva usato per far finta che andasse tutto bene, lo aveva usato.
John indietreggiò di un passo e poi un altro e un altro ancora. Non voleva andarsene, in realtà. Voleva restare e urlare contro di lui, voleva dirgli perché lo stava facendo o perché l’aveva fatto in passato. Erano così piccoli e lui…Sherlock rimase fermo davanti al cespuglio fino a quando John prese a correre verso casa, mandando al diavolo il pullman e la macchina nera che gli era passata affianco proprio in quel momento.
Aveva fatto finta di niente quando aveva visto i segni sul suo braccio nonostante amasse la medicina e sapesse tutto quello che c’era da sapere per vedere i segni di un drogato, aveva chiuso gli occhi e girato la testa dall’altra parte, troppo debole e troppo giovane per poter affrontare un argomento tanto importante con un amico tutto nuovo, del quale si fidava, nonostante tutto andasse contro di lui. Sherlock.
Appena arrivò a casa si chiuse in stanza, evitando le domande che sua madre gli stava rivolgendo da quando aveva sbattuto la porta d’ingresso. Bip.
Aprì gli occhi –non si ricordava nemmeno di averli chiusi– fissando il telefono abbandonato sul comodino vicino al letto. La scritta diceva ‘Un nuovo messaggio da Sherlock’: panico. Voleva leggerlo? Sì. Ne aveva la forza? No. Panico.
Afferrò il telefono e sbloccò la schermata, visualizzando il contenuto.
 
 
Non pensarlo. SH
 
 
John si era immaginato scuse, delle suppliche, magari, qualche frase di mezza promessa, una richiesta di aiuto. Il pragmatismo di Sherlock alle volte diventava insostenibile. Strizzò le palpebre prima di trovare il coraggio di rispondergli in maniera adeguata.
 
 
Cosa non dovrei pensare?
 
 
Che tu sia un diversivo. Non pensarlo. SH
 
 
Sapeva tutto, ovviamente. In nemmeno un’ora dall’accaduto aveva già riflettuto ed era arrivato a tutte le sue conclusione –perfettamente azzeccate. In fondo, gli voleva bene anche per quello –gli voleva bene? Dio, gli parlava da qualche settimana e già lo sentiva interamente suo, una proprietà privata.
 
 
Non l’ho pensato.
 
 
Invece sì. SH
 
 
Era velocissimo a scrivere, tanto che John si chiese se non immaginasse già cosa lui avrebbe risposto ai suoi messaggi e si portasse avanti scrivendone già un altro. Impossibile, forse. Giocherellò con il cellulare, pensando ad una riposta adeguata da scrivergli quando un altro bip lo distolse dai suoi ragionamenti.
 
 
Non era mia intenzione recarti alcun turbamento. Non volevo fare qualcosa per ferirti. SH
 
 
Era bravo con le parole, glielo doveva concedere. Era tutto un dico-non-dico che lo stava facendo impazzire.
 
 
L’hai usata? JW
 
 
No. Non voglio usarla. SH
 
 
Sei arrabbiato? SH
 
 
Era arrabbiato? No, non era arrabbiato, era solamente confuso. Un cervello di quella portata schiavo di qualcosa come la droga, non propriamente una bella cosa da pensare. Eppure non l’aveva presa e John si fidava.
 
 
Forse. JW
 
 
Allora domani non avrò nessuno a cui raccontare l’esperimento sulla professoressa di filosofia. SH
 
 
John sorrise al pensiero di cosa avesse potuto combinare alla loro professoressa. Era strano e senza senso, ma quel rapporto che si era instaurato tra loro era acciaio indistruttibile, un cordone che non riusciva a staccarsi mai.
 
 
Ti perdono solo se domani pomeriggio usciamo insieme. JW
 
 
Era stato azzardato? Forse, ma aveva voglia di passare un’intera giornata con lui senza campanelle o macchine che aspettavano fuori dal cancello.
 
 
Sono lusingato, ma non credo che potresti essere il mio tipo di ragazzo. SH
 
 
John sgranò gli occhi, a metà tra lo stupito e l’imbarazzato.
Stava scherzando, vero? Lui non voleva chiedergli…era solo un invito tra amici. Nulla di più. Stava già per rispondergli con qualche frase riparatoria quando ricevette un altro messaggio da parte di Sherlock –ma quanti soldi aveva nel cellulare?.
 
 
C’è un posto in cui mi piace andare per stare da solo, poco lontano dalla scuola. Potremmo andarci. SH
 
 
Basta che non sia un altro parco. JW
 
 
Si era pentito subito di averlo scritto. Era stato troppo crudo, ma ormai l’aveva inviato e non c’era più nulla da fare per poter riparare.
 
 
Non è nulla che possa intaccare la tua bolla di tranquillità. SH
 
 
Me lo merito. JW
 
 
Te lo meriti. SH
 
 
John sorrise, posizionandosi in posizione fetale, la mano che stringeva ancora il telefonino e l’altra sotto il cuscino. Si addormentò con la convinzione che, prima o poi, sarebbe stato capace di guarire Sherlock Holmes da qualsiasi suo problema.
In fondo, erano così giovani da poter cambiare anche il mondo.
 
 
 

«
Non dovresti stare con tipi come lui. »  John si girò un momento verso Mike, il suo compagno di banco nell’ora di fisica e uno dei pochi ragazzi con cui aveva instaurato un minimo di rapporto.
« Come scusa? »  Domandò John a bassa voce, cercando lo sguardo dell’altro e non trovandolo, preso com’era a ricopiare ogni cosa ci fosse scritta alla lavagna. « Quel ragazzo, non so come si chiami. Non dovresti stargli vicino, è strano. »  Strinse i pugni, cercando di controllare la rabbia che aveva incominciato a scorrere a fiotti nelle vene. Era per gente come lui che Sherlock era così solo. « Non sai niente di lui. »  Bisbigliò John, respirando forte. « Infatti, nessuno sa niente di lui. E’ un tipo che non dà freno alla lingua e si crede superiore all’intero genere umano, così dicono. Un antipatico di prima categoria. Non vorrei ti facesse finire in situazioni che non sapresti gestire… »  
Situazioni che non sapeva gestire? Avrebbe voluto ridere forte e poi spaccargli la faccia.
Il suo sogno fin da quando era piccolo era stato entrare nell’esercito e tenere in mano una pistola vera, per sentire l’adrenalina fin dentro al cervello. Sapeva perfettamente chi fosse e cosa volesse diventare e rimanere, Sherlock non era un teppistello senza intelligenza. Sherlock non era solo un banale ‘nessuno’. « Non credo che questi siano affari tuoi, Mike. Lui è mio amico. »  « E per lui è lo stesso? »  John aprì la bocca per parlare, ma non ne uscì alcun suono.
Erano amici –lo erano?. John si sentiva così legato alla sua sola presenza da cercarlo in mezzo ai corridoi o nelle cose più banali, come una lente d’ingrandimento stampata su un libro di scuola. Aveva incominciato a trovarlo nella curvature di certe linee o nella morbidezza e sfumatura di certi colori. Era in tutto. Era tutto e a John questo incominciava a mettere agitazione. Per lui era lo stesso? Non si sbilanciava mai a parlare di loro, di quello strano legame che si era legato. Sembrava tutto scienza, scienza, scienza, logica, logica, logica e mai nient’altro. Per John, invece, ormai era tutto Sherlock, Sherlock, Sherlock e mai nient’altro.
Alla fine delle lezioni, John aspettò Sherlock fuori dai cancelli di scuola, pronto per il solito giro pomeridiano che facevano da un mese pieno. Suono della campanella, passeggiata fino al campo dove l’aveva portato il pomeriggio seguente a quell’incidente –John voleva chiamarlo così– e poi ognuno a casa propria, un messaggio dietro l’altro fino a quando John si addormentava.
« Ehi! »  Sventolò la mano tra la folla, attirando l’attenzione di Sherlock che arrivò subito vicino a lui. « Sono riuscito a prendere altre fialette dal laboratorio di scienze! »  Disse, tutto emozionato, dando un leggero colpetto alla cartella, come se fosse un dolcissimo animaletto. « Sono stato attento, non preoccuparti. »  Continuò, dopo aver notato l’occhiata ammonitrice di John. Il preside era stato chiaro, qualche settimana prima, se avesse ancora scoperto Sherlock a rubare avrebbe dovuto prendere seri provvedimenti. John era stato molto spaventato per quella notizia, ma Sherlock sembrava essere la persona più tranquilla del mondo, dicendo qualcosa a proposito delle influenze di suo fratello Mycroft e sputando una sfilza di improperi contro di lui per tutta la giornata. « Sono contento per te. »  Gli disse, in realtà poco interessato alle sue attività illegali –sempre scienza, scienza, scienza. « Tu, invece? Qualcosa di importante da raccontare? »  Chiese Sherlock, una volta arrivati nel solito campo verde in cui erano soliti sedersi per tutto il pomeriggio, un plaid sopra il manto d’erba e la preghiera che non incominciasse a piovere, quasi mai esaudita –quello sembrava un giorno favorevole, però.
« Nulla che possa attirare la tua attenzione. »  Rispose, passandosi una mano sugli occhi stanchi.
« Hai litigato con qualcuno. »  John lo guardò, in attesa della sua spiegazione. « Quando sei arrabbiato o irritato ti si crea una particolare ruga qui. »  Disse, sfiorandogli la fronte, poco sopra il sopracciglio, prima di far sparire la mano come se fosse un’arma del delitto. « Già, mi hanno fatto arrabbiare. »  Sospirò, togliendo dal suo zaino un panino per poter pranzare. Provò ad offrirne un pezzo a Sherlock ma rifiutò.
« Chi? »  « Un compagno di fisica, uno che parla troppo, per i miei gusti. »  Sherlock stette un attimo in silenzio, prima di parlare. « Quindi questo ragazzo ha detto qualcosa di brutto nei miei confronti? »  « Non brutto! »  Replicò subito, cercando un qualche segno di delusione su quel viso, ma non trovandolo. « E’ stato soltanto…scortese, non è cattivo. »  Sherlock aveva lo sguardo perso tra i ciuffi d’erba tutt’intorno a lui, parlava senza guardarlo, una cascata di pensieri che gli uscivano dalla bocca e che lasciavano John pensieroso.
« Probabilmente è solo abbastanza idiota da dirti cose che già sai. Un giorno guarderai questo tuo amico e ti sembrerà un po’ anormale, oppure non riuscirai più a sopportare il suo modo di esporsi o qualcosa del genere. Sarai molto risentito con lui e penserai sul serio che si è comportato malissimo con te. Quando vi incontrerete di nuovo sarai freddo e scostante. Un vero peccato, perché non sarai più lo stesso. »  
John lo guardò in silenzio per qualche momento, sembrava così distante da tutto, irraggiungibile eppure ai suoi occhi, così desiderabile. In quel discorso vide altri protagonisti –quelli veri–, loro due, che erano così soli da essere inseparabili.
Lui con una zavorra di problemi e logica e John con una zavorra di cuore e sentimenti. Agli antipodi di un mondo uguale. John non ci pensò oltre, allungò la mano verso quella dell’altro, in una presa stretta che gli faceva sentire tutta la sua presenza. « Credo che qualunque comportamento avrà questo mio amico, se gli vorrò bene e lui ne vorrà a me allora niente potrà essere brutto o anormale. »  Sherlock ritornò a guardarlo, la stretta sulla mano di John che era inesistente, che non stringeva ma non spingeva via. « Noi siamo amici? »  Chiese ad un tratto John, la bocca che non voleva saperne di restare chiusa, ormai completamente alla deriva. Sherlock sembrò in difficoltà, aggrottando le sopracciglia in quel modo tutto suo. « Per te siamo amici? »  
Per me siamo molto di più, avrebbe voluto dire. Perché sentiva che Sherlock non era solo un amico, di quelli che ci esci il sabato pomeriggio per non restare a casa da solo, accettando lui si accettava tutto, un mondo pieno di nuovi colori e nuove esperienze, quel mondo che a John andava bene, così comodo e perfetto. « Sì, lo siamo. »  Disse John, stringendo la mano contro la sua.
Sperò che Sherlock non vedesse tutte le parole incastrate nella sua gola e dietro i suoi occhi, che non si accorgesse di quanto, in realtà, i suoi sentimenti stessero cambiando in un modo tutto pericoloso e per niente stabile. « Allora non vedo dove sia il problema. »  Sherlock appoggiò la testa sulle gambe incrociate di John, chiudendo gli occhi e rilassandosi –momenti più unici che rari, visto che la noia lo attanagliava spesso.
Il problema, pensò John mentre frenava l’impulso di toccargli i capelli, fallendo miseramente, era in quello che non era stato detto.
 
 
 

«
Se dovessi scegliere un oggetto da portare su un’isola deserta, quale porteresti? »
« Che idiozia, non ho nessuna intenzione di partire per un’isola deserta. »
« Sherlock, è una situazione ipotetica! »
« Beh, ipoteticamente parlando, allora, è impossibile che questo accada. »
John aveva fatto cadere l’argomento a favore dei suoi neuroni e della sua pazienza.
 
 
 

«
Hai mai pensato di trovarti una ragazza? »
« Perché dovrei farlo? Le ragazze sono stupide. »
« Non è vero, alcune sono generose e intelligenti e poi non puoi pensare di passare tutta la tua vita da solo! »
« La solitudine mi protegge. »
John sbuffò, farlo ragionare aveva lo stesso risultato di parlare con un muro: inutile e deludente.
« Io credo che queste tue frasi fatte non riescano a convincere nemmeno te. »  
« Beh, invece a me non importa di cosa credi tu! »
Sherlock si era girato, voltandogli le spalle come in uno dei suoi massimi livelli di infantilità. Stava quasi per alzarsi e andarsene  –insomma, era la prima volta che Sherlock lo invitava a casa sua e già stavano litigando– quando una mano bianca sgusciò fuori dal divano per prendere quella di John –ci era abituato ormai, a quei contatti, non doveva rabbrividire ogni volta, dannazione!. John si mise più comodo per terra, ai piedi del sofà, la mano stretta intorno a quella dell’altro, ancora con un adorabile broncio sul viso.
 
 
 

Due mesi e dodici giorni.

Non che John tenesse il conto del tempo che passava da quando lui e Sherlock erano diventati amici, stava solo camminando casualmente vicino al calendario e ci aveva dato un’occhiata.
Due mesi e dodici giorni passati a bisticciare –con John che gli andava a chiedere scusa anche quando non era colpa sua e uno Sherlock sempre meno chiuso–, osservare –Sherlock–, parlare, correre nei posti più disparati di Londra in modo da trovare i giusti elementi e le giuste postazioni per gli esperimenti di Sherlock.
Era strano il modo in cui John si sentiva, non propriamente come quando in prima superiore aveva avuto come amico un ragazzino dai capelli rossi e le lentiggini su tutta la faccia. Con Sherlock sembrava quasi impegnato in una relazione vera –il solo pensarci gli creava un buco in fondo allo stomaco–; era possessivo, come quando John si fermava un po’ troppo –a suo giudizio– a parlare con Sarah, la sua più vecchia amica, e Sherlock arrivava a portarlo letteralmente via, giudicandola senza nessun freno.
Era tutto strano, eppure piacevole, di quelle cose che non sai se ti piacciono o meno, ma che non scambieresti per nulla al mondo.
Quel giorno aveva dato buca a Sherlock, dicendo che era stanco e sua madre avrebbe dovuto portarlo in giro a fare spese. In realtà, non gli era sembrato neanche lontanamente triste per quel rifiuto improvviso e uno strano rumore di sottofondo aveva fatto insospettire John tanto da farlo sentire in colpa, seduto su una panchina insieme a Sarah.
Aveva bisogno di chiarezza e Sherlock lo confondeva come non mai. « Quindi, che cosa succede? » « Non lo so, è per questo che ti ho chiamato. »  « Da quanto mi hai raccontato lui ti piace. »  No, no, no, no, no, la sua mente aveva incominciato a negare ancora prima che quella frase fosse stata detta. L’imbarazzo lo colpì come una pugnalata. « Ma il problema è: a lui tu piaci? »  Sarah: sempre dritta al punto. John si leccò le labbra e poi si schiarì la voce.
« Gli piaccio, credo. »  Rispose, dopo una pausa infinita. « So che gli piaccio, non potrebbe essere altrimenti. Lui non fa avvicinare nessuno e io sono l’unico ad esserci riuscito. Lo ascolto senza giudicare negativamente la sua intelligenza e a lui questo piace. Quando lo guardo sento che nessun altro sarà mai come lui e di solito è gentile con me, ce ne stiamo insieme nei posti più isolati a chiacchierare di mille cose, ma… »
John abbassò gli occhi, cercando un appiglio nel legno graffiato della panchina. Difficile. « Certe volte, però, mi tratta quasi senza riguardo, adducendo alla scusa di annoiarsi e dell’ormai dilagante idiozia umana. »  Sarah alzò un sopracciglio e potevo leggere nei suoi occhi la domanda espressa da tutte le persone che conoscevo –come fai a sopportarlo?. « In quei momenti ho quasi paura di aver gettato il mio affetto e la mia fiducia nelle mani di uno a cui non importa, che li tratta come se fossero dei fiori appassiti con il solo scopo di lusingare la sua intelligenza, l’ornamento di poco conto in un giorno d’estate. »
« I giorni d’estate sono belli quanto lenti, John. Presi poco in considerazione quando vengono vissuti e rimpianti amaramente quando essi passano. Credo che ognuno abbia i suoi difetti, ma che tu ci tenga troppo a lui, ora come ora, anche solo per penderli in considerazione come veri e propri ostacoli. »   
John abbassò la testa, colto con le mani nel sacco. Era tutto troppo, troppo complicato e troppo inverosimile. Aveva sempre difeso i diritti di tutti, che fossero omossessuali o eterosessuali, perché era giusto così e lo sapeva bene, ma aveva anche preso in un certo qual modo le distanze, perché a lui erano sempre piaciute le ragazze e così sarebbe stato per sempre –o almeno credeva.
Poi era arrivato Sherlock e tutto aveva preso una piega diversa, non era la semplice questione di uomo o donna, era questione di sentimenti e logica, troppo separati anche solo per pensare di unirli. Aveva solo diciannove anni e non aveva mai pensato seriamente all’amore, eppure ora lo sentiva così vicino da poter allungare la mano e toccarlo. « Dovresti parlarne con lui, magari. O dovresti prendere il tuo spazio e lasciarlo andare. »  John sorrise amaramente, non prendendo nemmeno in considerazione le due opzioni.
Parlarne: cattivissima idea. Poteva già sentire il suo tono disgustato e la presa sarcastica che avrebbe preso la discussione, con John che si alzava per andarsene e Sherlock che non accennava a scusarsi –orgoglioso del cavolo.
Lasciarlo andare: ipotesi impensabile. Sentiva già una ferita fisica al solo pensarci –era tutto solo, come avrebbe potuto fargli quello? Come avrebbe potuto farsi questo?–, come tagliare quell’invisibile cordone ombelicale che li teneva uniti in modo così brutale da far rimanere cicatrici profonde per sempre.
Erano rimasti tutto il pomeriggio a parlare, cambiando discorso ogni cinque minuti e finendo in un vicolo cieco ogni volta. John che era troppo distratto anche solo per provare a intavolare una conversazione seria, continuava a passarsi il cellulare da una mano all’altra, sbloccare lo schermo e poi ribloccarlo, in un limbo senza uscita. Quando Sarah se ne andò via, con una leggera pacca sulla spalla e un ‘in bocca al lupo’ appena sussurato, John si decise a fare la sua mossa.
 
 
Ti devo parlare JW
 
 
Sperava solamente di poter fare scacco matto e vincere.
 
 
 

Aveva bisogno di zucchero o sarebbe svenuto, ne era sicuro. Sentiva le vertigini, la stretta allo stomaco, le mani che formicolavano e la voglia di vomitare non gli dava sosta. Ritornato al livello di un adolescente alle prime armi. Calmati, stupido John Watson!, continuava a ripetersi, le unghie che grattavano la corteccia dell’albero dietro di lui. Aveva dato appuntamento a Sherlock nel parco dove molto tempo prima l’aveva scovato a trafugare con quel James –gli aveva detto che non ci era più andato e gli aveva creduto, ancora. ‘Promesso?’ ‘Promesso.’–  ed ora stava morendo d’ansia.

Non gli aveva detto niente, aveva solo ripetuto che doveva parlargli –‘Domani a scuola?’ ‘No, subito’– ed ora si trovava da solo, attaccato al tronco di un albero come se fosse un àncora di salvezza mentre il sole calava. Lo sentì arrivare ancora prima di vederlo, il passo sicuro che calpestava il terreno e poi eccolo, davanti a lui, pulito e profumato con indosso una felpa –una felpa?. « Come mai ti sei messo quella? »  Gli chiese John, indicando l’indumento e deglutendo rumorosamente.
Non era propriamente un abbigliamento che lo rendeva tranquillo e meno eccitato –Dio, aveva bisogno di un controllo da qualche dottore bravo. « Avevo freddo e hai detto che era urgente, quindi ho preso la prima cosa che ho trovato in giro. C’è qualche problema? »  Sì, c’è, un grosso problema che si chiama Sherlock Holmes e che mi fa faticare a dormire la notte, pensò, spostando il peso da un piede all’altro e premendo ancora di più la schiena contro la corteccia. « No, nessun problema. »  
Sherlock si guardò intorno, non cogliendo il senso di quella situazione. « Allora perché mi hai fatto uscire? »  « Devo parlarti, te l’ho detto. »  Aveva paura di poter morire di crepacuore in quell’istante, con il cuore che premeva sotto cassa toracica in maniera inquietante –Cristo, smettila di fissarmi con quegli occhi!. Sherlock incrociò le braccia al petto, guardandolo, in attesa.
Okay, come poteva iniziare? Doveva essere cauto e attento. « Hai presente la prima volta che ci siamo incontrati, in laboratorio, e abbiamo incominciato a parlare? Non ti è sembrato di…essere destinati a incontrarci? »  Sherlock fece un mezzo passo indietro, stringendo la presa sulle sue braccia e restando in silenzio. Aveva capito di star entrando in un’area che non gli piaceva per niente. « Per me è stato così e…è stato strano, lo è tutt’ora. Insomma, siamo amici da tanto tempo ormai e… »
John abbassò lo sguardo, in difficoltà. Non riusciva a far uscire dalle labbra le parole che si era ripetuto in testa nell’attesa di Sherlock, poco prima. Non riusciva a ricordare più niente, completamente stordito dal tumulto di emozioni che lo stavano scuotendo. « Quindi…dico solo che, per me, questi mesi sono stati importanti. Molto importanti. »  Sherlock restava immobile, lo sguardo smarrito di chi non sa come gestire le cose in quel campo minato. Riuscì solo ad annuire e spostare lo sguardo tutt’intorno a loro. « Per te lo sono stati? »  Chiese esitante John, sentendo il legno del tronco conficcarsi sotto le unghie. Un dolore piacevole, in quel momento.
Sherlock sbuffò, lisciandosi la felpa e poi spostandosi un ricciolo dalla fronte. « Senti John, non so dove tu voglia arrivare, ma sappi che non sono bravo in queste cose e non ho nessuna voglia di impersonare il protagonista di un telefilm di quarta categoria. »  Perfetto, come rovinare tutto in una sola frase. Avrebbe potuto scrivere un libro e John avrebbe applaudito davanti a tanta bravura.
John si grattò la base della testa, facendo un paio di passi avanti e sorpassando Sherlock. « Sì, hai ragione, che stupidata. Scusa per averti fatto uscire di casa. »  Disse, girandosi di nuovo verso di lui e osservando la sua espressione insicura. « Ho detto qualcosa di sbagliato? »  Sì, hai parlato, avrebbe voluto rispondergli, ma stette in silenzio, accennando un sorriso falso. « No, tranquillo. »  John fece per andarsene di nuovo, quando la mano di Sherlock si strinse sul suo braccio. « Perché se ho detto qualcosa di male, non era mia intenzione. »  Gli disse, fissandolo dritto negli occhi.
John rimase lì, in silenzio, la gola secca e la lingua che non rispondeva più ai comandi. Così vicini da poter sentire quasi il respiro dell’altro e John non ci pensò più di tanto, avvicinando di più il viso a quello di Sherlock, un ultimo sguardo prima di chiudere gli occhi e sfiorargli il naso con il proprio e poi la bocca con la propria, in un bacio a labbra strette. John non fece nient’altro se non premere le sue labbra contro quelle di Sherlock, assaporandone la morbidezza e la consistenza. Buono e perfetto.
John si scostò un poco, appoggiando la fronte contro la sua. Socchiuse gli occhi e sorrise, vedendo lo sguardo sgranato di Sherlock. « Era esattamente questo che volevo dirti. »  Disse, cercando di stemperare lo shock dell’altro. « E’ stato.. »  Incominciò Sherlock, sbuffando aria calda sulla bocca secca di John.
Provò a immaginare quale aggettivo Sherlock avrebbe potuto usare per completare la frase –bellissimo? Fantastico? Sorprendente?– e il suo ego sembrò sollevarsi e ingigantirsi.
« …disgustoso. »  Disgustoso? Si sgonfiò del tutto, staccando la fronte da quella di Sherlock. Nessuno aveva mai definito disgustoso il suo modo di baciare –era un bacio a stampo, che cosa c’era da ritenere pessimo?. Sherlock si mise a ridere per il broncio di John, creandone uno ancora più evidente. « Fallo di nuovo.** »  Proruppe ad un tratto, spiazzando di nuovo John.
Un vulcano di sorprese, sempre attivo e sempre pronto a cambiare le carte in tavola. Aggrottò la fronte, confuso dal fatto che avesse definito il loro primo bacio una schifezza e subito dopo averlo invitato a provarci di nuovo. Magari aveva fumato qualcosa che gli aveva fatto male al cervello.
« Come scusa? »  Chiese, cercando una spiegazione plausibile a quel cambio di rotta. « Andiamo, hai capito! »  John gli prese il viso tra le mani, accarezzando con i pollici gli zigomi alti per poi concentrarsi esclusivamente su quelle labbra dalla forma strana che desiderava baciare più di ogni altra cosa al mondo.
Lo baciò a lungo, si soffermò ad assaggiare ogni sapore, gli morse piacevolmente il labbro inferiore e gli passò timidamente la lingua sul contorno dell’arco di cupido e poi dentro la bocca, in un piacevole scappare e cercarsi che gli dava alla testa. Sherlock lo guardò e sorrise –bello–, dopo ogni bacio gliene dava uno più piccolo e più gentile sulla labbra, come una firma. « Credo che… »  Disse ad un tratto John, staccandosi malvolentieri dalla bocca dell’altro. « Credo che valga la pena fare tutte le cose normali che le persone comuni fanno, giusto? »  Domandò, lasciandogli una nuova carezza sulle labbra e affondando un mano nei suoi riccioli scuri –se il paradiso fosse esistito, quello sarebbe stato il suo paradiso. « Solo con determinate persone e in determinate situazioni. »  Borbottò pigramente, lasciandosi coccolare dalle carezze di John. « Pensavo in una tua reazione diversa, in realtà. » « Per quale motivo? »  John inarcò le sopracciglia, accigliato. Gliene avrebbe potuto dare un centinaio, di motivazioni. « Beh, tu hai sempre detto che tutti i sentimenti sono una debolezza, che si trovano dalla parte di chi perde… »  Sherlock appoggiò la testa sulla spalla di John, le ciglia che gli creavano dei brividi sottili sul collo. « Solo gli idioti non cambiano idea. »  John rise, stringendolo tra le braccia in una presa mai invasiva, ma protettiva. « Riuscirai sempre a stupirmi, Sherlock Holmes. »  Lo sentì sorridere sulla sua pelle e capì che da quel momento in poi non avrebbe voluto sentire altra sensazione se non quella che Sherlock, il suo Sherlock, gli faceva provare semplicemente avendolo lì, con lui. Semplicemente avendolo. In un paio di mesi aveva capovolto tutto il suo mondo, messo in discussione i suoi ideali e trasformato i suoi desideri, era diventato tutte le fragilità di John, in quel miscuglio che gli dava forza e gliene toglieva altra.
A John piaceva pensare che quel loro legame, che si era instaurato così piano e che era diventato così forte,  potesse sfidare sia il tempo che la logica, un legame che era semplicemente destinato ad essere, così bello e puro, senza intralci.
Gli avrebbe voluto bene fino a quando non avesse ricevuto il diploma, fino a quando non avrebbe trovato un lavoro che gli sarebbe piaciuto veramente, fino a quando non avrebbe preso il suo primo appartamento e non avrebbe visto la sua prima ruga e non lo pensava perché era così, perché era l’inizio di una storia e ciò stava a significare tanti sogni e pochi fatti, ma perché era vero, lo sentiva inciso in tutte le sue ossa e in tutti i suoi tendini. John Watson era stato destinato a conoscere Sherlock Holmes in una normale scuola, destinato a  vederlo tutte le mattine in cortile, spiarlo e sognarlo, così solo e impassibile. E bello, non era mai stato brutto o discreto, solo bello.
John si sentiva così privilegiato per averlo potuto guardare da vicino, per poterci respirare addosso, che avrebbe fatto qualsiasi cosa per non farlo allontanare mai. Anche chiedere scusa dopo una litigata, anche stringerlo così forte da fargli mancare il respiro, nonostante lui dicesse di non averne bisogno.
Sherlock era stato per lui come un sogno di forma in giorni di pensiero.
Una luce che non si sarebbe mai spenta, un fuoco che avrebbe sempre arso, implacabile, insaziabile.
 
 
 

«
Se dovessi scegliere un oggetto da portare su un’isola deserta, quale porteresti? »
« Che idiozia, non ho nessuna intenzione di partire per un’isola deserta. »
« Sherlock, è una situazione ipotetica! »
« Beh, ipoteticamente parlando, allora, è impossibile che questo accada. »  
« Dai, Sherlock! Usa un po’ di immaginazione. »
« Porterei te. »
« Io non sono un oggetto, non vale. »
« O porto te o non ci vado. »
Aveva borbottato Sherlock, finendo di disegnare un diagramma sul foglio. John aveva sorriso e gli aveva lasciato un bacio sui capelli e uno sulla tempia.
« Dopo un anno sei ancora il solito, Sherlock Holmes. »
« Sarebbe stupido pensare il contrario. »
« E non sia mai che qualcosa di stupido ti intacchi, intelligentone. »
« Esattamente. John, ho trovato il mio lavoro ideale! »
Disse Sherlock con una punta di orgoglio, mostrandogli un foglio a righe interamente bianco, con scritte solamente due parole.
« Cosa significa consulente investigativo? »
Sherlock sbuffò, irritato dall’ignoranza giustificata di John.
« Quando la polizia non saprebbe risolvere i casi di strani omicidi, allora potrebbero venire da me. Sarei l’unico al mondo e potrei andare a caccia di serial killer ogni giorno. »
John lo guardò perplesso. Non voleva uccidere la sua euforia, ma quell’idea gli sembrava un po’ troppo…stramba.
« E tu potresti essere il mio blogger e il mio assistente. Sì, sarà così. »  
John annuì poco convinto, rimanendo ad osservare Sherlock che scriveva fittamente sul suo quaderno mentre ciarlava di cose senza senso, di blog e di problemi, con la testa appoggiata sulla coscia di John e gli occhi luminosi.
A John andava bene così, andavano bene le promesse di un futuro insieme, tutte alla Sherlock, andavano bene i musi lunghi quando si annoiava e i baci a stampo.
A John andava bene tutto, davvero. A John andava bene tutto, fino alla fine. Sarebbe andato tutto bene. Un forse, un possibile amore, un eccezione degli occhi, loro come un puntino in mezzo ad un mare di tanti mai più.
 
 
 

In quel momento c’erano 6.470.818.671 di persone nel mondo. Qualcuno stava fuggendo spaventato. Qualcuno stava tornando a casa. Qualcuno diceva bugie per riuscire a superare la giornata. Qualcun'altro stava affrontando la verità.
 Alcuni erano uomini cattivi che facevano la guerra ai buoni. Altri erano uomini buoni che lottavano contro il male. Sei miliardi di persone nel mondo. Sei miliardi di anime. E qualche volta tutto quello di cui si aveva bisogno era solo un’anima***, quella speciale. John Watson aveva finalmente trovato la sua, insieme a Sherlock Holmes.

 

Note:

* Siccome sono una persona coltissima (??) sono andata a cercare informazioni riguardanti gli istituti scolastici nel Regno Unito e la Grammar School sarebbe un nostro liceo. *badass mode on*

** Presa dalla fantastica ReaperSun – French Kiss.

*** Da One Tree Hill che sforna sempre splendide citazioni.

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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