Bonjour! =)
Si, lo so, vi stavate chiedendo se fossi morta, solo
sparita o mi fossi dimenticata di voi. Ebbene, nessuna delle tre! Vi devo, però,
delle scuse e delle spiegazioni. Ho saltato una settimana di pubblicazione
perché mi serviva un periodo di “vacanza”, che poi per me vacanza non è stato;
ho avuto un milione di impegni lavorativi e universitari, e ho dovuto scegliere
di mettere qualcosa in stand – by. Mi dispiace solo che la scelta sia dovuta
ricadere sullo scrivere e il tradurre! =(
Spero possiate perdonarmi…
Detto ciò, sappiate che questa settimana sarò super
puntuale! YEAH! (è per questo che piove). Oggi, siccome domani non sarò a casa,
aggiorno la mia long e giovedì, per chi di voi segue anche The Kitten and
Coyote, pubblicherò il 14esimo capitolo, già pronto, betato e *rullo di
tamburi* CON LO SPOILER! (per la gioia di grandi e piccini, finalmente, grazie
alla mia Jules, me ne sono ricordata! XD)
Tornando a questa storia, vi avverto: anche questo
capitolo è mostruosamente lungo… son sempre troppo prolissa, lo so, ma mi piace
descrivere bene le cose! =)
Con il prossimo si chiuderà un po’ il cerchio, e voi
direte: era ora! XD Credo di aver scritto la giornata più lunga nella storia
delle FF, ma va bene così.
Per il momento abbiamo qualche risposta, qualche
interrogativo in più, vecchi amici e nuove conoscenze. J
Passando alla solita sezione “ringraziamenti”:
ringrazio chi preferisce, segue o ricorda la storia, o anche chi solamente la legge. Mi fate sempre
sorridere come un’ebete =) Sembro ancor
più ebete ogni volta che leggo le meravigliose recensioni che mi lasciano le
mie adorate Tallutina, Illy91, Athena14 e lovemojito.
Grazie veramente di cuore, ragazze! *-*
Come sempre, mi farebbe piacere sentire il vostro
parere, che siano insulti o complimenti, idee o suggerimenti, non si
discrimina! XD
Smetto di sproloquiare e vi lascio alla lettura,
sperando vi piaccia.
Love, Elle <3
I should tell
you
Capitolo quarto:
“When blu skies fade to grey”
parte seconda: Welcome
to my silly life, Lizzie
La mémoire est
toujours aux ordres du coeur – A. de Rivarol
Oggi poteva essere
il giorno in cui la sua vita, quantomeno in ambito professionale, avrebbe preso
una nuova piega. Se tutto fosse andato per il meglio, avrebbe ottenuto, solo
dopo due mesi di studio, una posizione ambita da tutti gli studenti del suo anno.
Chiuse per un
momento gli occhi, prese un respiro profondo e sistemandosi la camicia, in
realtà perfettamente stirata, alla ricerca di pieghe inesistenti, spinse con
forza la pesante porta d’entrata e si incamminò verso la sua aula.
La
hall della Parsons University aveva lucidi pavimenti in marmo color beige
caratterizzato da venature più chiare. Le pareti erano color avorio, e
accostate ai grandi lampadari in vetro e alle ampie vetrate, garantivano alla
sala una luce piena, una luminosità che si vedeva raramente nei palazzi della
Grande Mela. La sala in sé era spaziosa: aveva un lungo bancone anch’esso in
marmo, dove una giovane ragazza accoglieva gli studenti che necessitavano di
informazioni; inoltre, vi erano due tavoli bassi in vetro a fianco dei quali
stavano diversi divanetti in pelle chiara dove gli studenti potevano prendersi
una pausa. Sui due lati dell’ampia sala, si aprivano due archi, ognuno ad
iniziare un corridoio. Il corridoio sulla sinistra conduceva all’aula
insegnanti, ad un’area ristoro – dove si trovavano un piccolo bar, una saletta
con dei tavoli e dei divanetti, e i servizi igienici - e alle aule della facoltà di Interior Design,
Architettura e Grafica. Il corridoio sulla destra portava invece ad un’altra
aula ristoro, simile alla prima, e alle aule dove si tenevano le lezioni dei
corsi di Fashion Design e Fine Arts.
Kurt
prese a percorrere velocemente il corridoio a destra della reception, e arrivò
di fronte alla stanza numero 22, la stanza in cui il primo anno del corso di
Fashion Design svolgeva le proprie lezioni.
Si
trovò davanti a sé la porta già chiusa e maledicendosi sottovoce per il ritardo,
bussò delicatamente, aprendo timidamente la porta. Una donna alta, vestita con
un tailleur pantalone nero ed una camicetta in seta color pesca, era in piedi
accanto alla finestra e parlava agli studenti; sentendo aprirsi la porta, alzò
lo sguardo.
“È
in ritardo, Signor Hummel. Sono le 10 e 04 minuti.”
Per
quanto a Kurt infastidisse sentirsi riprendere proprio in quel giorno, e
soprattutto per una sciocchezza come quattro
minuti di ritardo, sapeva benissimo di non essere più al McKinley, dove i
professori non avevano praticamente potere e li si poteva insultare a
piacimento; qui era in un’università prestigiosa, di fronte alla professoressa
che era l’incubo di tutta la facoltà. Dovette reprime i suoi istinti fieri e da
Diva e, mordendosi la lingua, rispose con tono sommesso: “Mi dispiace, Signora
Dubois.”
La
signora Dubois, docente di Fashion Technical Drawing presso il corso di Fashion
Design della Parsons University, era una donna severa ed austera, sempre
vestita in maniera personale, ma mai meno che sobria ed elegante. Era alta e
snella, gli occhi azzurri e i capelli biondi e lisci, ogni giorno legati in uno
chignon dall’impeccabile fattura.
Sarah
Dubois era nata 47 anni prima come Joséphine Dubois in un paesino nel nord
della Francia. La famiglia da cui proveniva era molto semplice, e certamente
non benestante. Il padre lavorava in miniera, la madre insegnava storia in un
liceo che all’epoca contava appena duecento studenti. Joséphine, fin dalla
prima infanzia, era sempre stata una bambina esuberante, al di sopra delle
righe. Aveva in sé un brio, un guizzo particolare che la portavano ad essere
benvoluta e cercata da tutti. Era anche terribilmente estrosa. Persino durante
i rigidi inverni della Piccardia, non rinunciava mai a vestirsi di tutto punto,
risorse economiche permettendo.
Quando
iniziò a crescere non solo rimase la ragazzina meglio vestita della sua classe,
indossando sempre vestitini adorabili con qualche tocco originale o qualche
modifica apportata da lei stessa, ma divenne anche una tra le ragazze più belle
del suo paese. Alta, snella e bionda, attirava su di sé l’attenzione di tutti.
E questo la gratificava terribilmente.
Oltre
ad essere una bellissima giovane donna, era anche una ragazza sveglia ed
estremamente intelligente. Così, dopo essersi diplomata con il massimo dei voti
in un liceo provinciale, ottenne una borsa di studio per un’università
Parigina. Non le importava che non fosse
La
vera svolta arrivò quando, una sera qualunque, un fotografo decise di cenare
nella modesta tavola calda in cui faceva la cameriera. Rimase colpito dalla
bellezza e dall’eterea grazia della ragazza che, seppur con addosso vestiti da
due soldi e un grembiule sporco, riusciva a sembrare una creatura fatata. Le
propose di iniziare a lavorare per lui; prima qualche posa per vedere le sue
potenzialità, poi magari qualche scatto per mettere insieme un book, poi una
pubblicità, una copertina e magari, se fosse stata fortunata, una passerella.
Andò esattamente così. Passo dopo passo, Joséphine arrivò ad essere chiamata
come modella per un celebre brand di vestiti per la settimana della moda
Parigina.
Fu
proprio durante la sua prima sfilata importante che uno stilista si accorse del
suo estro e del suo talento, non solo come modella, ma anche come disegnatrice.
Fu
un caso, una situazione fortuita, quella che fece rompere una delle spalline
del vestito con cui dovevano chiudere la sfilata. Era l’abito più importante
della collezione, la punta di diamante, disegnato a quattro mani da due delle
menti geniali della moda di quegli anni. La modella che doveva indossarlo aveva
pestato per sbaglio lo strascico con una delle sue decoltè, era ruzzolata a
terra, storcendosi la caviglia a causa di quei quindici infernali centimetri
d’altezza, e strappando in un colpo solo un pezzo di tulle da quella coda e la
spallina sinistra del vestito, che non resse allo strattone arrivato dal basso.
Subito dopo dilagò il panico.
Una
delle assistenti cercava di rimettere in piedi la modella, l’altra era già
pronta a chiamare una sarta, la terza cercava di calmare tutte le altre modelle
che, come per un effetto domino, avevano iniziano a strillare (del resto è
risaputo che non siano proprio creature brillanti*). I due stilisti che avevano
ideato il modello erano scioccati, immobilizzati, i visi contorti in smorfie di
orrore. Tutti avevano perso la calma. Tutti tranne Joséphine.
Le
era successo un milione di volte di dover sistemare da sola qualche vestito
rovinato perché non si poteva permettere di comprarne altri né tantomeno di
pagare una sarta. Era una maga dell’improvvisazione con la stoffa. Si avvicinò
in silenzio alla modella, ormai ridotta in lacrime, e gentilmente le chiese di
sfilarsi il vestito. La ragazza, troppo sconvolta dal putiferio che aveva
scatenato, non si oppose, anzi, si tolse volentieri quel maledetto straccio – che visto il costo tanto
straccio non era. Joséphine lo valutò attentamente, cercando di varare le
opzioni aperte per sistemarlo il più velocemente possibile. Era così lei, non
le servivano schizzi o modellini, le bastava il tocco della stoffa sulla sua
pelle e i disegni le piombavano in mente, le idee le apparivano di fronte agli
occhi, rimanendo sospese nei suoi pensieri finché non decideva quale scegliere.
Dopo qualche secondo di osservazione, il viso le si illuminò e lei prese a
muoversi intorno ai vari tavoli, cercando ciò che le occorreva per sistemare
quel opera d’arte danneggiata. Trovò un paio di forbici, un set da cucito e
della fodera di una tinta ben accostabile alla cromatura del vestito. Iniziò
freneticamente a lavorare. Le mani si muoveva veloci, in autonomia, tagliando e
cucendo qua e là. Nessuno si prese la briga di fermarla, la osservavano invece
rapiti; il chiasso di pochi minuti prima ormai dimenticato.
Dopo
una decina di minuti – o quelli che a lei erano sembrati pochi secondi –
Joséphine alzò il capo e sollevò il vestito dal piccolo tavolo su cui l’aveva
poggiato per osservarlo meglio. Aveva tagliato del tutto la spallina rotta,
inserendo un piccolo elastico a livello ascellare per non far scendere la
scollatura e rendendo così il vestito monospalla. Per sottolineare la nuova
linea del capo, aveva applicato un po’ del tulle strappato sulla spallina
rimasta integra, modellandolo a formare un fiore. La gonna, prima corta davanti
e lunga con lo strascico dietro, ora era stata pareggiata in altezza. Joséphine
aveva tagliato del tutto la lunga coda in tulle, cucendo all’altezza del busto
quella fodera trovata in giro. Così facendo, la fodera dava gonfiore alla
gonna, rendendola simile ad un tutù. Per enfatizzare la similitudine, a circa
metà dell’altezza della stoffa morbida, aveva applicato il tulle rimasto. Il
vestito, da lungo, di linea elegante e fattura che ricordava un costume da
sirena, era ora corto, sbarazzino ed energico.
Non
avendo altre possibilità e vedendo il potenziale dell’abito, ormai
completamente differente, i due stilisti accordarono a Joséphine di sfilare con
il suo abito addosso.
Fu
un successo.
Quell’abito
verde elettrico attirò l’attenzione della stampa di tutta Europa ed in breve
alla ragazza di provincia fu offerto un tirocinio presso una nota marca
d’abbigliamento a Milano. Joséphine mise anima e corpo nel suo lavoro e in
breve si fece una posizione ed un nome. Nel corso di pochi anni divenne una
stilista e dopo un breve master in giornalismo, iniziò a scrivere per Vogue
Italia. Era stato in quel momento che aveva capito di non essere più la ragazza
di campagna venuta dal Nord della Francia. Era diventata una giornalista di
moda importante e ricercata, nonché una stilista il cui nome aveva fatto il
giro del mondo.
Decise
così di abbandonare non solo spiritualmente, ma anche concretamente, i ricordi
d’infanzia. Cambiò il proprio nome da Joséphine a Sarah e chiese un
trasferimento da Milano a New York, lasciandosi così l’Europa, e
Ormai
già conosciuta e rispettata, in poco tempo il suo innato talento fu apprezzato
anche nella Grande Mela, e dopo anni passati a disegnare, ideare e scrivere, le
fu proposto un lavoro completamente diverso.
“Va
bene, Hummel. Entri e si accomodi.”
Kurt,
tirando un sospiro di sollievo, si chiuse la porta alle spalle e si voltò verso
la classe. Il primo anno del loro corso era formato da venti persone, ma, pur
essendo così pochi, Kurt doveva ammettere di non conoscere praticamente per
niente i propri compagni.
Certo,
sapeva i loro nomi ed aveva persino imparato ad associare il nome al volto;
aveva scambiato qualche parola di cortesia con alcuni di loro, ma per la
maggior parte del tempo, in quei primi mesi, si era isolato, rimanendo quasi
sempre solo. Seguiva le lezioni, si perdeva in pensieri su Blaine e sulla
nostalgia di casa, prendeva appunti, aspettava la fine delle lezioni per
raccogliere le sue cose e poi, senza salutare nessuno, se ne andava. Sapeva che
se al momento non sapeva dove sedersi era solo colpa sua e del suo isolamento
forzato che l’aveva impedito dal formare amicizie.
Decise
di prendere la situazione nelle sue mani e, avvistato un posto libero accanto
ad una delle ragazze con cui aveva già scambiato due parole, con uno sguardo apologetico
le si avvicinò, e le chiese se poteva sedersi accanto a lei. Le sorrise, quando
lei annuì raggiante ed iniziò a fargli posto sul tavolo comune. Se era vero che
in quei primi due mesi Kurt si era isolato, non parlando praticamente con
nessuno, era anche vero che il suo silenzio e la sua solitudine gli avevano
dato modo di osservarsi intorno. Aveva studiato ogni singolo compagno di corso,
cercando di decifrarne la personalità attraverso il comportamento, e doveva
ammettere con se stesso che pensava di aver fatto un ottimo lavoro. Non
significava conoscerli, ma quantomeno poteva essere un inizio per capire a chi
avvicinarsi.
Mentre
la professoressa Dubois continuava a parlare, Kurt prese a scandagliare l’aula,
osservando per l’ennesima volta i compagni. La maggior parte delle persone del
corso erano lì perché destinati a quella scuola praticamente fin dall’utero.
Erano i figli d’arte: figli di modelle, stilisti, giornaliste di moda. Erano la
maggioranza, ed erano quelli che probabilmente, per arrivare lì, non avevano
dovuto alzare nemmeno un dito. Poi c’erano un paio di ragazze che sembravano
capitate lì per caso. Kurt aveva imparato ormai da tempo a non giudicare le
persone dall’apparenza, ma, vedendo lo stile e i vestiti di quelle compagne, si
chiedeva ormai da tempo che diavolo ci facessero lì o come ci fossero finite.
Infine,
c’erano quelli che Kurt chiamava ‘I
sognatori’. Erano pochi, solamente cinque, ed erano quei ragazzi e quelle
ragazze, come lui, che non avevano genitori importanti o famiglie ricche. Erano
lì perché avevano talento e stile. Era il gruppetto che a lui piaceva di più e
praticamente le uniche persone con cui avesse scambiato qualche convenevole.
Dei Sognatori facevano parte due
ragazzi: Jason e Deacon, e tre ragazze: Amber, Nellie ed Elizabeth. Erano tutti
sempre impeccabilmente vestiti ed erano persone solari e simpatiche. Se Kurt
però doveva scegliere qualcuno con cui stringere amicizia, avrebbe sicuramente
puntato su Elizabeth, la sua attuale vicina di banco.
Elizabeth,
o Lizzie, come preferiva essere chiamata, era un anno più piccola del resto di
loro. Genio accademico, aveva terminato le classi Senior entro il terzo anno di
liceo, così aveva iniziato la sua avventura universitaria un anno prima.
Castana chiara, capelli mossi sempre raccolti in una coda disordinatissima,
occhi color cioccolata e sorriso smagliante, Lizzie veniva da un piccolo
paesino dell’Iowa. Era una ragazza dolcissima, all’inizio estremamente
introversa, ma che poi, rotto il ghiaccio, diventava estremamente logorroica;
Kurt le aveva confidato che spesso, per il suo entusiasmo anche di fronte alle
piccole cose, gli ricordava un cucciolo. Ciò che non le aveva detto era che non
le ricordava solo un cucciolo di cane, ma anche Blaine. Forse era per questo
che era stato subito calamitato da lei, forse era per questo che, seppure si
fossero parlati solo qualche volta, Kurt la apprezzava già così tanto. O forse
era solamente a causa del suo nome – lo stesso di sua madre.
Proprio
in quel momento di riflessione, che ancora una volta aveva fatto scivolare la
mente di Kurt sull’argomento Blaine, Lizzie gli tirò una gomitata.
“Ti
conviene ascoltare.
Kurt,
estremamente grato per essere stato distratto dal pensiero di Blaine, iniziò ad
ascoltare la Dubois.
“Bene,
conclusi i convenevoli, vi spiego come funzionerà la giornata di oggi. Come già
sapete, oggi deciderò chi avrà la possibilità di aiutarmi a disegnare qualcosa
per il prossimo pezzo che mi è stato commissionato e che finirà in prima pagina
sul numero di Vogue del mese di dicembre. Vi ho chiesto di preparare dei
bozzetti, originali e non, - qui le scappò un sorrisetto; per valutare i suoi
studenti, chiedeva sempre di vedere come se la sarebbero cavata non solo
ideando dei modellini da zero, ma anche modificando pezzi d’alta moda già
esistenti. Nessuno sapeva che questa sua peculiare richiesta veniva da
un’esperienza personale, ma lei aveva trovato stranamente effettivo questo
metro di giudizio. – li visionerò tutti oggi. Per organizzare meglio il tempo,
però, ho deciso di dividervi in due gruppi. In ordine alfabetico: i bozzetti
degli studenti dalla A alla G saranno visionati questa mattina. All’una avrete
un’ora di pausa pranzo. Si ritorna alle quattordici e nel pomeriggio visionerò
i bozzetti degli studenti dall’H alla Z. Chi sarà visto nel pomeriggio può
andarsene.” Concluso il discorso, girò le spalle alla classe e andò ad
accomodarsi alla cattedra, iniziando a chiamare il primo studente.
Kurt
sospirò. Ottimo – pensò tra sé e sé –
un’intera mattina per rimuginare sui miei
problemi. Un’intera mattina per ripensare a Blaine. Sapeva di essersi ripromesso di aspettare
la sera per perdersi in speculazioni su cosa fosse veramente successo alla cena
degli Usignoli, ma sapeva anche che, avendo un’intera mattinata a disposizione,
la sua mente non gli avrebbe dato pace. Sospirando profondamente, lasciò l’aula,
incamminandosi verso la porta principale. Uscì in strada e si mise alla ricerca
dello Starbuck’s più vicino per prendere finalmente quel caffè che non era
riuscito a bere.
***********************************
Sebastian
si chiuse il portone alle spalle e, in un unico movimento, si sfilò le scarpe e
gettò le chiavi nel piatto poggiato sulla mensola a fianco dell’entrata. Appese
poi il giubbotto nell’armadio in legno d’acero che stava di fronte la mensola e
si incamminò per il corridoio, diretto in cucina.
Il
suo appartamento era un piccolo loft proprio dietro Central Park. I suoi
genitori l’avevano acquistato per lui quando aveva deciso di voler frequentare
Legge a New York. Tutta la sua famiglia aveva sempre creduto che, potendo
scegliere, Sebastian avrebbe deciso di tornare in Francia. Invece, stupendo
tutti, se stesso compreso, aveva deciso di restare negli States. Se doveva
essere sincero, non sapeva ancora perché avesse preso una decisione del genere;
Sebastian amava l’Europa. Aveva vissuto a Parigi, ma aveva visitato gran parte
della Francia e aveva visto anche qualche città Italiana ed Austriaca. Ne era
rimasto profondamente affascinato: le città Europee erano così diverse da
quelle d’oltreoceano. Sebastian pensava che ai paesi del Nuovo Continente
mancasse l’anima. La cultura, la storia, l’arte e le tradizioni che tenevano
vive le città Europee erano, al contrario, le caratteristiche che rendevano i
paesaggi Americani incompleti. La scelta di restare negli States, di spostarsi
a New York, era stata istintiva, di pancia; probabilmente si sarebbe potuta
definire irrazionale, ma Sebastian sentiva
che era quella giusta. Adesso doveva solo capire il perché.
Quando
era arrivato a New York, aveva preferito non scegliere la vita del campus,
perché parliamoci chiaro: non è il genere di vita adatta a Sebastian Smythe.
L’esperienza di avere un coinquilino l’aveva già vissuta alla Dalton, e gli era
bastata; convivere forzatamente, ventiquattrore al giorno, sette giorni su
sette, con un’altra persona, non faceva per lui. Era un’esperienza che lo
portava all’esasperazione. Inoltre, per Sebastian, le sue libertà erano il bene
più prezioso che possedesse. Non apprezzava le impostazioni, gli orari
obbligati, non poter uscire la sera, star fuori per tutta la notte e tornare a
mattina inoltrata. A Sebastian piaceva anche la solitudine; sapeva stare in mezzo
alla gente, di tanto in tanto parlare con un amico poteva essere piacevole, ma,
in generale, preferiva non avere legami. Gustava il silenzio di una casa vuota,
la pace che si creava – forse perché era confortante; gli ricordava la sua
infanzia. Comunque, per tutte queste ragioni, aveva deciso di vivere da solo;
ed avendo i suoi genitori standard elevati e un cospicuo conto in banca, non
poté scegliere nulla di meno di un appartamento tutto suo in pieno centro. Non che se ne lamentasse.
Il
loft era uno spazio estremamente moderno e luminoso; organizzato in maniera
funzionale e moderna, aveva anche qualche mobilio più classico, per creare
almeno l’idea di un certo calore familiare che diversamente Sebastian non aveva
mai sperimentato.
Dal
lungo corridoio si aprivano differenti porte; la prima, sulla destra, conduceva
alla cucina: un open space in acciaio e legno di noce. Super attrezzata, era
probabilmente uno spreco nelle mani di Sebastian, che la usava al massimo per
la colazione.
La
seconda porta, sulla sinistra, era in vetro smerigliato e si apriva
direttamente sulla zona notte: una stanza da letto, un bagno e la stanza per
gli ospiti, che dentro aveva un altro piccolo bagno.
La
terza porta era di tipo scorrevole; anch’essa in vetro, veniva quasi sempre
lasciata aperta, garantendo la vista del salotto. La sala era una stanza
completamente arredata da Sebastian stesso. Aveva voluto che almeno una parte
di quella casa gli assomigliasse.
Ad
una prima occhiata, sembrava il classico salotto arredato da un Interior
Designer: alla moda, ma anche classico; funzionale e moderno, ricco di ogni
tecnologia. Le luci si potevano regolare per deciderne il grado di luminosità;
le finestre erano enormi vetrate che si aprivano su una piccola terrazza;
davanti al divanetto in pelle scura stava un enorme schermo al plasma. Insomma,
osservando superficialmente, anche quella stanza, come tutte le altre, sembrava
uscita da un catalogo illustrativo.
Un
occhio esperto, e meno approssimativo, però, si sarebbe accorto di piccoli particolari,
piccoli dettagli, che invece donavano a quel salotto calore, un’idea di vissuto. Su una mensola, disposte con
attenzione, venivano mostrate almeno una decina di cornici. Nessuna sembrava
particolarmente costosa, o di qualche designer famoso; erano semplicissime
cornici d’argento, lisce e monocromatiche. Le foto al loro interno erano
disposte in modo da formare una linea del tempo, un simbolismo emotivo
particolare. La prima foto a sinistra era la foto di un neonato, in braccio
alla propria madre, ancora nel letto d’ospedale. La donna, giovane e
bellissima, sorrideva raggiante all’obbiettivo, i regali per la nascita del
figlio a farle da scenografia. La seconda cornice racchiudeva un piccolo
collage di foto di un piccolissimo Sebastian vestito completamente in bianco,
il giorno del suo battesimo. Facendo correro lo sguardo da sinistra a destra si
potevano vedere altri scatti dell’infanzia di Sebastian: un piccolo diavoletto
biondo travestito da fantasma per Halloween, un bellissimo bambino vestito di
tutto punto, papillon compreso, ad una qualche cerimonia ufficiale. E poi
ancora, Sebastian al mare, al parco giochi, il primo giorno di scuola, con il
grembiulino azzurro. Da queste immagini si inizia a vedere un giovane uomo: uno
scatto accanto al padre, poi uno con
Percorse
il corridoio fino alla cucina, si versò un bicchiere d’acqua e preso il
cellulare, si andò ad acciambellare sul confortevole divano in pelle. Non
sapeva perché, ma voleva provare a capire qualcosa in più della scenata di Kurt.
Non che gli importasse poi molto di Lady Hummel, ma ogni tanto, un po’ di
gossip, piaceva anche a lui. Scorse la rubrica del proprio BlackBerry, fino ad
arrivare al numero che cercava; fece partire la chiamata e si avvicinò
l’apparecchio al viso.
“Pronto?”
la voce calda e profonda di Nick arrivò chiara attraverso la linea telefonica.
“Ciao
Niff, come state?” Ormai nessuno si prendeva più la briga di chiamare Nick e
Jeff separatamente; erano sempre insieme e anche se ne cercavi solo uno,
prendevi comunque il pacchetto completo.
“Ciao
Sebastian, – rispose Nick, mentre in sottofondo Jeff faceva da coro – Ciao
Sebby!”
“Allora,
cosa mi raccontate?” Aveva chiamato la coppia di amici con uno scopo ben
preciso, ma voleva arrivare a toccare l’argomento con una certa nonchalance.
Così diede agli altri due la possibilità di fare due chiacchiere. All’altro
capo della cornetta ci fu un momento di silenzio imbarazzante e poi: “Nicky,
Nicky, Nicky!” Sebastian sentì Jeff sussurrare con un tono quasi cospiratorio,
come per non farsi sentire. “Nicky, sono preoccupato! Credo che Sebby stia
male! Non ci ha ancora proposto il solito ménage à trois! Nicky!...” I rantoli
di Jeff furono coperti dalla fragorosa risata di Nick, non particolarmente
apprezzata da Sebastian.
“Quando
hai finito…” gli disse con tono scocciato.
“Scusa,
Seb – “ Nick ancora singhiozzava, faticando a reprimere i risolini, mentre Jeff
era assorto in un silenzio pregno di preoccupazione. “Nicky, non fa ridere;
Sebby sta male!”
“Per
favore! Smettila di dire cazzate!” sbottò Sebastian.
“Seb,
non insultare Jeffy! Sai anche tu che è tutto vero; ormai è il nostro modo di
salutarci, no?”
*flashback*
Sebastian
Smythe si era appena trasferito da Parigi, capitale culturale ed artistica,
città che vibrava di storia, ricordi, emozioni, ma anche di caffé d’arte,
locali e vita notturna. Era una città emozionante ed eccitante, da scoprire
giorno per giorno. Aveva lasciato la città che per due anni era stata il suo
rifugio segreto, il posto sicuro in cui dimenticare il passato che ancora oggi
continuava a tormentarlo. All’improvviso, i suoi genitori avevano deciso che lo
rivolevano con loro, negli States; il problema era che nemmeno loro vivevano
più dove li aveva lasciati, a San Francisco, ma si erano trasferiti
nell’insulsa cittadina di Westernville, Ohio, per favorire la carriera del
padre. Sebastian si era così trovato catapultato, nel giro di una settimana,
dalla realtà della Ville Lumiére alla realtà rurale, grigia e monotona
dell’Ohio. Come se tutto ciò non fosse abbastanza, il padre aveva deciso che
era ora che la formazione del figlio fosse seguita più attentamente; così,
aveva deciso di iscriverlo all’Accademia Dalton, costringendolo persino a
dormire nel campus interno, in un vano tentativo di controllare le scappatelle
notturne dell’adolescente. Sebastian, oltre ad essere terribilmente incazzato
col padre, era estremamente annoiato. Certo, quando gli avevano detto che
avrebbe frequentato
Considerate
tutte le voci che correvano di già sul suo conto, Sebastian sapeva di dover
fare qualcosa per risollevare la sua reputazione, così, avendo sentito quanto
fossero popolari gli Usignoli, – nome pessimo, a suo parere – decise di mettere
a frutto quelle lezioni di canto che sua madre l’aveva obbligato a prendere da
bambino.
Era
così che quel pomeriggio di ottobre si era ritrovato sulla soglia dell’aula che
il coro usava per le prove, pronto alla sua audizione. Senza nemmeno bussare,
in pieno stile Smythe, aveva spalancato la pesante porta della stanza, solo per
trovarla completamente vuota. Osservando in giro, Sebastian si accorse di
essersi sbagliato: su uno dei morbidi divanetti color panna due ragazzi stavano
parlottando tra di loro, talmente immersi in chissà quale discussione da non
accorgersi nemmeno di essere stati interrotti. Erano seduti vicinissimi, i loro
corpi praticamente combaciavano e la distanza tra i volti indicava quanto fosse
intimo il loro rapporto. Bene - pensò Sebastian adocchiando la coppia; non
aveva dubbi che entrambi i ragazzi, peraltro estremamente carini e sexy,
fossero gay - finalmente un po’ di divertimento.
“Buongiorno,
ragazzi, devo dire che finalmente questa scuola mostra i suoi lati positivi.”
Entrò con il suo solito passo sicuro nella stanza. Un sorriso malizioso ed
arrogante stendeva le sue labbra, sulle quali, mentre parlava di lati positivi,
fece scorrere la lingua, lanciando uno sguardo languido e seducente a Nick.
Jeff si accorse dell’interesse del nuovo ragazzo, già etichettato da tutti come
la nuova puttana della scuola, verso il suo amico – perché checché se ne dicesse, Nick e Jeff
NON erano una coppia – e così, preso da un lampo di rabbia che non sapeva
spiegarsi, lanciò un’occhiata cupa e quasi
minacciosa – Jeff ricordava pur sempre un cucciolotto – a Sebastian, e gli
rispose con tono secco: “Ci conosciamo?”
Sebastian,
accortosi dell’evidente gelosia del biondino, decise di giocare un po’ con i
due ragazzi e così provocò anche lui: “Direi di no, ma si può rimediare.” Si
voltò verso Jeff e facendogli l’occhiolino, aggiunse: “Che ne dici: io, te e il
tuo bambolotto in blazer. Sembrate coraggiosi abbastanza da provare qualcosa di
nuovo e fidatevi, se mai voleste provare un ménage à trois, io sarei la scelta
migliore.”
*fine
flashback*
“Mi
sembra però che tutta questa ilarità sia fuori luogo, visti i risultati dei
miei approcci sessuali. Se ben ricordo, sono stato anche ringraziato per i miei
servigi, vero, Nicky?”
*flashback*
Due giorni dopo
quel primo incontro con Sebastian, Nick e Jeff entrarono in aula canto
tenendosi per mano. Superati i primi secondi di sconvolgente shock, gli
Usignoli eruppero in gridolini di gioia e stupore. Trent propose un buffet per
festeggiare la nuova coppia. Thad, che aveva ereditato l’ignobile martelletto
da Wes, ormai all’università, iniziò a sbatterlo furiosamente – “tanto per fare
casino”. David, ancora a bocca aperta – stranamente la mascella sembrava aver
perso di funzionalità – sfilò il cellulare dalla tasca del suo blazer e scrisse
freneticamente un messaggio di gruppo, prontamente inviato a Wes, Kurt e
Blaine. Il testo del massaggio era molto semplice: “Niff is on!”. Passarono
appena un paio di minuti, quando David ricevette in risposta tre messaggi
praticamente identici. Pur non essendo insieme, i tre amici avevano formulato
lo stesso pensiero.
“Dio sia lodato!
Come diavolo è successo? È tutto l’anno scorso che escogito piani – falliti
miseramente – per farli mettere insieme! Come ho potuto perdermelo? – W.”
“Non ci credo, non
ci credo, non ci credo! Che bello! Fa le mie congratulazioni ad entrambi. Sono
felicissimo per loro; erano persino peggio di me e Blaine, il che è tutto un
dire. Come hanno fatto a decidersi? – K.”
“Alla buon’ora,
persino io mi ero accorto che provavano dei sentimenti l’uno per l’altro. Chi è
riuscito nella grande impresa? Non mi dire nessuno, perché non ci credo che ci
siano riusciti senza una ‘spintarella’ da qualcuno… - B.”
David non poté far
altro che concordare con i suoi amici, così rimise il telefono in tasca e,
alzando lo sguardo, si rivolse alla neo coppietta.
“Come diavolo è
successo?” chiese, indicando senza vergogna le loro mani unite.
Jeff arrossì e
scoppiò a ridere, mentre Nick si limitò a sorridere, voltandosi in direzione
dell’ultimo acquisto degli Usignoli: “Grazie, Sebastian!”. Detto questo scoppiò
a ridere anche lui, mentre Sebastian ghignava e tutti gli altri Usignoli si guardavano
senza capire veramente come fosse accaduto.
*fine
flashback*
“Vero, hai ragione, sei stato ringraziato per i tuoi
servigi da cortigiana. Chiarito questo punto, andiamo avanti, – anzi, aspetta -
come facevi a sapere che eravamo insieme?” Nick sembrava genuinamente confuso.
“Stai
scherzando, Duval, vero? – Sebastian fece una risatina di scherno e sbuffando,
proseguì – Come se ci fosse mai stata una volta in cui vi ho beccati separati;
e sfortunatamente per i miei occhi, non intendo solo metaforicamente.”
“Non mi pareva ti fossi mai lamentato per i tuoi occhi.”
Rispose Nick, un’evidente nota di divertimento nella sua voce. Sebastian
sorrise e scuotendo il capo, cercò di sviare. “Come vuoi, nasone. Possiamo
passare oltre? Come sta la coppietta felice?”
Non che a Sebastian piacesse poi troppo fare “quattro
chiacchiere”, ma doveva distrarre un po’ gli amici con discorsi frivoli e di
scarso interesse per poi farli arrivare a parlare di Hummel e dell’ormai famosa
cena. Aveva bisogno di un po’ di informazioni e sapeva che Niff erano gli unici a cui poteva rivolgersi; sperava solo che i
due stessero al suo gioco.
Jeff, come sempre facilmente esaltabile, si lanciò in
un racconto super dettagliato dell’ultimo appuntamento organizzato da Nicky. Quest’ultimo, però, non ci cascò
facilmente come il fidanzato, così lo interruppe e chiese: “Sebastian, cos’è
successo?” Il suo tono era confuso, curioso e preoccupato allo stesso tempo.
Sebastian alzò gli occhi al cielo, imprecando contro
Nick e la sua intuitività. Decidendo di smetterla con i giochetti da quattro
soldi, chiese direttamente: “Ho bisogno di sapere cos’è successo alla cena di
‘arrivederci’ degli Usignoli. Quella di quest’estate, quella che avete
organizzato quando ero in Francia.”
Sebastian sentì Jeff ridacchiare, come se sapesse qualcosa che lui
ignorava, mentre Nick stette in silenzio per un momento, prima di chiedere:
“Perché ti interessa tanto da chiamarci di lunedì mattina, quando so benissimo
che ieri sera hai sicuramente dormito fuori?”
“Perché si, Nicky. Se non mi fosse interessato, non te
l’avrei chiesto.”
“Sento puzza di bruciato,” – dichiarò Nick con tono
sospettoso.
“Oh Dio, prova a controllare il forno!” – Jeff si
allarmò e Sebastian poteva sentire persino attraverso il telefono che era corso
in cucina. Dall’apparecchio venivano strani rumori, come di mobili spostati,
trascinati pesantemente sul pavimento.
“Jeff, no! Cosa stai facendo?” Nick aveva ormai
abbandonato il telefono e il suo urlo era arrivato attutito dalla lontananza,
ma ancora ben chiaro all’orecchio di Sebastian.
“Metto in salvo i mobili! Stiamo andando a fuoco!
Sebastian, chiama i vigili del fuoco, presto!”
A questo punto Sebastian non riuscì più a trattenersi e
scoppiò in una fragorosa risata. Nick, nel frattempo, cercava di calmare il
biondino.
“Jeff, tesoro, non stiamo andando a fuoco – “
“Ma tu hai detto che sentivi puzza di bruciato,” Jeff
sembrava veramente sconcertato dalla notizia.
“È un modo di dire. Significa che pensi che ci sia qualcosa
che non va, qualcosa fuori posto; pensi di essere stato ingannato. In questo
caso mi riferivo al nostro carissimo Sebby.
Non sembra strano anche a te che ci abbia chiamati dopo una folle notte di
sesso solo per fare ‘due chiacchiere’?”
Jeff sembrò pensarci per un attimo, dopodichè Sebastian
sentì un pesante fruscio, un fischio che quasi gli costò il timpano destro; la
voce di Jeff gli arrivò chiara e decisa: “Sebastian, che cazzo è successo
stanotte?” Per l’ennesima volta quella mattina, Sebastian alzò gli occhi al
cielo.
Sapeva che quando Jeff diventava serio, e assumeva
questo tono da persona matura, era arrivato il momento di parlare. Aveva già
provato a sua spese la furia di Sterling, – dopo che aveva quasi accecato
Blaine – e non ci teneva a riprovarla. Poteva anche sembrare un cucciolo di
foca, come l’aveva descritto sua madre dopo averlo conosciuto alla cerimonia
dei diplomi, ma quando si prendeva a cuore qualcosa, sapeva essere ben
determinato.
“E va bene, se mi giocate la carta ‘Jeff incazzoso’, sono costretto a
parlare.”
“Allora parla, e sii veloce. Non so se l’avevi già
capito, ma eravamo nel bel mezzo di qualcosa.”
Nick sembrava essersi riappropriato del proprio cellulare, e a giudicare dalla
distanza con cui era arrivata la sua voce, doveva aver messo il vivavoce, di
modo che potessero sentire e parlare entrambi.
“Ieri sera, come al solito, sono uscito e sono andato
nei miei bar fissi. A proposito, prima o poi dovreste uscire dalla fase ‘luna
di miele’ e venirci anche voi, sono veramente – “
“Non svicolare!” – abbaiò Jeff.
“Come preferisci, Blondie.
Stavo dicendo: ieri sera, al solito, ho fatto un giro per i locali e mi sono
trovato questo bel pezzo di carne con cui divertirmi un po’. Sapete, aveva
questi tatuaggi nei posti più disparati – “
Jeff lo interruppe con un “Bleah!”, mentre Nick aggiunse: “Se non sono pertinenti alla storia,
non ci interessano i dettagli sul tuo bel
pezzo di carne, grazie mille!”
“Non siete per niente divertenti. Comunque, mi sono
trovato questo ragazzo con cui divertirmi un po’, e siccome sono un Dio greco a
letto, sono rimasto per tutta la notte da lui. Mi sono svegliato in un
quartiere che non conoscevo, così, dopo aver non salutato il mio nuovo amico, ho fatto due passi per orientarmi
e, trovando uno Starbuck’s aperto, ho deciso di fermarmi a prendere un caffè.
Non potete nemmeno immaginare chi ho incontrato – “
“Uh, hai conosciuto un personaggio famoso, vero?” Jeff
era elettrizzato all’idea e Sebastian, se ci si metteva d’impegno, poteva
persino immaginarselo accanto a sé che saltellava su e giù dalla gioia. Devo proprio comprargli una palla, –
pensò Sebastian – magari se lo alleno
bene, può fare veramente qualche trucchetto da foca. Potremmo guadagnarci dei
soldi.
“Smettila di immaginare il mio fidanzato che saltella
su e giù come un qualche fenomeno da baraccone, - urlò Nick – e tu, Jeff,
smettila di dire cazzate e di saltare sul divano! Saltare sui mobili è compito
di Blaine!”
“Bingo!” – esultò con sarcasmo Sebastian.
“Cosa c’entra il bingo
- aspetta, hai incontrato Blaine? È qui a New York?” chiese Nick.
“Blaine? Blaine? Dov’è
Blaine? Mi manca!” si lagnò Jeff.
“Fuochino.”
“Sebastian, - Nick si era ormai spazientito – non è una
caccia al tesoro. Chi hai trovato?”
“Quanto sei palloso, nasone. Ho incontrato Lady
Hummel.”
“Kurtsie? Hai visto Kurtsie prima di me? Traditore!”
Jeff stava praticamente gridando, costringendo Sebastian ad allontanare il
cellulare dall’orecchio.
“Kurt è a
“Non saprei dirti, Nick. È per questo che vi ho
chiamati. Ho bisogno di informazioni.”
“Come non sai dirmi? Cosa gli hai fatto? Che genere di
informazioni?”
Sebastian sentì i rumori di una colluttazione e poi un
tonfo, seguito da un “Ahia, Jeff!”
Jeff, riappropriatosi del telefono, assunse di nuovo il
suo tono minaccioso. “Sebastian, giuro che se vengo a sapere che gli hai fatto
qualcosa, ti ammazzo questa volta. Hai già passato il segno con la granita, le
foto e tutto il resto. Credevo aveste chiarito e tu ti fossi pentito – “
“Jeff, taci un attimo. Ho detto che non era il massimo
della vita, non che era ferito, morto o altro. E comunque, non è stato certamente
per colpa mia. Anzi, se fossi in voi, andrei a chiedere spiegazioni a quel
santo del vostro Blaine –“
“Cosa c’entra Blaine?” chiese Jeff, confuso.
“Ditemelo voi. Cosa doveva combinare a quella famosa
cena da non poter portare con sé il suo mini pony al guinzaglio?”
“Blaine ha un pony?” Jeff era sconcertato, e anche un
po’ eccitato. “Perché non me l’ha mai detto?”
“Jeffy – disse pazientemente Nick, rialzatosi da terra
dov’era finito dopo la lotta per il telefono – credo che Seb si riferisca a
Kurt. E Blaine non ha un pony.”
“Bingo un’altra volta, Duval. Mi stupisci.” Si
complimentò falsamente Sebastian.
“Grazie, Smythe – rispose sarcasticamente Nick – Adesso
dicci, cosa c’entra la cena? E cos’ha combinato stavolta Blaine?” Nick sembrava
quasi esasperato nei confronti dell’ormai ex Usignolo, come se non fosse la
prima volta che Blaine combinava qualche pasticcio.
“Cosa significa stavolta?
Vuoi dirmi che il tappetto è un cattivo ragazzo? – Sebastian aveva un tono
divertito – Sapevo che mi piaceva per un motivo.”
“Quanto sei pessimo, Sebastian.”
“Mi lusinghi, Nicky caro.”
“Mi avete stufato! – dichiarò Jeff – Voglio sapere
cos’è successo al mio Kurtsie e chi devo picchiare!”
“Placa gli istinti omicidi, Sterling. Kurt mi ha detto
che non sapeva nulla della cena. La storia dello shopping con la sua amica
strana era una cazzata. Sembrava sconvolto, e se n’è andato senza tante
spiegazioni. Questo è tutto ciò che so.”
“Cosa?” disse Jeff, il suo tono oltraggiato e rabbioso
– “Questa è un’altra delle puttanate di Blaine.”
“Prima o poi mi dovrete raccontare il passato di
Anderson, a quanto pare ha una fedina penale lunga,”
“Non ti eccitare troppo, Smythe – ribatté seccamente
Nick – Tutti i pessimi precedenti di cui stiamo parlando riguardano il
comportamento di Blaine – “
“E questo l’avevo capito da solo, grazie Duval.” lo
interruppe Sebastian.
“Se mi facessi finire, magari. – sbottò Nick, poi
sospirò e continuò – Come stavo dicendo, tutti i precedenti di Blaine
riguardano il comportamento di Blaine nei confronti di una sola persona –“
“Chi?” chiese Sebastian curiosamente. Aveva aggrottato
le sopracciglia, e il suo sguardo rifletteva la sua confusione. Non riusciva
proprio ad immaginarsi Anderson che se la prendeva con qualcuno. Tanto meno
riusciva a figurarselo con un bersaglio fisso.
“Kurt.” rispose con semplicità Nick.
Sebastian rimase in silenzio per parecchio tempo,
cercando di assorbire la novità. Come
diavolo era possibile? Quei due vomitavano miele ogni volta che si parlavano!
Jeff lo riscosse dai suoi pensieri, quando, ancora adirato verso i mulini a
vento, continuò ad interrogarlo. “La fase ‘Come Eravamo’ la lasciamo per
un’altra volta, grazie. Voglio ancora sapere cos’è successo al mio Kurtsie e
quanto forte devo picchiare Blaine.”
“Perché tieni così tanto ad Hummel, Jeff? Voglio dire,
è stato alla Dalton per pochissimo tempo. Da quello che mi ha raccontato Trent,
che era il suo compagno di stanza e quindi quello con cui spendeva più tempo,
le sue giornate erano completamente monopolizzate da Blaine. Se qualcuno al di
fuori di lui riusciva a beccarlo, erano Wes e David. Anche quando sono arrivato
alla Dalton, tutto ciò che sentivo era Blaine
qui, Blaine là, Blaine sopra, Blaine sotto. Nessuno mi aveva mai nominato
Kurt. Se è così favoloso come lo descrivi tu, perché nessuno me ne aveva mai
parlato? Cosa ci trovi di così speciale in lui?”
“Tu non capisci, Sebastian. – iniziò Jeff con tono
triste, quasi nostalgico – Nessuno te ne ha mai parlato perché la gente si
concentra sempre sulle cose o meglio, sulle persone
sbagliate. Kurt è la persona migliore che conosca. Amo Nick, ma Kurt è la mia
persona speciale – anche se magari per lui non è altrettanto. Avrà sempre un
posto particolare nei miei ricordi. Mi ha aiutato quando ne avevo bisogno. Se
ti fossi degnato di dargli una possibilità, invece di cercare di rubargli il
ragazzo, accecarlo, e poi umiliarne il fratellastro, magari avresti un amico
speciale in più. E capiresti perché io tenga così tanto a lui.”
Si poteva sentire persino dalla voce il sorriso che incurvava
le labbra di Nick, mentre aggiungeva: “Kurt è un caro amico, Sebastian.
Capiscici se ci preoccupiamo per lui. Tu cosa faresti al posto nostro se
qualcuno ti dicesse che Jeff ha dei problemi?”
Sebastian sembrò ponderare un attimo la risposta. Non era
mai stato il tipo da amici. Amava la solitudine e dopo tutto ciò che era
successo prima che partisse per Parigi, non si fidava poi troppo delle persone.
Jeff e Nick, però, con la loro insistenza, con la loro persistenza nel cercare
di conoscerlo, e grazie alla loro costante allegria, gli si erano avvicinati
come nessun altro era riuscito, e poteva veramente definirli amici.
“Hai ragione. Ecco ciò che so: Kurt non sapeva nulla
della cena, non so cosa gli abbia o non gli abbia detto Blaine. So solo che non
ne era a conoscenza, e che quella dello shopping era una scusa. Quando ci siamo
parlati era parecchio sconvolto, e dopo avermi a malapena salutato, è fuggito.
Peraltro è strano: Hummel non è uno che fugge. Anche quando ci insultavamo
pesantemente, non aveva mai abbandonato la discussione, non se n’era mai andato
prima di essersi assicurato di aver avuto l’ultima parola. Oggi, invece, mi ha
ribaltato addosso il caffè, abbiamo parlato, l’ho sconvolto, mi ha promesso di
pagarmi la lavanderia e se n’è andato, senza aggiungere nulla. Potete dirmi
cos’è successo a quella cena? E soprattutto, cos’ha combinato Blaine? Per caso
lo tradisce?”
All’altro capo del telefono ci fu un silenzio pregno di
imbarazzo, prima che Nick rispose timidamente: “Avevo casa libera solo quella
sera, dopo aver sistemato tutto e salutato tutti gli invitati, – ehm – io e Jeff ci siamo ritirati in
camera mia. Quando siamo usciti erano rimasti solo Thad e Trent, ormai
ubriachi, che cercavano invano di pulire il giardino.”
“Niff, miei cari, in un’altra occasione mi sarei
complimentato e vi avrei detto quanto fiero di voi sono, ma adesso siamo ad un
punto morto.”
“Non è vero - rispose deciso Jeff – io e Nicky possiamo
chiamare Wes e David, e chiedere a loro un resoconto della cena. Tu puoi contattare
Kurt. Non avevi parlato di una camicia? È una scusa che regge, no?”
“Mi avesse lasciato un numero... Se n’è andato come un
razzo. Dopo che è uscito, però, la barista, una sua amica, mi ha detto che
aveva una giornata importante all’università e dopo che me la sono lavorata un
po’ in stile Smythe, mi ha lasciato l’indirizzo di casa sua. A proposito, non
immaginerete mai con chi vive adesso…” disse Sebastian, il divertimento nella
sua voce palese.
“Con chi vive?” chiese Jeff, che invece sembrava preoccupato.
“Con
“La latina paurosa?” Nick era sconvolto dalla notizia.
“Si, proprio lei.”
“Wow.” Aggiunse Jeff, altrettanto sconvolto.
“Comunque, tornando a noi, ho solo l’indirizzo di dove
abita adesso, e non sono sicuro che una mia visita a casa Hummel – Lopez farà
molto piacere ai suoi abitanti.”
“Oh, per favore, Sebastian – lo zittì Jeff – sei
curioso di sapere cos’è successo almeno quanto me e Nicky, se non di più. Sai
che è l’unico modo per parlare con Kurt. Ha cambiato numero lo scorso inverno,
e non abbiamo quello nuovo. O vai a casa sua, o vai a casa sua.”
Era vero, Sebastian era tremendamente curioso di sapere
cosa fosse successo tra i due mini pony, anche se non sapeva bene perché. “Va
bene – concesse con tono riluttante – andrò da Hummel con la scusa della
lavanderia per la camicia, e cercherò di capire cosa sia successo.”
“Ottimo!” esultò Jeff.
“Bene. Anche se ancora non mi è ben chiara questa tua
curiosità nei confronti di Kurt, finché gioca a nostro favore è ben accetta.
Adesso che abbiamo un piano d’azione – “
“Nick, hai troppi videogiochi di guerra,” lo interruppe
Sebastian, scuotendo il capo.
“Si, quel che è. Adesso che abbiamo un piano, lo
svolgeremo e ci riaggiorneremo domani. Per questa mattina ti ho sentito parlare
anche troppo, Smythe. Io e Jeff abbiamo qualcosa in sospeso.”
Sebastian ruotò gli occhi: “Va bene, generale Duval.”
“Ciao Sebby!” gridò Jeff, prima che la linea cadde. Tu.tu.tu.tu.
Sebastian, ancora sorridendo, mise a caricare il
cellulare, impostandone la sveglia per il pomeriggio: dopo aver passato la
notte in bianco e senza caffè aveva estremamente bisogno di dormire. Non avendo
voglia di spostarsi nella camera da letto, si allungò sul divano e coprendosi,
chiuse gli occhi, pensando già a come poter presentarsi a casa Hummel – Lopez.
***********************************
Kurt era
seduto ad un tavolino in uno dei tanti Starbuck’s di New York. Tamburellava le
dita contro il bicchiere di caffè bollente appena ordinato, mentre ripensava –
proprio come aveva previsto – alla sua relazione con Blaine. Era da quella
notte che ci rimuginava, poi si era ripromesso di abbandonare il pensiero per
affrontare al meglio la sua giornata importante. Il messaggino di Rachel aveva
risvegliato amari ricordi, e adesso, tutto questo tempo libero, non giocava
sicuramente a suo favore. Non riusciva a distogliere il pensiero; nella sua
mente vi era solo un turbinio di ansia ed agitazione: per la sua carriera
accademica, per Rachel, per il fratellastro arruolato, per la salute del padre,
ed infine, per i problemi che aveva con il fidanzato.
Si
era accorto già da tempo, fin dall’episodio di Chandler, di quanto Blaine si
fosse allontanato da lui, ma aveva sempre pensato che tutto sarebbe tornato al
proprio posto naturalmente. In fondo, loro erano Blaine e Kurt, Klaine, l’unica coppia che quasi eguagliava per
stabilità Mike e Tina. Era convinto che tutto sarebbe tornato normale, come
doveva essere, bastava un po’ di impegno e una buona dose di comprensione.
Adesso,
invece, capiva quanto fosse stato stupido ed ingenuo. Blaine aveva tentato di
allontanarsi e lui gliel’aveva permesso. Anzi, probabilmente lui stesso si era
allontanato da quello che credeva sarebbe stato l’amore della sua vita. Si
erano promessi di non dirsi mai addio, ma mantenere quell’impegno adesso
sembrava pesare ogni giorno inesorabilmente di più.
Negli
ultimi tre giorni non c’erano state videochiamate su Skype, né lunghe
chiacchierate su Facebook, né dolci telefonate della buonanotte. Si erano
scambiati a malapena qualche messaggio, l’ultimo dei quali di Blaine. Diceva
semplicemente:
“Mi dispiace se ci sentiamo poco, ma ho
troppo da studiare. Ti chiamo presto.”
Nessuna
spiegazione in più, nessun interesse verso i suoi impegni, nessuna smanceria.
Nessun ti amo.
Kurt
era già preoccupato, ansioso di capire cosa affliggesse il suo ragazzo, lo
occupasse a tal punto da non poter nemmeno farsi sentire. Per tutti quei tre
giorni si era agitato, nervoso, cercando di non pensare al peggio. Proprio
quando era giunto ad un punto di tregua, era arrivato Sebastian Smythe, tra
tutti, a raccontargli di un’altra bugia di Blaine. La cena. Perché Blaine gli
aveva mentito a riguardo? Perché non aveva voluto che fosse presente anche lui?
Non riusciva a capire.
*flashback*
“Blu cobalto, blu
reale o blu di Persia?” Kurt sventolò
tre campioni di tessuto sotto il naso di un Blaine totalmente stremato.
“Amore, BLU!”
“No, non puoi
rispondermi così. Stiamo parlando dei colori che decoreranno la mia stanza a
New York, stanza in cui dovrò passare metà delle mie giornate per i prossimi
quattro anni – si spera. Già è abbastanza triste sapere che al di là della
porta mi aspetterà Santana Lopez; almeno la mia stanza deve essere perfetta. È una questione seria.”
Kurt aveva gettato
le stoffe in terra per avere le braccia libere e gesticolare a piacimento.
Blaine era visibilmente stressato e stanco; alzò gli occhi al cielo e si passò
una mano tra i capelli – perlomeno per quello che riusciva nonostante
l’ammontare di gel.
“Kurt, tesoro,
calmati o verrà ad entrambi un coccolone.” Kurt sospirò profondamente e si
lasciò cadere con un tonfo sul letto. Era veramente insopportabile in quei
giorni, – ne era perfettamente consapevole – ma la paura e l’agitazione lo
stavano rodendo dall’interno, rendendolo più irritabile del solito.
“Scusa, è solo che
–“
…You think I’m pretty,
without any make up
on
You think I’m
funny,
When I tell the
punch line wrong…
Blaine abbandonò la
sua posizione in ginocchio ai piedi di Kurt e si alzò per rispondere al
cellulare.
“Pronto?” … “David,
ciao! Come stai?” un sorriso apparve sulle labbra di Blaine, e anche Kurt si
illuminò.
“Uh, è David?
Salutamelo! E salutami anche Wes, tanto lo so che sono insieme – come
sempre.” Blaine ridacchiò e scuotendo la
testa riportò il messaggio del suo ragazzo parola per parola.
Kurt era contento
che Blaine si fosse rimesso in contatto con Wes e David. Sapeva quanto gli
fossero mancati.
Dopo il suo
trasferimento al McKinley, Blaine aveva cercato di tenersi in contatto con gli
amici più stretti, e per un certo periodo lui, David e Thad si erano visti di
frequente, occasionalmente raggiunti anche da Trent e Wes, quando tornava in
Ohio.
Con l’avanzare
dell’anno scolastico, però, gli impegni aumentavano e il tempo libero
diminuiva. David e Thad oltre a far parte del consiglio degli Usignoli,
facevano parte anche di diverse squadre sportive ed erano all’ultimo anno, quindi
dovevano preparare gli esami finali.
Blaine, per quanto
riguardava la scuola, aveva sicuramente meno lavoro – il curriculum del
McKinley non era nulla paragonato a quello della Dalton – ma aveva comunque gli
allenamenti in palestra con gli altri ragazzi del Glee e West Side Story da
provare.
Così, i tre avevano
iniziato a sentirsi sempre meno spesso, fino ad arrivare a farsi giusto gli
auguri di Buon Natale e Buon Anno via messaggio. Il loro incontro successivo
era stato dettato dalla competitività ed era terminato con Blaine a terra,
urlante per il dolore, e i suoi – ormai ex – amici che scappavano a gambe
levate. Blaine, irato e profondamente deluso dal comportamento dei suoi ex
compagni di squadra, si era sentito tradito e non li aveva più cercati. Dopo che
ignorò ogni loro tentativo di scusarsi, Thad e David rinunciarono a chiamarlo.
Le cose andarono
avanti così per un pezzo e cambiarono solo durante le vacanze di Primavera,
quando Wes tornò da Chicago.
Kurt non era
presente, e non essendo rimasto in contatto con nessuno degli Usignoli dopo la
sfida riguardo Micheal Jackson, aveva ricevuto solo informazioni di seconda
mano, ma da quello che aveva sentito, Montgomery si era riappropriato del suo
martelletto e aveva sistemato per le feste tutti gli Usignoli, riuscendo a
zittire persino Sebastian. Dopo averli ripresi a suon di martellate, li aveva
trascinati tutti sotto casa Anderson per cantare “Sorry seems to be
the hardest word” a Blaine.
Quest’ultimo,
incapace di resistere di fronte ad una serenata in grande stile, aveva deciso
di perdonarli, così aveva ripreso i contatti con alcuni di loro. Avevano
ricominciato a vedersi qualche pomeriggio per studiare insieme, e dopo aver
perso le Regionali, Thad e David avevano persino offerto il caffè sia a Blaine
che a Kurt. Insomma, avevano cercato di ricostruire un rapporto.
Kurt riprese ad
osservare le sue stoffe, e sentì Blaine che diceva: “Ma è meraviglioso! È stata
proprio una bella idea! No, proverò a chiederglielo, ma credo che ci sarò solo
io.” Mentre diceva questo, lanciò un’occhiata stranita verso Kurt, che si
limitò a guardarlo confuso. Blaine, accortosi dell’espressione del fidanzato,
gli fece segno con la mano che gliene avrebbe parlato in seguito, così Kurt
tornò a dedicarsi alla sua scelta amletica tra i diversi punti di blu.
Dopo quelli che
potevano essere dieci minuti, o dieci anni, – perché quando scegli
l’arredamento per la tua stanza, non puoi perderti in frivolezze come il tempo
- Kurt sentì il letto piegarsi sotto il peso di un’altra persona. Alzò lo
sguardo, e vide che Blaine gli si era seduto accanto. Sorrise e si allungò a
baciarlo dolcemente a fior di labbra. Blaine sembrava pensieroso, non proprio
in vena di smancerie, così Kurt si allontanò e gli chiese cosa volesse David. “Allora,
qual è la pessima notizia che sembra averti dato David? Hanno comprato una
macchina per le granite?” scherzò Kurt, cercando di alleggerire l’atmosfera.
Blaine, però, era
ancora preso da chissà quali pensieri e nemmeno si accorse che il fidanzato gli
stava parlando. “Blaine? Blaine?! Cosa voleva David?”
Blaine si riscosse
dai suoi pensieri ed alzò lo sguardo. “Oh, scusami. Niente, mi ha chiesto di
partecipare ad una serata tra Usignoli. Pensi che le Nuove Direzioni se la
prenderanno?”
“Non direi, - lo
rassicurò Kurt – in fondo, siamo i campioni nazionali. Non abbiamo nulla di cui
preoccuparci, ormai. Oltretutto sarebbero felici per noi; sanno quanto a te
manchino i tuoi amici e il blazer, e quanto io necessiti di rivedere Trent: è
l’unico maschio con un impeccabile conoscenza di moda che conosca –“
“Ah, io però Kurt
ho detto a David che sarò solo io.” Vedendo l’espressione delusa del pallido
ragazzo, Blaine alzò una mano e disse: “Fammi spiegare. David ha organizzato
una partita di baseball come ‘esperienza per maturare il nostro rapporto’. – a
questa definizione pomposa alzò gli occhi al cielo - So che tu non sei proprio il tipo, quindi ho
pensato di scusarti – “
“Ma potevo venire a
fare il tifo per te! Ero o non ero un cheerleader?” sorrise maliziosamente
Kurt.
“Si, e sai quanto
l’apprezzi, ma ti annoieresti a morte!”
“Magari c’è Jeff.
Lui non gioca di solito, e potremmo parlare un po’. Magari sarebbe l’occasione
buona per ritrovare il nostro rapporto.”
“Jeff non verrà.”
Kurt sembrava dispiaciuto, ma capiva che Blaine volesse riallacciare un
rapporto con i propri amici, da solo, e che aveva pensato che fosse meglio per
lui, per evitare che si annoiasse, se non fosse andato. Quindi, sorrise
forzatamente e disse: “Ok, hai ragione. Dì pure che andrò a fare shopping o qualcosa
del genere. Ci cascheranno tutti. So quanto ti mancano gli Usignoli. Anche se
adesso hai legato con gli altri ragazzi del Glee, si vede che c’è comunque
qualcosa che hai perso. Quindi, vai e divertiti. E salutami gli altri. A
proposito, quand’è quest’ evento? Magari riesco veramente a convincere una
delle ragazze a venire a fare shopping con me!” Blaine sorrise di fronte alla
comprensione del suo ragazzo, e rispose: “Lunedì sera.”
*fine
flashback*
Quando sentì una mano che delicatamente gli veniva appoggiata
sulla spalla, Kurt si riscosse dai suoi pensieri, e alzò lo sguardo.
“Mi dispiace se penserai che io sia una stalker, - gli
disse una sorridente Lizzie – ma ti ho visto parecchio turbato questa mattina,
poi sei fuggito senza nemmeno salutare, e insomma, mi sono preoccupata. Va
tutto bene? Non è per l’università, vero?” il suo tono e il suo sguardo
contrito sembravano dar l’idea che sapesse già la risposta.
“Mi hai seguito fin qui solo perché pensavi fossi
turbato? Io, una persona con cui hai parlato si e no una decina di volte…”
Elizabeth scrollò le spalle e sorrise: “Non importa
quante volte abbiamo parlato, mi piaci, Kurt Hummel.” disse con sincerità.
Kurt, già sull’orlo di un crollo emotivo, di fronte a
tanta gentilezza e premura, tanto calore umano, che veramente gli ricordava sua
madre e il suo Blaine, perlomeno quello di una volta, sentì gli occhi
inumidirsi. Con tono lacrimoso invitò l’amica a sedersi con lui, e le chiese:
“Hai tempo?”
“Certo, sono anch’io nel turno di valutazione di oggi
pomeriggio. Abbiamo più di tre ore.”
Così Kurt iniziò a parlare. “Sai, l’anno scorso ho
affrontato un brutto periodo e proprio nel momento più buio del mio anno, un
mio amico mi ha chiesto – o meglio, spedito a calci nel sedere - a spiare il nostro coro rivale…”
***********************************
*nda: non voglio assolutamente offendere, né insultare
nessuno; spero che l’ironia venga presa come tale e non come offesa personale.