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Autore: ElleX26    02/09/2012    9 recensioni
Kurt e Sebastian si rincontrano. Situazioni, luoghi, persone diverse. Anche loro sono un po’ differenti, pur essendo rimasti sempre uguali. Sebastian è ancora l’arrogante ragazzino pieno di sé che odora di sesso. Kurt sta ancora con Blaine, anche se il loro rapporto è ormai danneggiato, probabilmente in maniera definitiva.
Rachel è troppo piena di sé. Santana è sempre uguale, stronza e caliente. Anche Brittany è sempre lei: un gran cuore e una mente persa tra unicorni e delfini. Finn è lontano, parecchi fusi orari più in là. Burt è il solito padre affettuoso, anche se ormai è diventato un senatore molto impegnato. L’era del Glee Club sembra lontana anni luce per chi ormai è completamente proiettato verso una nuova avventura. New York è la cornice perfetta per lasciarsi il passato alle spalle.
Prima FF che scrivo. Kurbastian con un assaggio di Klaine. FutureFic!
Genere: Comico, Erotico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Blaine Anderson, Kurt Hummel, Santana Lopez, Sebastian Smythe, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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I SHOULD TELL YOU_$

Bonjour! =)

 

Si, lo so, vi stavate chiedendo se fossi morta, solo sparita o mi fossi dimenticata di voi. Ebbene, nessuna delle tre! Vi devo, però, delle scuse e delle spiegazioni. Ho saltato una settimana di pubblicazione perché mi serviva un periodo di “vacanza”, che poi per me vacanza non è stato; ho avuto un milione di impegni lavorativi e universitari, e ho dovuto scegliere di mettere qualcosa in stand – by. Mi dispiace solo che la scelta sia dovuta ricadere sullo scrivere e il tradurre! =(

Spero possiate perdonarmi…

 

Detto ciò, sappiate che questa settimana sarò super puntuale! YEAH! (è per questo che piove). Oggi, siccome domani non sarò a casa, aggiorno la mia long e giovedì, per chi di voi segue anche The Kitten and Coyote, pubblicherò il 14esimo capitolo, già pronto, betato e *rullo di tamburi* CON LO SPOILER! (per la gioia di grandi e piccini, finalmente, grazie alla mia Jules, me ne sono ricordata! XD)

Tornando a questa storia, vi avverto: anche questo capitolo è mostruosamente lungo… son sempre troppo prolissa, lo so, ma mi piace descrivere bene le cose! =)

Con il prossimo si chiuderà un po’ il cerchio, e voi direte: era ora! XD Credo di aver scritto la giornata più lunga nella storia delle FF, ma va bene così.

Per il momento abbiamo qualche risposta, qualche interrogativo in più, vecchi amici e nuove conoscenze. J

 

Passando alla solita sezione “ringraziamenti”: ringrazio chi preferisce, segue o ricorda la storia, o anche chi solamente la legge. Mi fate sempre sorridere come un’ebete =)  Sembro ancor più ebete ogni volta che leggo le meravigliose recensioni che mi lasciano le mie adorate Tallutina, Illy91, Athena14 e lovemojito. Grazie veramente di cuore, ragazze! *-*

 

Come sempre, mi farebbe piacere sentire il vostro parere, che siano insulti o complimenti, idee o suggerimenti, non si discrimina! XD

 

Smetto di sproloquiare e vi lascio alla lettura, sperando vi piaccia.

 

Love, Elle <3

 

 

I should tell you

 

 

Capitolo quarto:

 

“When blu skies fade to grey”

parte seconda: Welcome to my silly life, Lizzie

 

 

La mémoire est toujours aux ordres du coeur – A. de Rivarol

 

Oggi poteva essere il giorno in cui la sua vita, quantomeno in ambito professionale, avrebbe preso una nuova piega. Se tutto fosse andato per il meglio, avrebbe ottenuto, solo dopo due mesi di studio, una posizione ambita da tutti gli studenti del suo anno.

Chiuse per un momento gli occhi, prese un respiro profondo e sistemandosi la camicia, in realtà perfettamente stirata, alla ricerca di pieghe inesistenti, spinse con forza la pesante porta d’entrata e si incamminò verso la sua aula.

 

La hall della Parsons University aveva lucidi pavimenti in marmo color beige caratterizzato da venature più chiare. Le pareti erano color avorio, e accostate ai grandi lampadari in vetro e alle ampie vetrate, garantivano alla sala una luce piena, una luminosità che si vedeva raramente nei palazzi della Grande Mela. La sala in sé era spaziosa: aveva un lungo bancone anch’esso in marmo, dove una giovane ragazza accoglieva gli studenti che necessitavano di informazioni; inoltre, vi erano due tavoli bassi in vetro a fianco dei quali stavano diversi divanetti in pelle chiara dove gli studenti potevano prendersi una pausa. Sui due lati dell’ampia sala, si aprivano due archi, ognuno ad iniziare un corridoio. Il corridoio sulla sinistra conduceva all’aula insegnanti, ad un’area ristoro – dove si trovavano un piccolo bar, una saletta con dei tavoli e dei divanetti, e i servizi igienici -  e alle aule della facoltà di Interior Design, Architettura e Grafica. Il corridoio sulla destra portava invece ad un’altra aula ristoro, simile alla prima, e alle aule dove si tenevano le lezioni dei corsi di Fashion Design e Fine Arts.

Kurt prese a percorrere velocemente il corridoio a destra della reception, e arrivò di fronte alla stanza numero 22, la stanza in cui il primo anno del corso di Fashion Design svolgeva le proprie lezioni.

Si trovò davanti a sé la porta già chiusa e maledicendosi sottovoce per il ritardo, bussò delicatamente, aprendo timidamente la porta. Una donna alta, vestita con un tailleur pantalone nero ed una camicetta in seta color pesca, era in piedi accanto alla finestra e parlava agli studenti; sentendo aprirsi la porta, alzò lo sguardo.

 

“È in ritardo, Signor Hummel. Sono le 10 e 04 minuti.”

 

Per quanto a Kurt infastidisse sentirsi riprendere proprio in quel giorno, e soprattutto per una sciocchezza come quattro minuti di ritardo, sapeva benissimo di non essere più al McKinley, dove i professori non avevano praticamente potere e li si poteva insultare a piacimento; qui era in un’università prestigiosa, di fronte alla professoressa che era l’incubo di tutta la facoltà. Dovette reprime i suoi istinti fieri e da Diva e, mordendosi la lingua, rispose con tono sommesso: “Mi dispiace, Signora Dubois.”

La signora Dubois, docente di Fashion Technical Drawing presso il corso di Fashion Design della Parsons University, era una donna severa ed austera, sempre vestita in maniera personale, ma mai meno che sobria ed elegante. Era alta e snella, gli occhi azzurri e i capelli biondi e lisci, ogni giorno legati in uno chignon dall’impeccabile fattura.

 

Sarah Dubois era nata 47 anni prima come Joséphine Dubois in un paesino nel nord della Francia. La famiglia da cui proveniva era molto semplice, e certamente non benestante. Il padre lavorava in miniera, la madre insegnava storia in un liceo che all’epoca contava appena duecento studenti. Joséphine, fin dalla prima infanzia, era sempre stata una bambina esuberante, al di sopra delle righe. Aveva in sé un brio, un guizzo particolare che la portavano ad essere benvoluta e cercata da tutti. Era anche terribilmente estrosa. Persino durante i rigidi inverni della Piccardia, non rinunciava mai a vestirsi di tutto punto, risorse economiche permettendo.

Quando iniziò a crescere non solo rimase la ragazzina meglio vestita della sua classe, indossando sempre vestitini adorabili con qualche tocco originale o qualche modifica apportata da lei stessa, ma divenne anche una tra le ragazze più belle del suo paese. Alta, snella e bionda, attirava su di sé l’attenzione di tutti. E questo la gratificava terribilmente.

Oltre ad essere una bellissima giovane donna, era anche una ragazza sveglia ed estremamente intelligente. Così, dopo essersi diplomata con il massimo dei voti in un liceo provinciale, ottenne una borsa di studio per un’università Parigina. Non le importava che non fosse la Sorbonne o che per andarci doveva lasciare casa per la primissima volta in tutta la sua vita. Non le importava nemmeno di dover lavorare per riuscire a mantenersi a Parigi a causa della povertà della sua famiglia. Ciò di cui le importava era andarsene da quel piccolo paesino che le stava troppo stretto, vedere finalmente una grande città, assaporare la vita di una metropoli. Fu così che si ritrovò a soli diciotto anni a Parigi, completamente sola, a districarsi tra un corso di laurea in Letteratura Francese – di cui a lei non importava poi molto – e due lavori. Poteva sembrare pesante, o non gratificante, agli occhi di un estraneo, ma a lei andava bene così ed era soddisfatta della sua vita. 

La vera svolta arrivò quando, una sera qualunque, un fotografo decise di cenare nella modesta tavola calda in cui faceva la cameriera. Rimase colpito dalla bellezza e dall’eterea grazia della ragazza che, seppur con addosso vestiti da due soldi e un grembiule sporco, riusciva a sembrare una creatura fatata. Le propose di iniziare a lavorare per lui; prima qualche posa per vedere le sue potenzialità, poi magari qualche scatto per mettere insieme un book, poi una pubblicità, una copertina e magari, se fosse stata fortunata, una passerella. Andò esattamente così. Passo dopo passo, Joséphine arrivò ad essere chiamata come modella per un celebre brand di vestiti per la settimana della moda Parigina.

Fu proprio durante la sua prima sfilata importante che uno stilista si accorse del suo estro e del suo talento, non solo come modella, ma anche come disegnatrice.

Fu un caso, una situazione fortuita, quella che fece rompere una delle spalline del vestito con cui dovevano chiudere la sfilata. Era l’abito più importante della collezione, la punta di diamante, disegnato a quattro mani da due delle menti geniali della moda di quegli anni. La modella che doveva indossarlo aveva pestato per sbaglio lo strascico con una delle sue decoltè, era ruzzolata a terra, storcendosi la caviglia a causa di quei quindici infernali centimetri d’altezza, e strappando in un colpo solo un pezzo di tulle da quella coda e la spallina sinistra del vestito, che non resse allo strattone arrivato dal basso. Subito dopo dilagò il panico.

Una delle assistenti cercava di rimettere in piedi la modella, l’altra era già pronta a chiamare una sarta, la terza cercava di calmare tutte le altre modelle che, come per un effetto domino, avevano iniziano a strillare (del resto è risaputo che non siano proprio creature brillanti*). I due stilisti che avevano ideato il modello erano scioccati, immobilizzati, i visi contorti in smorfie di orrore. Tutti avevano perso la calma. Tutti tranne Joséphine.

Le era successo un milione di volte di dover sistemare da sola qualche vestito rovinato perché non si poteva permettere di comprarne altri né tantomeno di pagare una sarta. Era una maga dell’improvvisazione con la stoffa. Si avvicinò in silenzio alla modella, ormai ridotta in lacrime, e gentilmente le chiese di sfilarsi il vestito. La ragazza, troppo sconvolta dal putiferio che aveva scatenato, non si oppose, anzi, si tolse volentieri quel maledetto straccio – che visto il costo tanto straccio non era. Joséphine lo valutò attentamente, cercando di varare le opzioni aperte per sistemarlo il più velocemente possibile. Era così lei, non le servivano schizzi o modellini, le bastava il tocco della stoffa sulla sua pelle e i disegni le piombavano in mente, le idee le apparivano di fronte agli occhi, rimanendo sospese nei suoi pensieri finché non decideva quale scegliere. Dopo qualche secondo di osservazione, il viso le si illuminò e lei prese a muoversi intorno ai vari tavoli, cercando ciò che le occorreva per sistemare quel opera d’arte danneggiata. Trovò un paio di forbici, un set da cucito e della fodera di una tinta ben accostabile alla cromatura del vestito. Iniziò freneticamente a lavorare. Le mani si muoveva veloci, in autonomia, tagliando e cucendo qua e là. Nessuno si prese la briga di fermarla, la osservavano invece rapiti; il chiasso di pochi minuti prima ormai dimenticato.

Dopo una decina di minuti – o quelli che a lei erano sembrati pochi secondi – Joséphine alzò il capo e sollevò il vestito dal piccolo tavolo su cui l’aveva poggiato per osservarlo meglio. Aveva tagliato del tutto la spallina rotta, inserendo un piccolo elastico a livello ascellare per non far scendere la scollatura e rendendo così il vestito monospalla. Per sottolineare la nuova linea del capo, aveva applicato un po’ del tulle strappato sulla spallina rimasta integra, modellandolo a formare un fiore. La gonna, prima corta davanti e lunga con lo strascico dietro, ora era stata pareggiata in altezza. Joséphine aveva tagliato del tutto la lunga coda in tulle, cucendo all’altezza del busto quella fodera trovata in giro. Così facendo, la fodera dava gonfiore alla gonna, rendendola simile ad un tutù. Per enfatizzare la similitudine, a circa metà dell’altezza della stoffa morbida, aveva applicato il tulle rimasto. Il vestito, da lungo, di linea elegante e fattura che ricordava un costume da sirena, era ora corto, sbarazzino ed energico.

Non avendo altre possibilità e vedendo il potenziale dell’abito, ormai completamente differente, i due stilisti accordarono a Joséphine di sfilare con il suo abito addosso.

Fu un successo.

Quell’abito verde elettrico attirò l’attenzione della stampa di tutta Europa ed in breve alla ragazza di provincia fu offerto un tirocinio presso una nota marca d’abbigliamento a Milano. Joséphine mise anima e corpo nel suo lavoro e in breve si fece una posizione ed un nome. Nel corso di pochi anni divenne una stilista e dopo un breve master in giornalismo, iniziò a scrivere per Vogue Italia. Era stato in quel momento che aveva capito di non essere più la ragazza di campagna venuta dal Nord della Francia. Era diventata una giornalista di moda importante e ricercata, nonché una stilista il cui nome aveva fatto il giro del mondo.

Decise così di abbandonare non solo spiritualmente, ma anche concretamente, i ricordi d’infanzia. Cambiò il proprio nome da Joséphine a Sarah e chiese un trasferimento da Milano a New York, lasciandosi così l’Europa, e la Francia, alle spalle.

Ormai già conosciuta e rispettata, in poco tempo il suo innato talento fu apprezzato anche nella Grande Mela, e dopo anni passati a disegnare, ideare e scrivere, le fu proposto un lavoro completamente diverso. La Parsons University stava diventando pian piano una delle università più rinomate per lo studio di Design, Moda e Stile; così, quando le venne offerta una cattedra come docente, Sarah accettò senza remore. Ora si trovava qui; ogni anno conosceva venti giovani ragazzi, pronti a qualunque cosa per realizzare il proprio sogno. Sogno che lei, puntualmente, almeno per la metà di loro, doveva stroncare. Era per questo che, seppur non essendo una persona intransigente o così tanto impostata, a lezione si comportava in maniera severa; era molto esigente, spesso anche con una punta di cattiveria. Testava i suoi ragazzi, per capire chi avesse carattere e chi no. Doveva spingere nella direzione giusta chi poteva farcela ed allontanare chi non aveva abbastanza talento. Nel corso degli anni molti dei suoi allievi erano poi diventati famosi e lei, con un pizzico di presunzione, si vantava di aver avuto almeno il merito di saper giudicare un carattere vincente.

 

“Va bene, Hummel. Entri e si accomodi.”

 

Kurt, tirando un sospiro di sollievo, si chiuse la porta alle spalle e si voltò verso la classe. Il primo anno del loro corso era formato da venti persone, ma, pur essendo così pochi, Kurt doveva ammettere di non conoscere praticamente per niente i propri compagni.

Certo, sapeva i loro nomi ed aveva persino imparato ad associare il nome al volto; aveva scambiato qualche parola di cortesia con alcuni di loro, ma per la maggior parte del tempo, in quei primi mesi, si era isolato, rimanendo quasi sempre solo. Seguiva le lezioni, si perdeva in pensieri su Blaine e sulla nostalgia di casa, prendeva appunti, aspettava la fine delle lezioni per raccogliere le sue cose e poi, senza salutare nessuno, se ne andava. Sapeva che se al momento non sapeva dove sedersi era solo colpa sua e del suo isolamento forzato che l’aveva impedito dal formare amicizie.

Decise di prendere la situazione nelle sue mani e, avvistato un posto libero accanto ad una delle ragazze con cui aveva già scambiato due parole, con uno sguardo apologetico le si avvicinò, e le chiese se poteva sedersi accanto a lei. Le sorrise, quando lei annuì raggiante ed iniziò a fargli posto sul tavolo comune. Se era vero che in quei primi due mesi Kurt si era isolato, non parlando praticamente con nessuno, era anche vero che il suo silenzio e la sua solitudine gli avevano dato modo di osservarsi intorno. Aveva studiato ogni singolo compagno di corso, cercando di decifrarne la personalità attraverso il comportamento, e doveva ammettere con se stesso che pensava di aver fatto un ottimo lavoro. Non significava conoscerli, ma quantomeno poteva essere un inizio per capire a chi avvicinarsi.

 

Mentre la professoressa Dubois continuava a parlare, Kurt prese a scandagliare l’aula, osservando per l’ennesima volta i compagni. La maggior parte delle persone del corso erano lì perché destinati a quella scuola praticamente fin dall’utero. Erano i figli d’arte: figli di modelle, stilisti, giornaliste di moda. Erano la maggioranza, ed erano quelli che probabilmente, per arrivare lì, non avevano dovuto alzare nemmeno un dito. Poi c’erano un paio di ragazze che sembravano capitate lì per caso. Kurt aveva imparato ormai da tempo a non giudicare le persone dall’apparenza, ma, vedendo lo stile e i vestiti di quelle compagne, si chiedeva ormai da tempo che diavolo ci facessero lì o come ci fossero finite.

Infine, c’erano quelli che Kurt chiamava ‘I sognatori’. Erano pochi, solamente cinque, ed erano quei ragazzi e quelle ragazze, come lui, che non avevano genitori importanti o famiglie ricche. Erano lì perché avevano talento e stile. Era il gruppetto che a lui piaceva di più e praticamente le uniche persone con cui avesse scambiato qualche convenevole. Dei Sognatori facevano parte due ragazzi: Jason e Deacon, e tre ragazze: Amber, Nellie ed Elizabeth. Erano tutti sempre impeccabilmente vestiti ed erano persone solari e simpatiche. Se Kurt però doveva scegliere qualcuno con cui stringere amicizia, avrebbe sicuramente puntato su Elizabeth, la sua attuale vicina di banco.

Elizabeth, o Lizzie, come preferiva essere chiamata, era un anno più piccola del resto di loro. Genio accademico, aveva terminato le classi Senior entro il terzo anno di liceo, così aveva iniziato la sua avventura universitaria un anno prima. Castana chiara, capelli mossi sempre raccolti in una coda disordinatissima, occhi color cioccolata e sorriso smagliante, Lizzie veniva da un piccolo paesino dell’Iowa. Era una ragazza dolcissima, all’inizio estremamente introversa, ma che poi, rotto il ghiaccio, diventava estremamente logorroica; Kurt le aveva confidato che spesso, per il suo entusiasmo anche di fronte alle piccole cose, gli ricordava un cucciolo. Ciò che non le aveva detto era che non le ricordava solo un cucciolo di cane, ma anche Blaine. Forse era per questo che era stato subito calamitato da lei, forse era per questo che, seppure si fossero parlati solo qualche volta, Kurt la apprezzava già così tanto. O forse era solamente a causa del suo nome – lo stesso di sua madre.

 

Proprio in quel momento di riflessione, che ancora una volta aveva fatto scivolare la mente di Kurt sull’argomento Blaine, Lizzie gli tirò una gomitata.

“Ti conviene ascoltare. La Dubois è da prima che ti osserva e comunque sta parlando di oggi; credo proprio che ti interessi.” Gli fece l’occhiolino e riprese ad ascoltare la Prof.

Kurt, estremamente grato per essere stato distratto dal pensiero di Blaine, iniziò ad ascoltare la Dubois.

“Bene, conclusi i convenevoli, vi spiego come funzionerà la giornata di oggi. Come già sapete, oggi deciderò chi avrà la possibilità di aiutarmi a disegnare qualcosa per il prossimo pezzo che mi è stato commissionato e che finirà in prima pagina sul numero di Vogue del mese di dicembre. Vi ho chiesto di preparare dei bozzetti, originali e non, - qui le scappò un sorrisetto; per valutare i suoi studenti, chiedeva sempre di vedere come se la sarebbero cavata non solo ideando dei modellini da zero, ma anche modificando pezzi d’alta moda già esistenti. Nessuno sapeva che questa sua peculiare richiesta veniva da un’esperienza personale, ma lei aveva trovato stranamente effettivo questo metro di giudizio. – li visionerò tutti oggi. Per organizzare meglio il tempo, però, ho deciso di dividervi in due gruppi. In ordine alfabetico: i bozzetti degli studenti dalla A alla G saranno visionati questa mattina. All’una avrete un’ora di pausa pranzo. Si ritorna alle quattordici e nel pomeriggio visionerò i bozzetti degli studenti dall’H alla Z. Chi sarà visto nel pomeriggio può andarsene.” Concluso il discorso, girò le spalle alla classe e andò ad accomodarsi alla cattedra, iniziando a chiamare il primo studente.

Kurt sospirò. Ottimo – pensò tra sé e sé – un’intera mattina per rimuginare sui miei problemi. Un’intera mattina per ripensare a Blaine.  Sapeva di essersi ripromesso di aspettare la sera per perdersi in speculazioni su cosa fosse veramente successo alla cena degli Usignoli, ma sapeva anche che, avendo un’intera mattinata a disposizione, la sua mente non gli avrebbe dato pace. Sospirando profondamente, lasciò l’aula, incamminandosi verso la porta principale. Uscì in strada e si mise alla ricerca dello Starbuck’s più vicino per prendere finalmente quel caffè che non era riuscito a bere.

 

***********************************

 

 

Sebastian si chiuse il portone alle spalle e, in un unico movimento, si sfilò le scarpe e gettò le chiavi nel piatto poggiato sulla mensola a fianco dell’entrata. Appese poi il giubbotto nell’armadio in legno d’acero che stava di fronte la mensola e si incamminò per il corridoio, diretto in cucina.

Il suo appartamento era un piccolo loft proprio dietro Central Park. I suoi genitori l’avevano acquistato per lui quando aveva deciso di voler frequentare Legge a New York. Tutta la sua famiglia aveva sempre creduto che, potendo scegliere, Sebastian avrebbe deciso di tornare in Francia. Invece, stupendo tutti, se stesso compreso, aveva deciso di restare negli States. Se doveva essere sincero, non sapeva ancora perché avesse preso una decisione del genere; Sebastian amava l’Europa. Aveva vissuto a Parigi, ma aveva visitato gran parte della Francia e aveva visto anche qualche città Italiana ed Austriaca. Ne era rimasto profondamente affascinato: le città Europee erano così diverse da quelle d’oltreoceano. Sebastian pensava che ai paesi del Nuovo Continente mancasse l’anima. La cultura, la storia, l’arte e le tradizioni che tenevano vive le città Europee erano, al contrario, le caratteristiche che rendevano i paesaggi Americani incompleti. La scelta di restare negli States, di spostarsi a New York, era stata istintiva, di pancia; probabilmente si sarebbe potuta definire irrazionale, ma Sebastian sentiva che era quella giusta. Adesso doveva solo capire il perché.

Quando era arrivato a New York, aveva preferito non scegliere la vita del campus, perché parliamoci chiaro: non è il genere di vita adatta a Sebastian Smythe. L’esperienza di avere un coinquilino l’aveva già vissuta alla Dalton, e gli era bastata; convivere forzatamente, ventiquattrore al giorno, sette giorni su sette, con un’altra persona, non faceva per lui. Era un’esperienza che lo portava all’esasperazione. Inoltre, per Sebastian, le sue libertà erano il bene più prezioso che possedesse. Non apprezzava le impostazioni, gli orari obbligati, non poter uscire la sera, star fuori per tutta la notte e tornare a mattina inoltrata. A Sebastian piaceva anche la solitudine; sapeva stare in mezzo alla gente, di tanto in tanto parlare con un amico poteva essere piacevole, ma, in generale, preferiva non avere legami. Gustava il silenzio di una casa vuota, la pace che si creava – forse perché era confortante; gli ricordava la sua infanzia. Comunque, per tutte queste ragioni, aveva deciso di vivere da solo; ed avendo i suoi genitori standard elevati e un cospicuo conto in banca, non poté scegliere nulla di meno di un appartamento tutto suo in pieno centro. Non che se ne lamentasse.

Il loft era uno spazio estremamente moderno e luminoso; organizzato in maniera funzionale e moderna, aveva anche qualche mobilio più classico, per creare almeno l’idea di un certo calore familiare che diversamente Sebastian non aveva mai sperimentato.

Dal lungo corridoio si aprivano differenti porte; la prima, sulla destra, conduceva alla cucina: un open space in acciaio e legno di noce. Super attrezzata, era probabilmente uno spreco nelle mani di Sebastian, che la usava al massimo per la colazione.

La seconda porta, sulla sinistra, era in vetro smerigliato e si apriva direttamente sulla zona notte: una stanza da letto, un bagno e la stanza per gli ospiti, che dentro aveva un altro piccolo bagno.

La terza porta era di tipo scorrevole; anch’essa in vetro, veniva quasi sempre lasciata aperta, garantendo la vista del salotto. La sala era una stanza completamente arredata da Sebastian stesso. Aveva voluto che almeno una parte di quella casa gli assomigliasse.

Ad una prima occhiata, sembrava il classico salotto arredato da un Interior Designer: alla moda, ma anche classico; funzionale e moderno, ricco di ogni tecnologia. Le luci si potevano regolare per deciderne il grado di luminosità; le finestre erano enormi vetrate che si aprivano su una piccola terrazza; davanti al divanetto in pelle scura stava un enorme schermo al plasma. Insomma, osservando superficialmente, anche quella stanza, come tutte le altre, sembrava uscita da un catalogo illustrativo.

Un occhio esperto, e meno approssimativo, però, si sarebbe accorto di piccoli particolari, piccoli dettagli, che invece donavano a quel salotto calore, un’idea di vissuto. Su una mensola, disposte con attenzione, venivano mostrate almeno una decina di cornici. Nessuna sembrava particolarmente costosa, o di qualche designer famoso; erano semplicissime cornici d’argento, lisce e monocromatiche. Le foto al loro interno erano disposte in modo da formare una linea del tempo, un simbolismo emotivo particolare. La prima foto a sinistra era la foto di un neonato, in braccio alla propria madre, ancora nel letto d’ospedale. La donna, giovane e bellissima, sorrideva raggiante all’obbiettivo, i regali per la nascita del figlio a farle da scenografia. La seconda cornice racchiudeva un piccolo collage di foto di un piccolissimo Sebastian vestito completamente in bianco, il giorno del suo battesimo. Facendo correro lo sguardo da sinistra a destra si potevano vedere altri scatti dell’infanzia di Sebastian: un piccolo diavoletto biondo travestito da fantasma per Halloween, un bellissimo bambino vestito di tutto punto, papillon compreso, ad una qualche cerimonia ufficiale. E poi ancora, Sebastian al mare, al parco giochi, il primo giorno di scuola, con il grembiulino azzurro. Da queste immagini si inizia a vedere un giovane uomo: uno scatto accanto al padre, poi uno con la Mamie. Un Sebastian decisamente più cresciuto davanti alla Tour Eiffel, poi in mezzo ai piccioni di fronte a Notre Dame, e ancora al Colosseo e poi nei giardini di Schönbrunn, a Vienna. E così avanti, gli ultimi due scatti fotografati alla Dalton: la prima foto ritraeva tutti gli Usignoli in aula canto, insieme e sorridenti, più uniti che mai. Sebastian si trovava al centro, da vero front man, alla sua destra Jeff, alla sua sinistra Nick. La seconda cornice mostrava uno scatto ancora più recente: Sebastian, nei giardini dell’Accademia Dalton, insieme a Nick e Jeff, tutti e tre con addosso le loro tuniche da diplomandi. Sorridevano alla macchina fotografica, rilassati e felici. Tutto in quella sala, dal grande schermo al plasma alle cornici, gridava “Sebastian”.

Percorse il corridoio fino alla cucina, si versò un bicchiere d’acqua e preso il cellulare, si andò ad acciambellare sul confortevole divano in pelle. Non sapeva perché, ma voleva provare a capire qualcosa in più della scenata di Kurt. Non che gli importasse poi molto di Lady Hummel, ma ogni tanto, un po’ di gossip, piaceva anche a lui. Scorse la rubrica del proprio BlackBerry, fino ad arrivare al numero che cercava; fece partire la chiamata e si avvicinò l’apparecchio al viso.

 

“Pronto?” la voce calda e profonda di Nick arrivò chiara attraverso la linea telefonica.

“Ciao Niff, come state?” Ormai nessuno si prendeva più la briga di chiamare Nick e Jeff separatamente; erano sempre insieme e anche se ne cercavi solo uno, prendevi comunque il pacchetto completo.

 

“Ciao Sebastian, – rispose Nick, mentre in sottofondo Jeff faceva da coro – Ciao Sebby!”

“Allora, cosa mi raccontate?” Aveva chiamato la coppia di amici con uno scopo ben preciso, ma voleva arrivare a toccare l’argomento con una certa nonchalance. Così diede agli altri due la possibilità di fare due chiacchiere. All’altro capo della cornetta ci fu un momento di silenzio imbarazzante e poi: “Nicky, Nicky, Nicky!” Sebastian sentì Jeff sussurrare con un tono quasi cospiratorio, come per non farsi sentire. “Nicky, sono preoccupato! Credo che Sebby stia male! Non ci ha ancora proposto il solito ménage à trois! Nicky!...” I rantoli di Jeff furono coperti dalla fragorosa risata di Nick, non particolarmente apprezzata da Sebastian.

“Quando hai finito…” gli disse con tono scocciato.

“Scusa, Seb – “ Nick ancora singhiozzava, faticando a reprimere i risolini, mentre Jeff era assorto in un silenzio pregno di preoccupazione. “Nicky, non fa ridere; Sebby sta male!”

“Per favore! Smettila di dire cazzate!” sbottò Sebastian.

“Seb, non insultare Jeffy! Sai anche tu che è tutto vero; ormai è il nostro modo di salutarci, no?”

 

*flashback*

Sebastian Smythe si era appena trasferito da Parigi, capitale culturale ed artistica, città che vibrava di storia, ricordi, emozioni, ma anche di caffé d’arte, locali e vita notturna. Era una città emozionante ed eccitante, da scoprire giorno per giorno. Aveva lasciato la città che per due anni era stata il suo rifugio segreto, il posto sicuro in cui dimenticare il passato che ancora oggi continuava a tormentarlo. All’improvviso, i suoi genitori avevano deciso che lo rivolevano con loro, negli States; il problema era che nemmeno loro vivevano più dove li aveva lasciati, a San Francisco, ma si erano trasferiti nell’insulsa cittadina di Westernville, Ohio, per favorire la carriera del padre. Sebastian si era così trovato catapultato, nel giro di una settimana, dalla realtà della Ville Lumiére alla realtà rurale, grigia e monotona dell’Ohio. Come se tutto ciò non fosse abbastanza, il padre aveva deciso che era ora che la formazione del figlio fosse seguita più attentamente; così, aveva deciso di iscriverlo all’Accademia Dalton, costringendolo persino a dormire nel campus interno, in un vano tentativo di controllare le scappatelle notturne dell’adolescente. Sebastian, oltre ad essere terribilmente incazzato col padre, era estremamente annoiato. Certo, quando gli avevano detto che avrebbe frequentato la Dalton, un’accademia tutta maschile, il giovane Smythe si era leccato i baffi, eccitato di fronte alle nuove possibilità di conquista. Aveva imparato ben presto, però, che i suoi approcci diretti e maliziosi non solo non gli fruttavano scappatelle notturne, ma anzi, in soli due giorni gli avevano già fatto guadagnare una pessima reputazione tra gli altri studenti  e una visitina nell’ufficio del preside. A quanto pareva la politica di non tolleranza verso il bullismo si estendeva anche agli approcci sessuali. Insomma, per Sebastian quell’accademia era una gabbia. Una gabbia d’oro, visto il posto e il costo della retta, ma comunque una gabbia.

Considerate tutte le voci che correvano di già sul suo conto, Sebastian sapeva di dover fare qualcosa per risollevare la sua reputazione, così, avendo sentito quanto fossero popolari gli Usignoli, – nome pessimo, a suo parere – decise di mettere a frutto quelle lezioni di canto che sua madre l’aveva obbligato a prendere da bambino.

Era così che quel pomeriggio di ottobre si era ritrovato sulla soglia dell’aula che il coro usava per le prove, pronto alla sua audizione. Senza nemmeno bussare, in pieno stile Smythe, aveva spalancato la pesante porta della stanza, solo per trovarla completamente vuota. Osservando in giro, Sebastian si accorse di essersi sbagliato: su uno dei morbidi divanetti color panna due ragazzi stavano parlottando tra di loro, talmente immersi in chissà quale discussione da non accorgersi nemmeno di essere stati interrotti. Erano seduti vicinissimi, i loro corpi praticamente combaciavano e la distanza tra i volti indicava quanto fosse intimo il loro rapporto. Bene - pensò Sebastian adocchiando la coppia; non aveva dubbi che entrambi i ragazzi, peraltro estremamente carini e sexy, fossero gay - finalmente un po’ di divertimento.

“Buongiorno, ragazzi, devo dire che finalmente questa scuola mostra i suoi lati positivi.” Entrò con il suo solito passo sicuro nella stanza. Un sorriso malizioso ed arrogante stendeva le sue labbra, sulle quali, mentre parlava di lati positivi, fece scorrere la lingua, lanciando uno sguardo languido e seducente a Nick. Jeff si accorse dell’interesse del nuovo ragazzo, già etichettato da tutti come la nuova puttana della scuola, verso il suo amico – perché checché se ne dicesse, Nick e Jeff NON erano una coppia – e così, preso da un lampo di rabbia che non sapeva spiegarsi, lanciò un’occhiata cupa e quasi minacciosa – Jeff ricordava pur sempre un cucciolotto – a Sebastian, e gli rispose con tono secco: “Ci conosciamo?”

Sebastian, accortosi dell’evidente gelosia del biondino, decise di giocare un po’ con i due ragazzi e così provocò anche lui: “Direi di no, ma si può rimediare.” Si voltò verso Jeff e facendogli l’occhiolino, aggiunse: “Che ne dici: io, te e il tuo bambolotto in blazer. Sembrate coraggiosi abbastanza da provare qualcosa di nuovo e fidatevi, se mai voleste provare un ménage à trois, io sarei la scelta migliore.”

*fine flashback*

 

“Mi sembra però che tutta questa ilarità sia fuori luogo, visti i risultati dei miei approcci sessuali. Se ben ricordo, sono stato anche ringraziato per i miei servigi, vero, Nicky?”

 

*flashback*

Due giorni dopo quel primo incontro con Sebastian, Nick e Jeff entrarono in aula canto tenendosi per mano. Superati i primi secondi di sconvolgente shock, gli Usignoli eruppero in gridolini di gioia e stupore. Trent propose un buffet per festeggiare la nuova coppia. Thad, che aveva ereditato l’ignobile martelletto da Wes, ormai all’università, iniziò a sbatterlo furiosamente – “tanto per fare casino”. David, ancora a bocca aperta – stranamente la mascella sembrava aver perso di funzionalità – sfilò il cellulare dalla tasca del suo blazer e scrisse freneticamente un messaggio di gruppo, prontamente inviato a Wes, Kurt e Blaine. Il testo del massaggio era molto semplice: “Niff is on!”. Passarono appena un paio di minuti, quando David ricevette in risposta tre messaggi praticamente identici. Pur non essendo insieme, i tre amici avevano formulato lo stesso pensiero.

 

“Dio sia lodato! Come diavolo è successo? È tutto l’anno scorso che escogito piani – falliti miseramente – per farli mettere insieme! Come ho potuto perdermelo? – W.”

“Non ci credo, non ci credo, non ci credo! Che bello! Fa le mie congratulazioni ad entrambi. Sono felicissimo per loro; erano persino peggio di me e Blaine, il che è tutto un dire. Come hanno fatto a decidersi? – K.”

“Alla buon’ora, persino io mi ero accorto che provavano dei sentimenti l’uno per l’altro. Chi è riuscito nella grande impresa? Non mi dire nessuno, perché non ci credo che ci siano riusciti senza una ‘spintarella’ da qualcuno… - B.”

 

David non poté far altro che concordare con i suoi amici, così rimise il telefono in tasca e, alzando lo sguardo, si rivolse alla neo coppietta.

“Come diavolo è successo?” chiese, indicando senza vergogna le loro mani unite.

Jeff arrossì e scoppiò a ridere, mentre Nick si limitò a sorridere, voltandosi in direzione dell’ultimo acquisto degli Usignoli: “Grazie, Sebastian!”. Detto questo scoppiò a ridere anche lui, mentre Sebastian ghignava e tutti gli altri Usignoli si guardavano senza capire veramente come fosse accaduto.

*fine flashback*

“Vero, hai ragione, sei stato ringraziato per i tuoi servigi da cortigiana. Chiarito questo punto, andiamo avanti, – anzi, aspetta - come facevi a sapere che eravamo insieme?” Nick sembrava genuinamente confuso.

“Stai scherzando, Duval, vero? – Sebastian fece una risatina di scherno e sbuffando, proseguì – Come se ci fosse mai stata una volta in cui vi ho beccati separati; e sfortunatamente per i miei occhi, non intendo solo metaforicamente.”

“Non mi pareva ti fossi mai lamentato per i tuoi occhi.” Rispose Nick, un’evidente nota di divertimento nella sua voce. Sebastian sorrise e scuotendo il capo, cercò di sviare. “Come vuoi, nasone. Possiamo passare oltre? Come sta la coppietta felice?”

Non che a Sebastian piacesse poi troppo fare “quattro chiacchiere”, ma doveva distrarre un po’ gli amici con discorsi frivoli e di scarso interesse per poi farli arrivare a parlare di Hummel e dell’ormai famosa cena. Aveva bisogno di un po’ di informazioni e sapeva che Niff erano gli unici a cui poteva rivolgersi; sperava solo che i due stessero al suo gioco.

Jeff, come sempre facilmente esaltabile, si lanciò in un racconto super dettagliato dell’ultimo appuntamento organizzato da Nicky. Quest’ultimo, però, non ci cascò facilmente come il fidanzato, così lo interruppe e chiese: “Sebastian, cos’è successo?” Il suo tono era confuso, curioso e preoccupato allo stesso tempo.

Sebastian alzò gli occhi al cielo, imprecando contro Nick e la sua intuitività. Decidendo di smetterla con i giochetti da quattro soldi, chiese direttamente: “Ho bisogno di sapere cos’è successo alla cena di ‘arrivederci’ degli Usignoli. Quella di quest’estate, quella che avete organizzato quando ero in Francia.”  Sebastian sentì Jeff ridacchiare, come se sapesse qualcosa che lui ignorava, mentre Nick stette in silenzio per un momento, prima di chiedere: “Perché ti interessa tanto da chiamarci di lunedì mattina, quando so benissimo che ieri sera hai sicuramente dormito fuori?”

“Perché si, Nicky. Se non mi fosse interessato, non te l’avrei chiesto.”

“Sento puzza di bruciato,” – dichiarò Nick con tono sospettoso.

“Oh Dio, prova a controllare il forno!” – Jeff si allarmò e Sebastian poteva sentire persino attraverso il telefono che era corso in cucina. Dall’apparecchio venivano strani rumori, come di mobili spostati, trascinati pesantemente sul pavimento.

“Jeff, no! Cosa stai facendo?” Nick aveva ormai abbandonato il telefono e il suo urlo era arrivato attutito dalla lontananza, ma ancora ben chiaro all’orecchio di Sebastian.

“Metto in salvo i mobili! Stiamo andando a fuoco! Sebastian, chiama i vigili del fuoco, presto!”

A questo punto Sebastian non riuscì più a trattenersi e scoppiò in una fragorosa risata. Nick, nel frattempo, cercava di calmare il biondino.

“Jeff, tesoro, non stiamo andando a fuoco – “

“Ma tu hai detto che sentivi puzza di bruciato,” Jeff sembrava veramente sconcertato dalla notizia.

“È un modo di dire. Significa che pensi che ci sia qualcosa che non va, qualcosa fuori posto; pensi di essere stato ingannato. In questo caso mi riferivo al nostro carissimo Sebby. Non sembra strano anche a te che ci abbia chiamati dopo una folle notte di sesso solo per fare ‘due chiacchiere’?”

Jeff sembrò pensarci per un attimo, dopodichè Sebastian sentì un pesante fruscio, un fischio che quasi gli costò il timpano destro; la voce di Jeff gli arrivò chiara e decisa: “Sebastian, che cazzo è successo stanotte?” Per l’ennesima volta quella mattina, Sebastian alzò gli occhi al cielo.

Sapeva che quando Jeff diventava serio, e assumeva questo tono da persona matura, era arrivato il momento di parlare. Aveva già provato a sua spese la furia di Sterling, – dopo che aveva quasi accecato Blaine – e non ci teneva a riprovarla. Poteva anche sembrare un cucciolo di foca, come l’aveva descritto sua madre dopo averlo conosciuto alla cerimonia dei diplomi, ma quando si prendeva a cuore qualcosa, sapeva essere ben determinato.

“E va bene, se mi giocate la carta ‘Jeff incazzoso’, sono costretto a parlare.”

“Allora parla, e sii veloce. Non so se l’avevi già capito, ma eravamo nel bel mezzo di qualcosa.” Nick sembrava essersi riappropriato del proprio cellulare, e a giudicare dalla distanza con cui era arrivata la sua voce, doveva aver messo il vivavoce, di modo che potessero sentire e parlare entrambi.

“Ieri sera, come al solito, sono uscito e sono andato nei miei bar fissi. A proposito, prima o poi dovreste uscire dalla fase ‘luna di miele’ e venirci anche voi, sono veramente – “

“Non svicolare!” – abbaiò Jeff.

“Come preferisci, Blondie. Stavo dicendo: ieri sera, al solito, ho fatto un giro per i locali e mi sono trovato questo bel pezzo di carne con cui divertirmi un po’. Sapete, aveva questi tatuaggi nei posti più disparati – “

Jeff lo interruppe con un “Bleah!”, mentre Nick aggiunse: “Se non sono pertinenti alla storia, non ci interessano i dettagli sul tuo bel pezzo di carne, grazie mille!”

“Non siete per niente divertenti. Comunque, mi sono trovato questo ragazzo con cui divertirmi un po’, e siccome sono un Dio greco a letto, sono rimasto per tutta la notte da lui. Mi sono svegliato in un quartiere che non conoscevo, così, dopo aver non salutato il mio nuovo amico, ho fatto due passi per orientarmi e, trovando uno Starbuck’s aperto, ho deciso di fermarmi a prendere un caffè. Non potete nemmeno immaginare chi ho incontrato – “

“Uh, hai conosciuto un personaggio famoso, vero?” Jeff era elettrizzato all’idea e Sebastian, se ci si metteva d’impegno, poteva persino immaginarselo accanto a sé che saltellava su e giù dalla gioia. Devo proprio comprargli una palla, – pensò Sebastian – magari se lo alleno bene, può fare veramente qualche trucchetto da foca. Potremmo guadagnarci dei soldi.

“Smettila di immaginare il mio fidanzato che saltella su e giù come un qualche fenomeno da baraccone, - urlò Nick – e tu, Jeff, smettila di dire cazzate e di saltare sul divano! Saltare sui mobili è compito di Blaine!”

“Bingo!” – esultò con sarcasmo Sebastian.

“Cosa c’entra il bingo  - aspetta, hai incontrato Blaine? È qui a New York?” chiese Nick.

“Blaine? Blaine? Dov’è Blaine? Mi manca!” si lagnò Jeff.

“Fuochino.”

“Sebastian, - Nick si era ormai spazientito – non è una caccia al tesoro. Chi hai trovato?”

“Quanto sei palloso, nasone. Ho incontrato Lady Hummel.”

“Kurtsie? Hai visto Kurtsie prima di me? Traditore!” Jeff stava praticamente gridando, costringendo Sebastian ad allontanare il cellulare dall’orecchio.

“Kurt è a New York? Davvero?” Nick era più tranquillo rispetto al biondino, ma dal suo tono di voce si capiva che anche lui era contento di avere notizie dell’amico. “Come sta?”

“Non saprei dirti, Nick. È per questo che vi ho chiamati. Ho bisogno di informazioni.”

“Come non sai dirmi? Cosa gli hai fatto? Che genere di informazioni?”

Sebastian sentì i rumori di una colluttazione e poi un tonfo, seguito da un “Ahia, Jeff!”

Jeff, riappropriatosi del telefono, assunse di nuovo il suo tono minaccioso. “Sebastian, giuro che se vengo a sapere che gli hai fatto qualcosa, ti ammazzo questa volta. Hai già passato il segno con la granita, le foto e tutto il resto. Credevo aveste chiarito e tu ti fossi pentito – “

“Jeff, taci un attimo. Ho detto che non era il massimo della vita, non che era ferito, morto o altro. E comunque, non è stato certamente per colpa mia. Anzi, se fossi in voi, andrei a chiedere spiegazioni a quel santo del vostro Blaine –“

“Cosa c’entra Blaine?” chiese Jeff, confuso.

“Ditemelo voi. Cosa doveva combinare a quella famosa cena da non poter portare con sé il suo mini pony al guinzaglio?”

“Blaine ha un pony?” Jeff era sconcertato, e anche un po’ eccitato. “Perché non me l’ha mai detto?”

“Jeffy – disse pazientemente Nick, rialzatosi da terra dov’era finito dopo la lotta per il telefono – credo che Seb si riferisca a Kurt. E Blaine non ha un pony.”

“Bingo un’altra volta, Duval. Mi stupisci.” Si complimentò falsamente Sebastian.

“Grazie, Smythe – rispose sarcasticamente Nick – Adesso dicci, cosa c’entra la cena? E cos’ha combinato stavolta Blaine?” Nick sembrava quasi esasperato nei confronti dell’ormai ex Usignolo, come se non fosse la prima volta che Blaine combinava qualche pasticcio.

“Cosa significa stavolta? Vuoi dirmi che il tappetto è un cattivo ragazzo? – Sebastian aveva un tono divertito – Sapevo che mi piaceva per un motivo.”

“Quanto sei pessimo, Sebastian.”

“Mi lusinghi, Nicky caro.”

“Mi avete stufato! – dichiarò Jeff – Voglio sapere cos’è successo al mio Kurtsie e chi devo picchiare!”

“Placa gli istinti omicidi, Sterling. Kurt mi ha detto che non sapeva nulla della cena. La storia dello shopping con la sua amica strana era una cazzata. Sembrava sconvolto, e se n’è andato senza tante spiegazioni. Questo è tutto ciò che so.”

“Cosa?” disse Jeff, il suo tono oltraggiato e rabbioso – “Questa è un’altra delle puttanate di Blaine.”

“Prima o poi mi dovrete raccontare il passato di Anderson, a quanto pare ha una fedina penale lunga,”

“Non ti eccitare troppo, Smythe – ribatté seccamente Nick – Tutti i pessimi precedenti di cui stiamo parlando riguardano il comportamento di Blaine – “

“E questo l’avevo capito da solo, grazie Duval.” lo interruppe Sebastian.

“Se mi facessi finire, magari. – sbottò Nick, poi sospirò e continuò – Come stavo dicendo, tutti i precedenti di Blaine riguardano il comportamento di Blaine nei confronti di una sola persona –“

“Chi?” chiese Sebastian curiosamente. Aveva aggrottato le sopracciglia, e il suo sguardo rifletteva la sua confusione. Non riusciva proprio ad immaginarsi Anderson che se la prendeva con qualcuno. Tanto meno riusciva a figurarselo con un bersaglio fisso.

“Kurt.” rispose con semplicità Nick.

Sebastian rimase in silenzio per parecchio tempo, cercando di assorbire la novità. Come diavolo era possibile? Quei due vomitavano miele ogni volta che si parlavano! Jeff lo riscosse dai suoi pensieri, quando, ancora adirato verso i mulini a vento, continuò ad interrogarlo. “La fase ‘Come Eravamo’ la lasciamo per un’altra volta, grazie. Voglio ancora sapere cos’è successo al mio Kurtsie e quanto forte devo picchiare Blaine.”

“Perché tieni così tanto ad Hummel, Jeff? Voglio dire, è stato alla Dalton per pochissimo tempo. Da quello che mi ha raccontato Trent, che era il suo compagno di stanza e quindi quello con cui spendeva più tempo, le sue giornate erano completamente monopolizzate da Blaine. Se qualcuno al di fuori di lui riusciva a beccarlo, erano Wes e David. Anche quando sono arrivato alla Dalton, tutto ciò che sentivo era Blaine qui, Blaine là, Blaine sopra, Blaine sotto. Nessuno mi aveva mai nominato Kurt. Se è così favoloso come lo descrivi tu, perché nessuno me ne aveva mai parlato? Cosa ci trovi di così speciale in lui?”

“Tu non capisci, Sebastian. – iniziò Jeff con tono triste, quasi nostalgico – Nessuno te ne ha mai parlato perché la gente si concentra sempre sulle cose o meglio, sulle persone sbagliate. Kurt è la persona migliore che conosca. Amo Nick, ma Kurt è la mia persona speciale – anche se magari per lui non è altrettanto. Avrà sempre un posto particolare nei miei ricordi. Mi ha aiutato quando ne avevo bisogno. Se ti fossi degnato di dargli una possibilità, invece di cercare di rubargli il ragazzo, accecarlo, e poi umiliarne il fratellastro, magari avresti un amico speciale in più. E capiresti perché io tenga così tanto a lui.”

Si poteva sentire persino dalla voce il sorriso che incurvava le labbra di Nick, mentre aggiungeva: “Kurt è un caro amico, Sebastian. Capiscici se ci preoccupiamo per lui. Tu cosa faresti al posto nostro se qualcuno ti dicesse che Jeff ha dei problemi?”

Sebastian sembrò ponderare un attimo la risposta. Non era mai stato il tipo da amici. Amava la solitudine e dopo tutto ciò che era successo prima che partisse per Parigi, non si fidava poi troppo delle persone. Jeff e Nick, però, con la loro insistenza, con la loro persistenza nel cercare di conoscerlo, e grazie alla loro costante allegria, gli si erano avvicinati come nessun altro era riuscito, e poteva veramente definirli amici.

“Hai ragione. Ecco ciò che so: Kurt non sapeva nulla della cena, non so cosa gli abbia o non gli abbia detto Blaine. So solo che non ne era a conoscenza, e che quella dello shopping era una scusa. Quando ci siamo parlati era parecchio sconvolto, e dopo avermi a malapena salutato, è fuggito. Peraltro è strano: Hummel non è uno che fugge. Anche quando ci insultavamo pesantemente, non aveva mai abbandonato la discussione, non se n’era mai andato prima di essersi assicurato di aver avuto l’ultima parola. Oggi, invece, mi ha ribaltato addosso il caffè, abbiamo parlato, l’ho sconvolto, mi ha promesso di pagarmi la lavanderia e se n’è andato, senza aggiungere nulla. Potete dirmi cos’è successo a quella cena? E soprattutto, cos’ha combinato Blaine? Per caso lo tradisce?”

All’altro capo del telefono ci fu un silenzio pregno di imbarazzo, prima che Nick rispose timidamente: “Avevo casa libera solo quella sera, dopo aver sistemato tutto e salutato tutti gli invitati, – ehm – io e Jeff ci siamo ritirati in camera mia. Quando siamo usciti erano rimasti solo Thad e Trent, ormai ubriachi, che cercavano invano di pulire il giardino.”

“Niff, miei cari, in un’altra occasione mi sarei complimentato e vi avrei detto quanto fiero di voi sono, ma adesso siamo ad un punto morto.”

“Non è vero - rispose deciso Jeff – io e Nicky possiamo chiamare Wes e David, e chiedere a loro un resoconto della cena. Tu puoi contattare Kurt. Non avevi parlato di una camicia? È una scusa che regge, no?”

“Mi avesse lasciato un numero... Se n’è andato come un razzo. Dopo che è uscito, però, la barista, una sua amica, mi ha detto che aveva una giornata importante all’università e dopo che me la sono lavorata un po’ in stile Smythe, mi ha lasciato l’indirizzo di casa sua. A proposito, non immaginerete mai con chi vive adesso…” disse Sebastian, il divertimento nella sua voce palese.

“Con chi vive?” chiese Jeff, che invece sembrava preoccupato.

“Con la Lopez.”

“La latina paurosa?” Nick era sconvolto dalla notizia.

“Si, proprio lei.”

“Wow.” Aggiunse Jeff, altrettanto sconvolto.

“Comunque, tornando a noi, ho solo l’indirizzo di dove abita adesso, e non sono sicuro che una mia visita a casa Hummel – Lopez farà molto piacere ai suoi abitanti.”

“Oh, per favore, Sebastian – lo zittì Jeff – sei curioso di sapere cos’è successo almeno quanto me e Nicky, se non di più. Sai che è l’unico modo per parlare con Kurt. Ha cambiato numero lo scorso inverno, e non abbiamo quello nuovo. O vai a casa sua, o vai a casa sua.”

Era vero, Sebastian era tremendamente curioso di sapere cosa fosse successo tra i due mini pony, anche se non sapeva bene perché. “Va bene – concesse con tono riluttante – andrò da Hummel con la scusa della lavanderia per la camicia, e cercherò di capire cosa sia successo.”

“Ottimo!” esultò Jeff.

“Bene. Anche se ancora non mi è ben chiara questa tua curiosità nei confronti di Kurt, finché gioca a nostro favore è ben accetta. Adesso che abbiamo un piano d’azione – “

“Nick, hai troppi videogiochi di guerra,” lo interruppe Sebastian, scuotendo il capo.

“Si, quel che è. Adesso che abbiamo un piano, lo svolgeremo e ci riaggiorneremo domani. Per questa mattina ti ho sentito parlare anche troppo, Smythe. Io e Jeff abbiamo qualcosa in sospeso.”

Sebastian ruotò gli occhi: “Va bene, generale Duval.”

“Ciao Sebby!” gridò Jeff, prima che la linea cadde. Tu.tu.tu.tu.

Sebastian, ancora sorridendo, mise a caricare il cellulare, impostandone la sveglia per il pomeriggio: dopo aver passato la notte in bianco e senza caffè aveva estremamente bisogno di dormire. Non avendo voglia di spostarsi nella camera da letto, si allungò sul divano e coprendosi, chiuse gli occhi, pensando già a come poter presentarsi a casa Hummel – Lopez.

 

***********************************

 


Kurt era seduto ad un tavolino in uno dei tanti Starbuck’s di New York. Tamburellava le dita contro il bicchiere di caffè bollente appena ordinato, mentre ripensava – proprio come aveva previsto – alla sua relazione con Blaine. Era da quella notte che ci rimuginava, poi si era ripromesso di abbandonare il pensiero per affrontare al meglio la sua giornata importante. Il messaggino di Rachel aveva risvegliato amari ricordi, e adesso, tutto questo tempo libero, non giocava sicuramente a suo favore. Non riusciva a distogliere il pensiero; nella sua mente vi era solo un turbinio di ansia ed agitazione: per la sua carriera accademica, per Rachel, per il fratellastro arruolato, per la salute del padre, ed infine, per i problemi che aveva con il fidanzato.

Si era accorto già da tempo, fin dall’episodio di Chandler, di quanto Blaine si fosse allontanato da lui, ma aveva sempre pensato che tutto sarebbe tornato al proprio posto naturalmente. In fondo, loro erano Blaine e Kurt, Klaine, l’unica coppia che quasi eguagliava per stabilità Mike e Tina. Era convinto che tutto sarebbe tornato normale, come doveva essere, bastava un po’ di impegno e una buona dose di comprensione.

Adesso, invece, capiva quanto fosse stato stupido ed ingenuo. Blaine aveva tentato di allontanarsi e lui gliel’aveva permesso. Anzi, probabilmente lui stesso si era allontanato da quello che credeva sarebbe stato l’amore della sua vita. Si erano promessi di non dirsi mai addio, ma mantenere quell’impegno adesso sembrava pesare ogni giorno inesorabilmente di più.

Negli ultimi tre giorni non c’erano state videochiamate su Skype, né lunghe chiacchierate su Facebook, né dolci telefonate della buonanotte. Si erano scambiati a malapena qualche messaggio, l’ultimo dei quali di Blaine. Diceva semplicemente:

Mi dispiace se ci sentiamo poco, ma ho troppo da studiare. Ti chiamo presto.

Nessuna spiegazione in più, nessun interesse verso i suoi impegni, nessuna smanceria. Nessun ti amo.

Kurt era già preoccupato, ansioso di capire cosa affliggesse il suo ragazzo, lo occupasse a tal punto da non poter nemmeno farsi sentire. Per tutti quei tre giorni si era agitato, nervoso, cercando di non pensare al peggio. Proprio quando era giunto ad un punto di tregua, era arrivato Sebastian Smythe, tra tutti, a raccontargli di un’altra bugia di Blaine. La cena. Perché Blaine gli aveva mentito a riguardo? Perché non aveva voluto che fosse presente anche lui? Non riusciva a capire.

 

*flashback*

“Blu cobalto, blu reale o blu di Persia?”  Kurt sventolò tre campioni di tessuto sotto il naso di un Blaine totalmente stremato.

“Amore, BLU!”

“No, non puoi rispondermi così. Stiamo parlando dei colori che decoreranno la mia stanza a New York, stanza in cui dovrò passare metà delle mie giornate per i prossimi quattro anni – si spera. Già è abbastanza triste sapere che al di là della porta mi aspetterà Santana Lopez; almeno la mia stanza deve essere perfetta. È una questione seria.”

Kurt aveva gettato le stoffe in terra per avere le braccia libere e gesticolare a piacimento. Blaine era visibilmente stressato e stanco; alzò gli occhi al cielo e si passò una mano tra i capelli – perlomeno per quello che riusciva nonostante l’ammontare di gel.

“Kurt, tesoro, calmati o verrà ad entrambi un coccolone.” Kurt sospirò profondamente e si lasciò cadere con un tonfo sul letto. Era veramente insopportabile in quei giorni, – ne era perfettamente consapevole – ma la paura e l’agitazione lo stavano rodendo dall’interno, rendendolo più irritabile del solito.

“Scusa, è solo che –“

 

…You think I’m pretty,

without any make up on

You think I’m funny,

When I tell the punch line wrong…

 

Blaine abbandonò la sua posizione in ginocchio ai piedi di Kurt e si alzò per rispondere al cellulare.

 

“Pronto?” … “David, ciao! Come stai?” un sorriso apparve sulle labbra di Blaine, e anche Kurt si illuminò.

“Uh, è David? Salutamelo! E salutami anche Wes, tanto lo so che sono insieme – come sempre.”  Blaine ridacchiò e scuotendo la testa riportò il messaggio del suo ragazzo parola per parola.

 

Kurt era contento che Blaine si fosse rimesso in contatto con Wes e David. Sapeva quanto gli fossero mancati.

Dopo il suo trasferimento al McKinley, Blaine aveva cercato di tenersi in contatto con gli amici più stretti, e per un certo periodo lui, David e Thad si erano visti di frequente, occasionalmente raggiunti anche da Trent e Wes, quando tornava in Ohio.

Con l’avanzare dell’anno scolastico, però, gli impegni aumentavano e il tempo libero diminuiva. David e Thad oltre a far parte del consiglio degli Usignoli, facevano parte anche di diverse squadre sportive ed erano all’ultimo anno, quindi dovevano preparare gli esami finali.

Blaine, per quanto riguardava la scuola, aveva sicuramente meno lavoro – il curriculum del McKinley non era nulla paragonato a quello della Dalton – ma aveva comunque gli allenamenti in palestra con gli altri ragazzi del Glee e West Side Story da provare.

Così, i tre avevano iniziato a sentirsi sempre meno spesso, fino ad arrivare a farsi giusto gli auguri di Buon Natale e Buon Anno via messaggio. Il loro incontro successivo era stato dettato dalla competitività ed era terminato con Blaine a terra, urlante per il dolore, e i suoi – ormai ex – amici che scappavano a gambe levate. Blaine, irato e profondamente deluso dal comportamento dei suoi ex compagni di squadra, si era sentito tradito e non li aveva più cercati. Dopo che ignorò ogni loro tentativo di scusarsi, Thad e David rinunciarono a chiamarlo.

Le cose andarono avanti così per un pezzo e cambiarono solo durante le vacanze di Primavera, quando Wes tornò da Chicago.

Kurt non era presente, e non essendo rimasto in contatto con nessuno degli Usignoli dopo la sfida riguardo Micheal Jackson, aveva ricevuto solo informazioni di seconda mano, ma da quello che aveva sentito, Montgomery si era riappropriato del suo martelletto e aveva sistemato per le feste tutti gli Usignoli, riuscendo a zittire persino Sebastian. Dopo averli ripresi a suon di martellate, li aveva trascinati tutti sotto casa Anderson per cantare “Sorry seems to be the hardest word” a Blaine.

 

Quest’ultimo, incapace di resistere di fronte ad una serenata in grande stile, aveva deciso di perdonarli, così aveva ripreso i contatti con alcuni di loro. Avevano ricominciato a vedersi qualche pomeriggio per studiare insieme, e dopo aver perso le Regionali, Thad e David avevano persino offerto il caffè sia a Blaine che a Kurt. Insomma, avevano cercato di ricostruire un rapporto.

 

Kurt riprese ad osservare le sue stoffe, e sentì Blaine che diceva: “Ma è meraviglioso! È stata proprio una bella idea! No, proverò a chiederglielo, ma credo che ci sarò solo io.” Mentre diceva questo, lanciò un’occhiata stranita verso Kurt, che si limitò a guardarlo confuso. Blaine, accortosi dell’espressione del fidanzato, gli fece segno con la mano che gliene avrebbe parlato in seguito, così Kurt tornò a dedicarsi alla sua scelta amletica tra i diversi punti di blu.

 

Dopo quelli che potevano essere dieci minuti, o dieci anni, – perché quando scegli l’arredamento per la tua stanza, non puoi perderti in frivolezze come il tempo - Kurt sentì il letto piegarsi sotto il peso di un’altra persona. Alzò lo sguardo, e vide che Blaine gli si era seduto accanto. Sorrise e si allungò a baciarlo dolcemente a fior di labbra. Blaine sembrava pensieroso, non proprio in vena di smancerie, così Kurt si allontanò e gli chiese cosa volesse David. “Allora, qual è la pessima notizia che sembra averti dato David? Hanno comprato una macchina per le granite?” scherzò Kurt, cercando di alleggerire l’atmosfera.

Blaine, però, era ancora preso da chissà quali pensieri e nemmeno si accorse che il fidanzato gli stava parlando. “Blaine? Blaine?! Cosa voleva David?”

Blaine si riscosse dai suoi pensieri ed alzò lo sguardo. “Oh, scusami. Niente, mi ha chiesto di partecipare ad una serata tra Usignoli. Pensi che le Nuove Direzioni se la prenderanno?”

“Non direi, - lo rassicurò Kurt – in fondo, siamo i campioni nazionali. Non abbiamo nulla di cui preoccuparci, ormai. Oltretutto sarebbero felici per noi; sanno quanto a te manchino i tuoi amici e il blazer, e quanto io necessiti di rivedere Trent: è l’unico maschio con un impeccabile conoscenza di moda che conosca –“

“Ah, io però Kurt ho detto a David che sarò solo io.” Vedendo l’espressione delusa del pallido ragazzo, Blaine alzò una mano e disse: “Fammi spiegare. David ha organizzato una partita di baseball come ‘esperienza per maturare il nostro rapporto’. – a questa definizione pomposa alzò gli occhi al cielo -  So che tu non sei proprio il tipo, quindi ho pensato di scusarti – “

“Ma potevo venire a fare il tifo per te! Ero o non ero un cheerleader?” sorrise maliziosamente Kurt.

“Si, e sai quanto l’apprezzi, ma ti annoieresti a morte!”

“Magari c’è Jeff. Lui non gioca di solito, e potremmo parlare un po’. Magari sarebbe l’occasione buona per ritrovare il nostro rapporto.”

“Jeff non verrà.” Kurt sembrava dispiaciuto, ma capiva che Blaine volesse riallacciare un rapporto con i propri amici, da solo, e che aveva pensato che fosse meglio per lui, per evitare che si annoiasse, se non fosse andato. Quindi, sorrise forzatamente e disse: “Ok, hai ragione. Dì pure che andrò a fare shopping o qualcosa del genere. Ci cascheranno tutti. So quanto ti mancano gli Usignoli. Anche se adesso hai legato con gli altri ragazzi del Glee, si vede che c’è comunque qualcosa che hai perso. Quindi, vai e divertiti. E salutami gli altri. A proposito, quand’è quest’ evento? Magari riesco veramente a convincere una delle ragazze a venire a fare shopping con me!” Blaine sorrise di fronte alla comprensione del suo ragazzo, e rispose: “Lunedì sera.”

 

*fine flashback*

Quando sentì una mano che delicatamente gli veniva appoggiata sulla spalla, Kurt si riscosse dai suoi pensieri, e alzò lo sguardo.

“Mi dispiace se penserai che io sia una stalker, - gli disse una sorridente Lizzie – ma ti ho visto parecchio turbato questa mattina, poi sei fuggito senza nemmeno salutare, e insomma, mi sono preoccupata. Va tutto bene? Non è per l’università, vero?” il suo tono e il suo sguardo contrito sembravano dar l’idea che sapesse già la risposta.

“Mi hai seguito fin qui solo perché pensavi fossi turbato? Io, una persona con cui hai parlato si e no una decina di volte…”

Elizabeth scrollò le spalle e sorrise: “Non importa quante volte abbiamo parlato, mi piaci, Kurt Hummel.” disse con sincerità.

Kurt, già sull’orlo di un crollo emotivo, di fronte a tanta gentilezza e premura, tanto calore umano, che veramente gli ricordava sua madre e il suo Blaine, perlomeno quello di una volta, sentì gli occhi inumidirsi. Con tono lacrimoso invitò l’amica a sedersi con lui, e le chiese: “Hai tempo?”

“Certo, sono anch’io nel turno di valutazione di oggi pomeriggio. Abbiamo più di tre ore.”

Così Kurt iniziò a parlare. “Sai, l’anno scorso ho affrontato un brutto periodo e proprio nel momento più buio del mio anno, un mio amico mi ha chiesto – o meglio, spedito a calci nel sedere -  a spiare il nostro coro rivale…”

 

***********************************

 

*nda: non voglio assolutamente offendere, né insultare nessuno; spero che l’ironia venga presa come tale e non come offesa personale.

N.B. Come la scorsa volta, c'è qualche problema di layout =( Non è ancora come piacerebbe a me, ma è meglio! Spero sia leggibile...
  
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