Serie TV > Glee
Ricorda la storia  |       
Autore: Lusio    29/08/2012    9 recensioni
A diciannove anni Quinn Lucy Fabray continuava a credere che tutto le fosse concesso, ma con le dovute conseguenze.
Noah Puckerman (ma preferiva essere chiamato Puck) voleva dare a sua figlia la vita migliore che potesse offrirle.
I Fabray volevano il loro posto nel mondo.
Gli Hummel-Hudson volevano scoprire il mondo.
Sue Sylvester voleva cambiare il mondo.
Dave Karofsky voleva una vita che fosse solo sua.
Rachel, Mercedes e Sugar avevano i loro sogni e le loro aspirazioni.
Mike e Tina volevano sposarsi nella terra delle grandi opportunità.
Blaine voleva raggiungere suo fratello.
Beth voleva stare in braccio a mamma Shelby.
Vite diverse che si incontrano in un unico destino. Un passato che ritorna. Una splendida nave che solca l'oceano. Un enorme blocco di ghiaccio alla deriva. Una data fatale.
14 Aprile 1912
Genere: Drammatico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Quinn Fabray, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Vita passata

 

Una ciocca bionda che cadeva sulla sua guancia; un movimento semplice e molto quotidiano per Quinn Lucy Fabray ma che era capace di riportarla indietro di quattro anni, quando credeva che tutto le fosse concesso per la sua estrazione sociale.

Sì, Quinn Lucy Fabray a quindici anni credeva che tutto le fosse concesso senza conseguenze.

Ma le cose sono fatte per cambiare; ne aveva la prova ogni volta che si immergeva nella fredda vasca da bagno e la fine sottoveste bianca le aderiva sul corpo mostrando i suoi fianchi precocemente sformati. Il motivo per il quale chiedeva alla sua cameriera personale di lasciarla da sola in quei momenti.

Togliendo la forcina liberava, una ad una, le altre ciocche di capelli che le accarezzavano morbidamente l’altra guancia, le spalle, la schiena; quella prima volta era stato Noah (ma preferiva essere chiamato Puck) a scioglierle i capelli.

Era stato un errore, dall’inizio alla fine. Aveva perduto la sua virtù, il rispetto di suo padre e di sua madre, era stata ad un passo dal perdere la sua reputazione davanti al mondo. E aveva perso… non poteva dirlo con certezza visto che non era mai stata sua; no, lo era stata. Per nove mesi nel suo grembo; sua figlia. Aveva perduto anche sua figlia.

Solo il tempo di partorirla, di prenderla in braccio un solo istante e le era stata portata via. Il signor Fabray l’aveva data al padre, con una piccola somma di soldi affinché tenesse la bocca chiusa e non si facesse mai più vedere. Puck prese con sé la bambina e rifiutò i soldi. E fu di parola.

Non si fece mai più vedere ma ciò non gli impedì di ricordare la sua esistenza e quella della bambina grazie alle lettere che arrivavano clandestinamente a Quinn.

Mediante queste missive lei sapeva che lì, da qualche parte, aveva una figlia, identica a lei fino al più piccolo neo e che si chiamava Beth.

Ma, alla fine, anche questo contatto fu troncato; il suo padre-padrone scoprì le lettere scritte da una mano più abituata al lavoro manuale che alla scrittura e, dopo aver cancellato ogni possibile contatto tra loro, costrinse la figlia a bruciarle tutte, una dopo l’altra, lasciandole solo il ricordo di qualche frase e il pensiero di quella creatura che cresceva senza di lei, con un padre e con una donna che la stava tirando su come una propria figlia.

Comunque, Quinn era troppo intelligente per credere che la vita finisse a quel modo e che lei avrebbe dovuto viverla come la protagonista di uno di quei melensi e stucchevoli romanzetti moralistici.

Adesso, a diciannove anni, Quinn Lucy Fabray continuava a credere che tutto le fosse concesso, ma con le dovute conseguenze.

In questo aveva preso da quel padre che non riusciva ad amare, quell’uomo che aveva come unico scopo quello di farsi largo tra la buona società; ma non ne aveva possibilità in quel paesino di provincia dove il massimo a cui si poteva aspirare era un invito ad un ricevimento del sindaco. Il luogo dove poter trovare la propria occasione si trovava al di là dell’oceano: l’America. La patria dei ricchi, dei magnati delle ferrovie, degli Astor, dei Rockefeller.

Sarebbero partiti l’indomani; suo padre aveva speso molti soldi per poter acquistare tre biglietti di prima classe di un nuovo transatlantico che partiva per il suo viaggio inaugurale, diretto in America; l’aveva scelto apposta perché aveva saputo che un sacco di persone importanti si sarebbero imbarcate su quella stessa nave. Quinn non ne ricordava il nome e, francamente, non le interessava granché; riusciva solo a pensare che quel viaggio avrebbe segnato il definitivo distacco da quella vita passata che le pesava sul cuore come un macigno. Finché viveva lì, nel Vecchio Continente, era sicura di toccare la stessa terra, di guardare lo stesso cielo di quella bambina. Anche quel poco stava per esserle tolto.

Sarebbe stata pronta a giurare che anche questo rientrava negli intenti di suo padre.

Una nuova vita oltreoceano. Ma forse, in fondo, sarebbe stata una buona cosa, al di là della “scalata sociale” della sua famiglia; poteva lasciarsi alle spalle gli errori passati e… che assurdità. Come se avesse potuto cancellare quelle “azioni” (non si sarebbe mai abbassata a chiamarle “errori”) con la stessa facilità con la quale districava i nodi nei suoi capelli con la spazzola. Almeno avrebbe voluto districare l’intrico di pensieri che le turbinavano in testa.

- Quinn, tesoro, va’ a dormire. Domani dobbiamo alzarci presto per non perdere l’imbarco.

Non lo avrebbe mai ammesso, ma la voce di sua madre, che fece capolino sull’uscio della sua stanza, le giunse come un salvagente in mezzo ad una tempesta.

- Sì, mamma. Appena avrò finito di sistemarmi – disse Quinn con il suo caratteristico tono distaccato.

- Oh, tesoro, sorridi un poco! – la pregò sua madre dolcemente – Tuo padre ci da la possibilità di andare in America sul Titanic, la “nave inaffondabile”, gomito a gomito con la buona società. Cosa possiamo chiedere di più?

“Tante cose” pensò la ragazza continuando a spazzolare i capelli. L’unica cosa che ci aveva guadagnato da quel brevissimo scambio di parole era stato l’aver ricordato il nome di quella nave. “Titanic”. Che pacchianeria!

 

* * *

 

A casa Hummel-Hudson si respirava un’aria di festa; certe risate che si sentivano solo a Natale. E c’era un buon motivo per festeggiare: quante volte la famiglia di un carrozziere riusciva ad acquistare biglietti per il viaggio inaugurale di un transatlantico diretto in America? E di prima classe per giunta! Certe cose era raro che accadessero in Inghilterra, dove la staticità classista era una tradizione.

Nessuno dei quattro membri della famiglia Hummel-Hudson aveva idea di quello che avrebbero fatto in quel nuovo continente; certamente non rientrava nei loro piani quello di trasferirsi lì in pianta stabile.

Burt, il capofamiglia, aveva la sua azienda di riparazione di automobili da dirigere mentre Carole, la sua seconda moglie, aveva il suo impegno nell’Esercito della Salvezza che la teneva occupata per molti mesi all’anno.

Forse i due figli; per loro il discorso poteva essere diverso. In genere, nei giovani è meno forte quell’attaccamento alla casa natale che contraddistingue i più anziani. A conferma di ciò, Finn, il figlio di Carole, già fantasticava su quello che avrebbe potuto fare nel Nuovo Continente, la fortuna che lo aspettava in quel reticolo di strade e in quella foresta di palazzi, dove i poveri diventavano ricchi in pochi anni. Già si vedeva spaparanzato dietro una scrivania a dirigere uno dei tanti imperi di un qualche metallo importante, o anche solo di qualche prodotto alimentare, con una bellissima moglie ed una schiera di figli, ai quali avrebbe lasciato una ricchissima eredità.

Anche Kurt, il figlio di Burt, sognava in grande anche se in modo diverso dal fratellastro; tra le sue aspirazioni c’erano il teatro, il cinematografo, la recitazione. Basti sapere che era sbiancato di colpo quando aveva saputo che anche l’attrice Dorothy Gibson* avrebbe viaggiato sulla loro stessa nave. Ma il ragazzo, a differenza di Finn, viveva il tutto in maniera più riservata essendo chiuso per natura. In altre circostanze, magari in un'altra vita, sarebbe potuto essere un ragazzo esuberante che non si faceva problemi nel farsi notare dagli altri ma il mondo in cui viveva lo bloccava in una morsa di paura del giudizio altrui; anche per questo sognava di recitare. La recitazione era un modo di esprimersi al di fuori della realtà.

E questo era il mosaico della famiglia Hummel-Hudson il 9 Aprile 1912, la sera prima di imbarcarsi sul Titanic.

- Kurt, ma riesci a crederci? – chiese Finn, entusiasta, lasciandosi cadere su letto dove il suo fratellastro stava sistemando le camicie e i gilet che si sarebbe portati per il viaggio – Andremo in America, in mezzo alle persone che contano.

- Finn, diamine, le mie camicie! – esclamò Kurt, raccogliendo in fretta ma con cura i suoi capi d’abbigliamento – E poi, scusa, che significa “le persone che contano”? Forse noi non siamo come loro in tutto, a parte il conto in banca?

- Dai, sai benissimo cosa intendo – si difese, goffamente, Finn – Ma l’America! Immagina quante cose si possono fare lì.

- Non andiamo a viverci – replicò Kurt, con una nota di rimpianto, ritornando a sistemare i vestiti in valigia.

- Sarebbe bello, però.

Kurt affondò di più il viso nella montagna di panni che straripava dalla sua valigia; non avrebbe dato al suo fratellastro la soddisfazione di vederlo sorridere malinconicamente mentre le guance si tingevano di un tenue rossore.

- Pensi mai a come sarebbe la tua vita lontano da qui? – continuò Finn con più serietà.

- Non so. Vorrei solo che fosse diversa.

Le parole si nutrivano di pensieri; i pensieri avevano bisogno di speranza. E col cuore colmo di speranza, Kurt terminò di preparare la sua valigia.

 

* * *

 

Sarebbe venuto, prima o poi, il giorno in cui il mondo avrebbe conosciuto la tenacia e la tempra di ferro di Sue Sylvester; una cosa che sapevano con certezza sia i suoi conoscenti che lei stessa. Ma, intanto, solo la sua casa di Londra conosceva queste sue doti.

Alcuni soprammobili e due finestre non erano sopravvissuti a ciò quando Sue aveva saputo che non c’erano altri posti d’imbarco disponibili per l’America; l’unico era per il Titanic della White Star Line e lo stravolgimento dei suoi piani non era stato preso per niente bene.

- “La nave inaffondabile” – lesse, disgustata, sul quotidiano che si era fatto portare dal suo maggiordomo quella mattina per informarsi su quella nave “così straordinaria” – Ma per favore! Nessuna donna ha partecipato alla sua costruzione.

Sì, è il caso di aggiungere che Sue era un’accesa femminista; aveva militato tra le suffragette di Emmeline Pankhurst**. Si può quindi capire quanto mal sopportasse certi uomini e la loro arroganza; in questa categoria includeva, naturalmente, i ricchi e i potenti. I proprietari della White Star Line come gli Ismay*** non facevano eccezione.

- Aspettate solo che io riesca ad arrivare in America, poi vedremo chi è veramente in grado si dirigere un’azienda di qualunque tipo – disse gettando via il giornale – “Nave inaffondabile” dei miei stivali! Riuscirei ad affondarla io stessa con un colpo di fionda.

 

* * *

 

- Dave, figliolo, questa non è vita.

In quella stanza singola, di uno dei quartieri poveri dove si rifugiavano gli stranieri e gli ebrei e i cattolici, a parte l’umidità, si sentiva solo quella frase ripetuta in continuazione.

- Dormi papà.

Dave Karofsky non poteva fare altro che rispondere allo stesso modo, con lo stesso tono di voce paziente e monocorde, raggomitolato su se stesso sul suo scomodo materasso di paglia, con uno spillone d’umidità gelida piantato nella nuca, con gli occhi spalancati, fissi contro il muro per non incontrare lo sguardo compassionevole  di suo padre, bloccato nel “letto migliore” della loro stanza, fino ai suoi ultimi giorni, sicuramente.

Da quando andava avanti quella storia? Non da quando erano emigrati dalla loro terra d’origine alla ricerca di una vita migliore, portandosi dietro qualche pezza rattoppata, due scodelle e la pelle temprata dal gelo degli inverni della Russia. Né da quando si erano ritrovati in un’uguale miseria. Da quando sua madre era morta, stroncata dalla polmonite, sì e da quando suo padre si era arreso. Dovevano essere passati quasi otto mesi; Dave li aveva segnati sul muro come un prigioniero che conta i suoi giorni in cella.

“Mondo schifoso”.

Inglesizzare il proprio nome non serviva a nulla se tutti ti allontanavano in quanto straniero e quindi “inferiore” agli altri. Odiava tutto questo; più volte si era ritrovato ad odiare anche quelle persone che si ergevano a padroni del mondo, al punto da scoppiare a ridere quando veniva resa pubblica la notizia di un attentato alla loro persona. E odiava ancora di più se stesso per questi pensieri. I suoi genitori lo avevano educato nel rispetto degli individui a prescindere dalla loro condizione, razza e religione; ma come poteva continuare a seguire quei dettami se il mondo non lo ripagava con la stessa moneta? Anche per questo evitava lo sguardo di suo padre e aveva smesso di andare al cimitero dei poveri dove era sua madre, anche se non c’era né una foto né un nome a ricordarla.

Non nutriva molte speranze nemmeno nell’America. Quelle poche persone che erano ritornate da lì avevano raccontato dell’orribile trattamento che veniva riservato agli stranieri che giungevano lì: venivano ammassati come bestie e trattati molto peggio e, il più delle volte finivano imbrogliati dai loro stessi compatrioti che già si erano inseriti. Venivano visitati da dei medici poco meticolosi; se risultavano “portatori di malattie” venivano reimbarcati e rispediti da dove erano venuti senza nemmeno un rimborso per il viaggio; se riuscivano ad essere ammessi venivano buttati in una città enorme, dove solo i più forti e i più svegli avevano qualche possibilità di fare fortuna.

A che serviva? Forse solo a scrollarsi di dosso quella triste esistenza per trovarne un’altra. Ma almeno lì Dave sarebbe stato da solo, avrebbe potuto pensare a se stesso. Di suo padre non doveva preoccuparsi: una signora, vedova, che prestava servizio come infermiera al sanatorio era disposta ad occuparsi di lui.

Dave poteva cercare la sua vita e voleva farlo. Per questo aveva deciso di farsi umiliare ancora per il suo essere “un povero straniero”; tanto sarebbe stato marinaio solo per una settimana circa, giusto il tempo che il Titanic avrebbe impiegato per raggiungere l’America da Southampton. Poi, tutto il resto avrebbe avuto poca importanza. Avrebbe avuto una vita difficile e dura… ma sarebbe stata sua.

- Dave, figliolo, questa non è vita.

- Dormi papà.

 

* * *

 

- Questa è l’ultima, Puck – disse Blaine, mettendo sul calesse scoperto l’ultima valigia.

- Bene – gli rispose Puck, seduto a cassetta già con le redini in mano – Di’ alle donne di muoversi.

Il loro non era l’unico gruppo di persone povere pronte ad imbarcarsi per l’America proprio quel giorno sul Titanic ma, di sicuro, era quello più curioso e lo si poté capire quando gli altri membri del gruppo si apprestarono a salire sul calesse. I primi a saltare all’occhio erano, senza dubbio, gli “stranieri”: una coppia di asiatici ed una prosperosa ragazza nera; gli altri, a prima vista, potevano risultare dei “perfetti” inglesi dei quartieri bassi ma conoscendo i loro nomi o ascoltando i loro accenti si poteva capire quanto fossero anche loro “cittadini del mondo frammentario”. Ma al di là di tutto questo, erano tutte persone animate da un uguale desiderio di lasciarsi alle spalle una vecchia vita per trovarne una nuova e più ricca.

Quella che sognava più in grande era Rachel Berry, con il suo desiderio di diventare un’artista, di arrivare a calcare le assi di un palcoscenico e a stare davanti ad una cinepresa affinché il mondo intero la conoscesse, senza badare alle sue origini povere o al suo essere ebrea; in America queste cose non avevano importanza. A suo favore, lei aveva ostinazione e testardaggine; per molti questi erano i dettagli più fastidiosi del suo carattere, ed era sicuramente vero, ma erano anche le sue armi più potenti.

Mercedes Jones, la ragazza di colore, invece pur essendo dotata di caratteristiche uguali a quelle di Rachel, nutriva aspirazioni più semplici, dovute al fatto che, per il colore della sua pelle, sapeva che non poteva ambire a tanto ma ciò non le avrebbe impedito di cercare ugualmente una vita migliore, come gli altri compagni di viaggio.

Tra loro, un’altra che nutriva sogni di gloria, ma senza essere munita di grandi doti, era Sugar Motta; italiana da parte di padre, inglese da parte di madre, di povera estrazione ma cresciuta come se fosse stata una piccola principessa, l’unico errore dei suoi genitori. La ragazza era dotata di una spiccata esuberanza e di un cuore sensibile ma anche di una grande arroganza che, però, più che renderla odiosa, la faceva sembrare una divertente macchietta uscita da un libro per bambini.

- Ho più talento di Sarah Bernardt e di Eleonora Duse messe insieme, quindi diventerò più famosa di loro e poi verrò chiesta in sposa da qualche sovrano europeo e cambierò i nomi delle capitali del mondo col mio.

Ecco, questo era una tipica frase di Sugar Motta.

I due ragazzi asiatici, Tina Cohen Chang e Mike Chang (anche loro, come molti, avevano preferito inglesizzare i loro nomi sebbene i loro connotati li smascherassero subito), dovevano sposarsi e preferivano farlo nella terra delle grandi opportunità, dove gli auspici per una vita migliore sarebbero stati più solidi. Per quanto fosse semplice, l’amore che li univa era solido e forte e se ne avvertiva la presenza anche in un solo sguardo che si lanciavano, nel semplice sfiorarsi delle loro mani.

Per ritornare ai due ragazzi introdotti all’inizio, Blaine Anderson si apprestava a seguire le orme di suo fratello maggiore Cooper che era partito per l’America già alcuni anni fa e che già aveva trovato un posto di lavoro nella fabbrica di una nota marca di sigari. Più volte, Blaine, era stato invitato dal fratello a raggiungerlo e alla fine, dopo un ennesimo diverbio con i suoi genitori, aveva deciso di accettare il suo invito. Fuori da quella casa austera, nella quale aveva trascorso i suoi primi anni di vita, lo spirito che già correva attraverso la brezza marina, il ragazzo afferrava la sua esistenza futura a piene mani, urlando: “La mia nuova vita mi aspetta”.

Noah Puckerman, o Puck, come preferiva farsi chiamare, aveva nei suoi piani le medesime intenzioni dei suoi compagni di viaggio, con la sola differenza che i suoi scopi non erano personali, no. Aveva una piccola vita da allevare. Una bambina bionda, dai lucidi occhi scuri che, sotto un leggero strato di polvere, nascondeva un viso bianco come quello di sua madre. Sua figlia. Beth.

Ufficialmente, la piccola aveva, non solo un padre, ma anche una madre, solo che nessuno ci credeva; come era possibile che quello scricciolo, simile ad un fiocco di neve, fosse figlia di una donna dalla pelle olivastra e ormai sulla quarantina, e di un ragazzo dai tratti rudi, entrambi ebrei ma non sposati né tanto meno legati da alcun vincolo? Potevano credere che potesse essere figlia di Puck ma erano certi che Shelby Corcoran era solo sua madre adottiva.

Puck se ne fregava di quello che gli altri pensavano; per lui era importante solo Beth. Se il destino fosse stato più benevolo, le avrebbe senz’altro concesso una vita migliore e più agiata, crescendo con la sua vera madre, ma così non era stato. Allora, lui le avrebbe dato la vita migliore che potesse offrirle e lo avrebbe fatto ad ogni costo. Con lui, poi, ci sarebbe stata Shelby, che amava Beth come se fosse stata veramente sua figlia, e i suoi amici, che conoscevano la sua storia ed erano pronti ad aiutarlo ogni momento.

E questa era la comitiva (una delle tante) che si preparava a lasciare i bassifondi della città per raggiungere il porto di Southampton per imbarcarsi sul Titanic.

Chiamati da Blaine, gli altri membri della compagnia uscirono dal palazzo nel quale abitavano Puck, Shelby e Beth, dove si erano dati appuntamento, e si sistemarono sul calesse, accomodandosi sulle panche o usando i bagagli come sedili. Blaine fece per mettersi a cassetta a fianco di Puck quando due manine piccole ma forti lo afferrarono da dietro per due lembi della camicia.

- Sto io vicino a papà – fece la piccola Beth, saltellando sul suo posto.

- Va bene, piccola – le rispose Blaine con un sorriso prendendola in braccio – Siediti in braccio a me, altrimenti cadi.

- No, no, in braccio a mamma Shelby! – si dibatté la bambina ridendo divertita, vedendosi sospesa sul carro tra le braccia di Blaine.

Alzando gli occhi al cielo e leggermente urtato dal rifiuto della bambina, Blaine passò il suo fardello alla madre che abbandonò il suo posto sulla panca facendo a cambio col ragazzo e accomodandosi a cassetta con Beth in grembo che saltellava, emozionata, sulle sue ginocchia.

Avvertendo accanto a sé la sua ragione di vita, Puck fece partire i cavalli con un secco colpo delle redini, lasciando il loro vecchio paese, portandosi dietro una brillante scia di chiacchiere e risate.

- Quando arriviamo sulla grande barca? – domandò Beth, alzando il viso per poter vedere quello di Shelby.

- Tra un po’, tesoro – le rispose la donna.

- E poi, dove ci porta?

- In America, oltre il mare.

- E come è fatta l’America?

- Be’, è molto grande, con tante persone e palazzi altissimi.

- E nei palazzi ci sono le principesse?

- Non lo so, può darsi – rise Shelby stringendo al seno la bimba.

Con le genuine ed innocenti domande della bambina davanti e il chiassoso ed allegro chiacchiericcio della comitiva nel calesse, quel viaggio durò meno di quanto sarebbe dovuto durare e quando il sole aveva raggiunto il suo punto più alto nel cielo, raggiunsero il porto di Southampton. In mezzo all’enorme massa di gente si stagliava, maestoso ed imponente, il profilo del Titanic, con i suoi quattro fumaioli che sembravano voler sfiorare le bianche nuvole che coprivano quel cielo d’Aprile.

- La barca grande! La barca grande! – esultò Beth, puntando il ditino sottile contro il profilo nero e bianco della nave.

 

* * *

 

Quel giorno, 10 Aprile 1912, una gran folla aspettava sul ponte di Southampton di salire sul Titanic, la “nave inaffondabile”; tra loro c’erano Noah Puckerman con sua figlia e il resto della sua “famiglia”, tra i poveri che dovevano passare attraverso le mano dei medici prima di imbarcarsi; Dave Karofsky, che aveva iniziato il suo lavoro come marinaio già all’alba, tra altri membri della ciurma; e tra gli agiati provvisti di biglietti di prima classe, gli Hummel-Hudson, la signorina Sue Sylvester, che fendeva  la folla come un generale fa con il suo esercito, e i coniugi Fabray con la loro figlia, Quinn desiderosa di lasciarsi alle spalle un passato che le si era appena affiancato senza che lei nemmeno lo sospettasse.  

 

    

 

Nota dell’autore:

* Nota attrice del muto. Salvatasi dal naufragio, girò in quello stesso anno “Saved from the Titanic”, primo film su quel tragico evento, oggi perduto salvo alcuni fotogrammi.

** Attivista inglese a capo del movimento delle suffragette.

*** Padre e figlio, fondatori della White Star Line. Durante il viaggio inaugurale, il figlio, Bruce, succeduto al padre nell’amministrazione della compagnia navale, si salvò salendo su una scialuppa nonostante la precedenza da dare a donne a bambini; questo gesto lo rovinò e lo segnò a vita.

 

E, finalmente, ecco postato il primo capitolo della mia mini-long. Come avrete capito da questo prologo, la storia ha come sfondo il Titanic e la cosa che rimpiango e di non aver iniziato a scrivere prima questa fanfiction per postarla proprio a ridosso del centenario del naufragio. Comunque, l’ho iniziata e la sto continuando ma penso che stavolta non sarò molto regolare con gli aggiornamenti.

Stavolta non mi concentrerò su una coppia in particolare ma su una porzione di personaggi presi nelle loro singole storie che confluiranno, alla fine, in un unico comune destino.

Per il resto, per il succo della storia, ho fatto riferimento a ciò che sto provando in questo periodo.

Per le fonti che mi sono state utile per la documentazione, non solo sulla vicenda del Titanic, ma anche per la vita dei ricchi, dei poveri e degli emigranti dell’epoca:

“Lo spettro del ghiaccio. Vite perdute sul Titanic” di Richard Davenport-Hines

“Le luci del Titanic” di Hugh Brewster

“Titanic. La vera storia” di Walter Lord

Il sito sul Titanic di Claudio Bossi, il migliore in lingua italiana

Spero sia chiaro che James Cameron non centra niente.

Per eventuali curiosità o altro e per tenere d’occhio gli aggiornamenti, potete contattarmi a sulla mia pagina ufficiale:  http://www.facebook.com/pages/Lusio-EFP/162610203857483

Ciao a tutti.

 

Lusio

  
Leggi le 9 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Glee / Vai alla pagina dell'autore: Lusio