Disclaimer: i personaggi appartengono a Fujimaki Tadatoshi.
Le citazioni sono prese direttamente dal manga.
Note: non so alla fine cosa ne sarà
uscito, perché è stato un esperimento e come tutti gli esperimenti è sempre
molto chiaro nella tua testa, e solo in quella XD Spero che la lettura non
risulti troppo confusionaria, nonostante a livello di “impaginazione” si
discosti molto da come solitamente scrivo.
Per chiarimenti vari, rimando alle note finali.
Una generazione di cinque giocatori
con un talento come se ne vede ogni dieci anni,
chiamata “La Generazione dei Miracoli”.
Dicono che il talento sia una benedizione.
Si dice che, se hai talento, il resto non importa.
Successo.
Se hai talento, sarà sempre a portata di mano.
Sarà sempre tremendamente facile da ottenere.
Il talento ti saluta timidamente,
ti affianca,
entra a far parte di te,
ti avvelena,
ti sovrasta,
ti dà molto, moltissimo,
e poi ti toglie tutto.
Alla fine, ti distrugge; sei solo troppo stanco per accorgertene.
«L’uomo propone, Dio dispone.»
Pensava erroneamente che
il talento fosse sempre stato qualcosa di casuale.
Qualcosa che ti capitava, non dipendeva da nulla in particolare e men che meno da qualcosa che potevi influenzare.
Aveva creduto – ingenuo, troppo ingenuo – che fosse semplicemente un dono, che
andasse coltivato con il duro allenamento e che potesse poi crescere, e
renderti migliore, e regalarti qualcosa.
La sua fortuna era stata avere una discreta intelligenza e capire,
accorgersene; il talento era un dono,
sì, ed in quanto tale non poteva essere affatto affidato al caso, e non bastava
il duro allenamento, non sarebbe bastato mai.
Il talento era una cosa che ritrovavi, che riscoprivi
al momento giusto, ma coltivarla era più di due tiri a canestro e uno
scatto per il campo, era più del sudore che ti imperlava la fronte e delle mani
che aderivano sulla palla, pronte al tiro.
Era fasciarsi le mani, era dettagli, era attenzione maniacale, era sforzo, era
isolamento, era concentrazione; era obiettivi, era forza fisica ma soprattutto
forza d’animo.
Era impedirsi distrazioni, non cedere ad un fatale sentimentalismo.
Il talento era spettacolarità.
Un palco dove, sebbene in mezzo ad altri attori, la scena era solo tua, tua e
della palla, tua e del canestro, tua e degli occhi, della mira e delle mani,
delle dita e del tatto.
Della precisione millimetrica, del sibilo di una palla che si infila con
eleganza in quella rete senza nemmeno sfiorare il ferro.
Fortuna.
Quella degli oroscopi, quella di una partita.
Successo.
Ma cosa rimaneva, se non curava la fortuna come un fiore raro e se abbandonava
il talento come si poteva abbandonare un’amante?
«Ti piace il basket?»
Anche oggi ho fatto tutto quel che c’era da fare.
«Non c’è nessuno lì fuori, così incredibile che
io non possa eguagliarlo?
Se esiste, dov’è? Vieni fuori!»
Il talento è stato il
primo giocattolo divertente con cui passare le giornate.
Non vi aveva mai attribuito alcun particolare significato, era semplicemente
capitato e se l’era tenuto, inebriato dalla sensazione di riuscire senza dover
provare davvero, senza doversi
sforzare, senza dover soccombere alla fatica con il rischio di non ottenere ciò
per cui ti eri tanto impegnato.
Schiavo dell’entusiasmo per le cose sbagliate – non era il risultato, a doverti
riempire della voglia di giocare, ma il divertimento che provavi mentre giocavi – l’aveva sfruttato con
la noncuranza con cui si respira, con l’ovvietà con cui si cammina mettendo
meccanicamente un piede davanti all’altro, passo dopo passo.
Era sempre stato facile, era stato come andare in bicicletta: imparavi una
volta e non lo dimenticavi più, e con il tempo non avevi bisogno di pensarci,
salivi in sella e basta, pedalavi ancor prima di accorgertene.
Il talento era stato il fido compagno che gli aveva spianato la strada persino
quando non lo aveva chiesto, lo aveva portato all’apice in un attimo e non
aveva chiesto nulla in cambio; nulla che vedesse, e quando era venuto a
riscuotere era stato tardi per accorgersene o smentire, per fingere che il
talento fosse stata un isolato colpo di fortuna.
Il prezzo da pagare era stato un conto molto più salato delle lacrime, molto
più amaro della solitudine; ti lasciava senza fiato come la delusione, ti
schiacciava invisibile come la noia, e poi spariva e lasciava solo l’apatia.
Avrebbe potuto chiedersi se ne fosse valsa la pena, e invece si era ritrovato a
guardare gli altri come ombre indistinte prive di attrattiva, a respirare per
noia, e a vivere una vita piatta facendosi scivolare addosso giudizi,
complimenti, parole sussurrate nella convinzione che non gli importasse; perché
il talento lo aveva, e non se ne sarebbe andato, e sperare che sarebbe apparso
qualcuno a strapparglielo via con la forza era un sogno da bambini, di quelli
che prima o poi dimentichi, con il tempo.
La speranza era faticosa, sia da mettere a tacere, sia da alimentare.
«Ti piace il basket?»
Se lo vedo una volta, posso riuscirci.
«L’unico che può battermi sono io.»
Da che ha memoria, ha
giocato a basket ancora prima di camminare, ancora prima di rendersi conto che
quello che faceva era praticare uno sport.
Non gli era mai importato che l’avversario fosse più grande, più forte, suo
coetaneo, che giocasse da tanti anni o pochi giorni; il solo piacere del campo,
della palla fra le mani, la soddisfazione di una finta andata a segno, di un
canestro fatto erano sufficienti. Erano tutto ciò di cui aveva bisogno per
sentirsi bene.
Poterne fare il proprio sport, il “qualcosa” in cui era bravo – in cui
eccelleva – era stata una felicità incontenibile che non avrebbe mai potuto
spiegare, anche se fosse diventato bravo con le parole, anche se fosse stato un
perfetto oratore.
Poi un giorno aveva imparato che quella capacità si chiamava “talento” e che
era quello che molti definivano un “dono”, qualcosa che non potevi comprare né
acquisire con tutto il tempo e l’impegno del mondo, e lui si era sentito
orgoglioso, quasi tronfio, come se la scelta fosse ricaduta su di lui – non
avrebbe saputo dire quale scelta o da
parte di chi, ma non sembrava
importante – lui e nessun altro.
L’aveva odiata.
Il talento aveva distrutto tutto quello che con esso avrebbe voluto far sì
durasse più a lungo possibile, non aveva risparmiato nulla fino a togliergli
ciò per cui aveva avuto bisogno di eccellere: il basket stesso.
Perché se arrivavi ad odiare quello che amavi fare, se arrivavi a pensare che
fosse noioso e non ne valesse più la pena, allora c’era qualcosa – qualcosa di
importante – che se n’era andato; magari nascosto, forse impolverato o solo
dimenticato, ma non riuscivi più a vederlo.
Che senso aveva, senza quella sensazione di adrenalina in tutto il corpo?
Che senso aveva, se non c’erano più sguardi agguerriti ad incrociarsi, se non
c’era la volontà di saltare fino a che le gambe minacciavano di non reggerti
più neanche per un altro passo?
…Che senso aveva, giocare da soli?
«Ti piace il basket?»
Capisco quello che dici, ma non credo di poterci riuscire.
«Ti mostrerò quanto sa essere crudele il basket.»
Ripensandoci ora, non
riusciva nemmeno a ricordare bene perché avesse cominciato la pallacanestro piuttosto
che con un qualsiasi altro sport mai provato fino a quel momento; forse un vero
perché non c’era, ed era per questo che non gli tornava in mente nemmeno
sforzandosi.
Però ricordava perché avesse smesso ciò che faceva prima – qualunque cosa essa
fosse, accantonata da qualche parte della sua mente senza dargli più troppa
importanza – e il motivo si rifletteva nella persona che era ora. Nell’atleta che era ora.
"Ha talento", gli aveva
sentito dire; distintamente, nella sua testa di ragazzino, durante una partita
di basket a cui aveva partecipato solo perché si trattava di una lezione di
Educazione Fisica, si era chiesto cosa significasse. Era così, che lui aveva
incontrato il "talento", così che ci era entrato in contatto.
Non si era mai chiesto se fosse un bene, se fosse utile, se potesse
avvantaggiarlo o meno. Tuttavia, con il tempo ed altri tentativi di trovare
quel qualcosa in cui puoi essere bravo come gli altri – più degli altri – era diventato qualcosa cui dipendere in modo
sbagliato.
Lui, che uguale agli altri non lo era stato mai anche solo a guardarlo, aveva
istintivamente ed infantilmente cercato qualcosa che potesse renderlo simile a
tutti – avere qualcosa di tuo, in un certo senso – o che potesse distinguerlo
da loro, ma in modo da non farlo sentire diverso come quando te ne devi
vergognare o devi sentirti a disagio.
Il talento gli aveva dato la possibilità di essere "quello che giocava a
basket", e nello stesso istante gli aveva sputato in faccia che senza di
esso non sarebbe cambiato nulla, non sarebbe stato niente, o sarebbe stato
troppo – il troppo che storpiava, mai il troppo che ringraziavi di avere con
te.
La consapevolezza di un risultato ottenuto per la pura casualità di un dono, lo
riempiva di rabbia.
Sempre.
«Ti piace il basket?»
È così patetico da essere nauseante.
«Poiché vinco sempre, ho sempre ragione.»
Mentre muove con un gesto
elegante una pedina degli shogi sulla scacchiera, la
osserva assorto, e pensa che se dovesse descrivere quella disciplina con una
parola, quella sarebbe ‘perfezione’.
La perfezione è stata da sempre la massima espressione con cui poter spiegare
tutto di lui: il suo modo di fare, i suoi risultati, il suo – apparente –
carattere, l’idea che gli altri hanno di lui quando lo vedono passare per i
corridoi, l’opinione che si fanno conoscendolo, il giudizio degli adulti.
Anche il suo basket è perfetto, privo di pecche, privo di debolezze; quello che le persone chiamano ‘talento’ l’ha reso così
e lui non se ne è mai lamentato di certo.
Ha scoperto presto che la sensazione di potere che deriva dall’invincibilità –
di cui era sempre stato facile leggere dai libri e mai altrettanto semplice
credere realmente possibile – è più inebriante di un successo qualsiasi avesse
già raggiunto fino a quel momento. Non si è posto sciocche domande, chiedendosi
come sarebbe stato senza quel dono di cui si ritrovava a poter disporre o se lo
avrebbe sempre avuto, ma ha impiegato il suo tempo in maniera molto più
intelligente: capire come sfruttarlo al meglio.
Tanto oggi quanto allora, scende sul campo con la consapevolezza che vincerà –
non avverte l’agitazione dello scontro perché da esso non si aspetta mai
davvero qualcosa, la paura di non farcela non lo coglie, perché sa che semmai
dovesse esserci qualcosa ad ostacolarlo, la noterebbe con talmente tanta
facilità che aggirarla sarebbe un gioco da bambini.
I compagni di allora sono gli avversari di oggi; li guarda, e sa che è inutile.
Non ha sbagliato.
Aveva ragione.
«Ti piace il basket?»
Nemmeno loro possono nulla contro di me.
Il talento li ha trovati.
Loro l’hanno sfruttato.
"È un dono", gli hanno detto.
Somiglia più ad una maledizione.
Sproloqui
vari di fine shot
Innanzitutto,
mai più scrivere di Akashi senza venti capitoli di background come minimo.
*muore*
Ora, qualche spiegazione per le povere anime arrivate alla fine.
L’idea è stata folgorante, sebbene io non ricordi la causa scatenante, ma in
generale era provare ad analizzare la Generazione dei Miracoli con annesso
talento in senso negativo, per cambiare da quella che sarebbe forse la norma. A
mio avviso un talento può essere un’ottima cosa, ma al tempo stesso porta anche
all’isolamento da chi non lo possiede; è questo che volevo cercare di far
arrivare. Se io ci sia riuscita è un’altra questione *ride*
All’inizio volevo inserire anche Kuroko.
Tuttavia, lui è l’unico che ne è ‘uscito’ prima ancora di lasciare le scuole
medie. È l’unico che prima degli altri – e alcuni non ci sono ancora arrivati –
ha capito quanto importante fosse la squadra, prima ancora del singolo
individuo e della singola capacità; inoltre, per stessa ammissione di Aomine
(se la mia memoria non fa cilecca), Kuroko è l’unico della Kiseki
ad essere considerato senza talento, specialmente prima che Akashi lo scoprisse
come giocatore.
Ho ritenuto quindi opportuno lasciarlo fuori.
Mi pare di aver detto tutto, perciò non mi dilungo
oltre. *fa puff*