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Autore: n u m b    28/08/2012    0 recensioni
“Lui mi guardò indignato e per tutta risposta mi mandò un’occhiataccia e raccolse il suo soprabito.
- Allora? - dissi io battendo il piede scalza con le braccia conserte.
- Holden - bofonchiò lui tra i denti, - Holden Caulfield - rincarò la dose intento a raccogliere portafogli e Dio solo sa cos’altro.”

Avete mai letto “The Catcher in the Rye” (o in italiano, “Il giovane Holden”) di Jerome David Salinger? Questo sorta di storia ha come protagonisti Holden appunto, un adolescente sedicenne abbastanza sensibile che non sopporta il conformismo e le idee del tempo in cui è vissuto, ergo il 20° secolo e Nancie, una quindicenne ribelle e sconsiderata. Che succederebbe se questi due s’incontrassero, magari di notte, in giro per le strade di una New York gelida e illuminata dalle luci di Natale? Grazie per l’attenzione. Se vi è piaciuta la storia gradirei un commento, anche perché non sono sicura di volerla pubblicare tutta ~
PS. Scusate ma per svariati problemi ho dovuto ri-pubblicarla.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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-Smettila di fare la capricciosa!
Mi intimò lui guardandomi male. Evidentemente non era proprio felice di portarmi con lui. Pazienza.
- Muoviti, non mi va di perdere tempo. Tra un po’ sarà l’ora in cui le prime persone si iniziano ad alzare per andare a lavoro o per tornare dopo una notte passata a sbronzarsi. Non mi va di incontrare qualcuno in queste condizioni.
Mi indicai. Cristo Iddio ero veramente in uno stato pietoso. Mi facevano anche male i piedi poi, oltre alla testa: camminare sull’asfalto scalza non è proprio l’ideale.
- Non sei una bambina di cinque anni, non comportarti come tale!
Rispose interrompendo il corso dei miei pensieri. Io sbuffai e me ne andai sul marciapiede opposto, in direzione di Central Park. Non era molto lontano.
New York quella notte era silenziosa più che mai. Forse era così quieta tutte le notti, non potevo saperlo, non ero mai stata fuori fino a quell’ora. Non si sentiva un fiato. Le uniche cose che facevano ‘rumore’, che non erano statiche come il resto del paesaggio artificiale, erano le luci intermittenti arrotolate lungo le ringhiere dei balconi. Luci colorate che a me mettevano una tristezza infinita. Era proprio Natale. Alcune case poi avevano nei loro cortili degli abeti, chi grande chi piccolo, tutti agghindati e brillanti. Sospirai e vedendo il cancello di Central Park mi affrettai. Sfortunatamente, era chiuso. Che rottura,  mi sono spezzata i piedi per trovare il cancello chiuso? Mi girai a cercare Holden, non lo vedevo da nessuna parte, quando sentii un tonfo dall’altra parte del cancello. Mi girai di scatto e lo scorsi di fronte a me, oltre le sbarre della cancellata, che mi sorrideva con aria furba.
- Allora? Ti decidi a venire?
Io grugnii per tutta risposta e provai ad arrampicarmi sul muretto lì vicino. Con quella sorta di tubino non era la cosa più semplice del mondo! Arrivata in cima all’alto recinto, mi sedetti per riprendere fiato. Holden mi porse la mano con aria di superiorità. Io mi buttai di sotto rifiutando il suo aiuto e, spolverandomi le ginocchia, lo guardai con aria di scherno.
- Posso farcela anche da sola eh.
Lui alzò le spalle e rimase a guardarmi. Io mi diressi verso la panchina e mi distesi, chiudendo gli occhi. Silenzio. Non sentivo nulla. Di giorno New York e specialmente Central Park erano caotici come un manicomio, di notte invece avevi la pace più completa. Central Park di giorno è popolato da mamme con i passeggini, bambini, adulti che passeggiano, vecchietti che si rilassano, piccioni. Di giorno si sentono mamme che rimproverano i loro pargoli, poppanti che piangono, il chiacchiericcio continuo degli adulti, gli schiamazzi dei bambini che giocano e il rumore della macchine che corrono veloci che arriva dalla strada…Quella notte non si sentiva nulla di tutto ciò. Si sentiva solo il mio respiro, il vento che frusciava tra le foglie e una cicala in lontananza. Ah, e il respiro dello sconosciuto che mi portavo dietro.
Sentii dei passi avvicinarsi a mee poi un “Nancie” mormorato.  
- Ehi, Nancie, sei sveglia? Mi senti?! Ou!
Delle mani mi presero le spalle e mi riscossero e io aprii gli occhi di scatto e mi misi seduta con una faccia sconvolta.
- Sta fermo, si può sapere che ti prende? Stavo solo ascoltando i rumori, uff.
- Se ti addormenti morirai assiderata, con il freddo che fa.
- Non stavo dormendo! E poi per te non dovrebbe essere una grande perdita la mia assenza!
- Infatti, ma sai com’è, preferisco avere un cadavere in meno sulla coscienza! - Fece sarcastico lui cercando qualcosa nel cappotto. Si frugò nelle tasche per poi ricacciare soddisfatto un pacchetto di sigarette e un accendino. Se ne mise una in bocca e se la accese. Quando ebbe fatto mi porse il pacchetto di sigarette offrendomene una.
- Non so fumare.
Lui parve sorpreso di sentirmi dire ciò. D’accordo, no non era vero che non sapevo fumare. Avevo imparato qualche mese fa, con i sigari di mio padre. Non so perché ma mi ritrovo a mentire le persone, l’ho detto, io sono malata nella testa.
- Insegnami, dai!
Lui scosse la testa contrariato.
- Sei pazza, no! Non sono un insegnante né ho la pazienza, quindi no.
- Eddaaaiii ti prego, imparo in fretta io! Daii!- iniziai a pregarlo tirandogli il cappotto.
- Sta ferma. No. Non ho voglia.
Io grugnii per tutta risposta e gli diedi le spalle alzandomi.
- E poi, è l’ultima sigaretta.
Come no, avevo visto il pacchetto pieno. Come no. E poi ne aveva sicuramente un altro da qualche parte nel cappotto.
Central Park è un parco abnorme diviso fondamentalmente in tre da tre grandi viali principali. C’è un lago in fondo, un lago abbastanza grande dove di solito ci sono delle anatre quando fa più caldo. I bambini ci scorrazzano sempre vicino, anche io lo facevo da piccola, dietro gli urli di mia mamma che mi diceva “Torna subito qui! Se corri finirai per cadere dentro l’acqua!”. Non l’ascoltavo mai. No, non ero la figlia che avevano sempre desiderato, quella buona che dà ascolto ai genitori, che sogna di sposarsi eccetera. Io sono la figlia sbagliata. Mio fratello no invece: è quello perfetto, quello ben voluto. Il perfetto equilibrio tra forza e intelligenza. Boh, probabilmente sogna di diventare presidente o qualcosa così. Ma, se devo dirla tutta, non me ne può fregar di meno.
Mi ‘destai’ dai miei pensieri. O quella notte ero particolarmente andata di testa o l’alcool di qualche ora prima stava continuando ad agire. Holden aveva finito di fumare la sua sigaretta, aveva ancora del fumo che gli usciva dalla bocca. Fece l’ultimo tiro e si girò a guardarmi. Io tornai a sedermi, in silenzio. Dopo due/tre minuti, con la voce roca per il fumo, mi sussurrò un po’ imbarazzato: - Senti, hai presente il lago là in fondo? Sì quello dove ci stanno sempre i bambini, hai presente? Sai che ci sono le anitre no?
Annuii. Certo che lo sapevo, conoscevo Central Park come casa mia!
- Ecco, tu sai dove vanno a finire d’inverno? Cioè voglio dire: d’inverno non le vedo mai e da qualche parte devono essere andate no?
Io lo guardai scioccata. Sì, era decisamente matto nella testa.
- Cosa ne posso sapere io? Migrano forse, boh!
Mi alzai e lo presi per il polso, la prima volta che lo toccavo da quando ci eravamo conosciuti, senza che cadessimo addosso l’uno a l’altro.
- Andiamo a vedere.
Lui si lasciò trascinare senza troppa resistenza. Percorremmo il viale di sinistra, tra i faggi e i cipressi.
Quando arrivammo al lago, io mi sedetti sull’erba fredda e umida, bagnata di rugiada. Mi passò un brivido di freddo lungo la schiena. Amavo il freddo.
- Allora? Vedi le tue anitre?
Lui guardò il lago e non vide nulla.
- No. Boh. Vorrei proprio sapere dove vanno a finire quei maledetti animali.
Io rimasi in silenzio, contemplando il lago, che probabilmente con il freddo che tra qualche giorno sarebbe arrivato, sarebbe ghiacciato e le persone ne avrebbero approfittato per ricacciare pattini e attrezzature varie. Avrei potuto farci un giro anche io magari, domani o dopodomani.
- Senti, possiamo andare all’albergo? Io non ce la faccio più, ho un sonno della miseria.
Io mi alzai barcollando un po’ e constatai che iniziavo a sentire anche io la stanchezza. Ci dirigemmo fuori da Central Park in totale silenzio, percorrendo la strada che ci aveva portato fino a lì all’inverso e girando una volta a destra una volta a sinistra seguendo vari viottoli. Evidentemente mi stava portando in periferia. 
Io mi trascinavo sulle gambe malferme, non riuscendo nemmeno più a tenere le spalle dritte. Sentivo dolore dappertutto, credevo che mi sarei accasciata da qualche parte lì. Mi avvicinai un po’ a Holden, nel caso fossi svenuta avrei potuto aggrapparmi a lui.
Holden probabilmente aveva notato in che modo la stanchezza mi era piombata addosso e, forse per rassicurarmi, aveva detto:
- Non manca molto. E’ l’edificio grigio laggiù.
Indicò un edificio alto, sei o sette piani, grigio, macchiato dall’umidità. Entrammo nel motel: la hall era pervasa da un’atmosfera di squallore generale. Era stata arredata tentando di farla assomigliare a una di quelle hall dei grandi alberghi. Il pavimento era di legno, però c’era steso all’interno della stanza un tappetto arancione, ridotto malaccio: era macchiato e consumato a causa di tutte le persone che ci avevano camminato sopra. Al centro del tappeto c’era un tavolinetto basso, di legno, con appoggiati i principali quotidiani, come il Times eccetera eccetera. Non me ne intendevo molto di giornali. Disposte a cerchio attorno al tavolino c’erano delle poltroncine di finta pelle, strappata in alcuni punti. Appena entrata mi buttai su una di quelle poltroncine, riprendendo un po’ di colore. Nonostante l’albergo era di pessima qualità, là dentro c’era un bel calduccio, quindi a me andava bene. Le guance ripresero un po’ colore, il fiato non veniva più fuori sotto forma di condensa. Lanciai uno sguardo a Holden, che era fermo al bancone a chiedere la chiave al receptionist, un uomo mingherlino con le guance scavate e un buffo cappellino da facchino in testa, sulla trentina. Probabilmente in quel minuscolo albergo doveva fare tutto lui, e aveva pochi dipendenti. Quest’uomo mi lanciava ogni tanto sguardi straniti, sul momento non capii perché, poi però mi ricordai com’ero conciata.
Finalmente il semi-sconosciuto che aveva gentilmente accettato di ospitarmi, prese la chiave, io mi alzai e ci dirigemmo verso le scale e l’ascensore.
- Scale o ascensore?
- Ascensore - risposi io in un flebile sussurro. Quando arrivò, mi ci buttai letteralmente dentro, crollando a terra, seduta su quel pavimento lurido. Mi girava la testa, ero debole. Mi sentivo la fronte calda ma tremavo come avessi freddo,  non riuscivo a tenere gli occhi aperti. E anche se li aprivo, non vedevo nulla…Tutto nero. Mi abbandonai a me stessa sentendo da lontano Holden che mi chiamava, dicendo che l’ascensore era arrivato. Mi prese per un piede e una mano, mi trascinò fuori da quella cabina e, strusciandomi sulla moquette, mi fece arrivare alla sua porta. Sentii la chiave nella serratura, quest’ultima che scattava. Poi, persi il contatto con il  pavimento, due braccia forti mi cingevano e mi sollevavano, lasciandomi le gambe penzoloni e la testa abbandonata all’indietro. Sentii profumo di menta e di fumo, e un lieve odore di vodka. Era il profumo di Holden? Non riuscivo nemmeno più a capirlo. Fui poggiata su qualcosa di morbido e allora, la notte mi trascinò con sé nel baratro nero che viene definito sonno. 

 

Eccomi di nuovo, dopo aver riscritto per la ventordicesima volta il terzo capitolo. Word non me l'aveva salvato e quindi ho dovuto riscriverlo più e più volte perché non mi convinceva, però adesso devo dire che mi piace e che mi è uscito abbastanza bene. Spero mi perdonerete vari errori di battitura ma non ho proprio vogli di ricontrollare *muore*
Il quarto capitolo arriverà presto, probabilmente domani se non stasera stessa. Più scrivo e più mi vengono idee! Beeene, fatemi sapere se vi è piaciuto, vi sarei davvero grata se mi lasciaste una recensione. Grazie mille per aver letto, a presto

n u m b

  
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