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Autore: avalon9    18/03/2007    1 recensioni
Gli youkai sono essere terribili: affascinano e uccidono. Sono esseri diversi. I ningen sono insignificanti, per uno youkai; creature semplici, irrazionali, che trascinano la vita senza comprenderla. Dei ningen gli youkai non si curano; li ignorano con superiore indifferenza.
Sesshomaru è youkai ed è orgoglioso della sua essenza. Ma un inverno, incontrerà una ningen e, da quel momento, la linea netta che separa uomini e demoni inizierà ad assotigliarsi.
Genere: Romantico, Malinconico, Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Sesshoumaru
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ciao a tutti

Ciao a tutti!

 

Come vedete, sono riuscita ad aggiornare senza lasciar passare troppo tempo. Tuttavia, è più un episodio sporadico, dal momento che sono sotto esami e non ho proprio tempo per continuare la fanfic (che, assicuro tutti, passassero cent’anni, voglio finire).

 

Bene. Adesso passiamo al capitolo, che non procede per nulla nella narrazione presente, ma ci trascina nel passato, permettendoci di vedere, attraverso una finestra mentale...Che cosa? Per saperlo, basta leggere. Se ve lo dicessi non ci sarebbe gusto, no?

 

Buona lettura, e grazie infinite a tutti coloro che leggono, e in particolare a Jame, che commenta sempre ogni capitolo.

 

Buona lettura!

 

P.S.

Non m’intendo molto di strategia militare; ho provato a documentarmi e ho studiato le varie tecniche possibili, anche se una cosa è leggere e un’altra è vederle in pratica in simulazioni e simili. Spero comunque che risulti sia abbastanza realistico sia no troppo confusionario.

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO 39

VERITA’

 

 

§§

 

Pallore.

Terreo. Freddo. Indifferente. Un viso inespressivo, cementato in lineamenti determinati. Due occhi d’ambra scrutavano inquieti, oltre la sottile cortina di nebbia e foglie. Cercavano. Vagavano. Confondevano il presente e il passato. S’intrecciavano con ricordi e verità. Incredule. Inaccettabili.

 

La mano si mosse in un gesto lento e consueto. Un ordine. Uno dei tanti. Il più pesante di tutti. Perché era carico di frustrazione. Di rabbia. Di dolore. Come si era potuti arrivare a quel punto? Perché non aveva notato nulla prima? Perché?

 

Una mano sulla spalla. Un contatto sicuro. Un conforto. Di chi comprende il dolore e l’angoscia. Di chi capisce. E ne soffre. Non si mosse. Continuava a scrutare il palazzo. Quelle mura che tante volte lo avevano accolto. Da amico. Continuava a osservarlo, percorrendo il perimetro della cinta esterna, scalando le torri e affondando nell’ombra dei giardini. La tranquillità della notte rotta dal clangore del maglio. Laggiù, si stava preparando una guerra. Si stava preparando la morte. Senza senso. Un desiderio folle e insensato. Una volontà di conquista e rivalsa senza motivo.

 

“Gli uomini sono in posizione. È ora”

 

Inutaisho annuì. Non voleva combattere. Non voleva doverlo uccidere. Anche se il Sensei glielo aveva ordinato. Era uno youkai, e la morte gli era compagna fin dalla nascita. Come lo era la capacità di uccidere senza rimorso. Semplice deformazione. Affondare gli artigli in un corpo, sentirne gli spasimi e strapparne la vita non gli procurava né ribrezzo né gioia. Era la sua natura, che lo portava a uccidere, a cercare il confronto. A provare sempre a se stesso i propri limiti, per poterli superare. Per poter vincere. Tuttavia…tuttavia in quegli istanti si chiese se davvero cercare il potere bastasse di per se stesso. Se davvero fosse solo il desiderio di possedere una forza sempre più grande a spingerlo avanti, ad avergli fatto conquistare terre e regni. Ad averlo reso un condottiero invincibile.

 

Possedeva una spada capace di dargli il controllo su tutti il loro mondo; possedeva ricchezze, territori, gloria e presto avrebbe avuto anche un erede. Un figlio del suo sangue. Forte e puro come lui stesso. Come la sua stirpe inviolata. Un figlio da crescere e vedere camminare, fiero e bellissimo. Vincitore. Il più grande orgoglio.

 

Era per questo che lei non gli era al fianco. Era per questo che Inutaisho aveva ordinato alla moglie di non seguirlo in battaglia. Questa volta, avrebbe dovuto restare a palazzo. Per la sua incolumità. E per quella del bimbo che portava in grembo. Un campo militare non era certo il posto più indicato per una primipara, anche se era una yasha. Una delle più potenti.

 

Perché era lì, e non accanto alla sua sposa, attento a cogliere il battito leggero di quel nuovo cuore, i suoi movimenti? Mancavano pochi mesi ormai, e il piccolo già scalciava, strappando alla madre una smorfia velata di sorriso. Sarebbe stato un guerriero. Il migliore mai nato. La sua creatura. Una parte di se stesso. E allora perché adesso era lontano? Per quale maledetto motivo aveva dovuto prendere le armi e marciare contro di lui? Contro un amico?

 

<…per il potere…>>

 

Già. Risposta semplice. Schietta. Annichilente. La colpa di quell’assurda battaglia ormai imminente era la semplice brama di potere. L’avidità che loro demoni avevano sempre rinfacciato ai ningen e di cui erano a loro volta preda. Esseri superiori? Sciocchezze. Voci false e mentoniere. Voci. Messe in giro fin dai tempi più antichi per intimorire e mettere soggezione. Per fingere una linea di demarcazione netta e insuperabile. Solo sciocchezze. Loro demoni non differivano di molto dai ningen: avevano sensi più sviluppati e capacità quasi divine, ma erano preda di sentimenti come tutti. Odiavano, disprezzavano, sapevano cosa fosse l’invidia e il desiderio. Sapevano adirarsi e perdonare. Sapevano…amare.

 

Molti lo rifiutavano. Molti si dicevano intoccabili da sentimenti del genere. Li negavano storcendo il naso e la bocca con disgusto. Inaccettabile, sentenziavano. Lui no. Inutaisho li aveva scoperti e non li aveva rinnegati. Sarebbe equivalso a disconoscere il suo futuro figlio. Sarebbe equivalso ad accettare di averlo concepito solo per dovere, solo per dare un erede alla stirpe degno di questo nome. Li aveva accettati. E la sua forza aveva iniziato a crescere. Lentamente, ma sempre con maggior intensità. Continuando a superare gli altri Principi, continuando a superare se stesso. I livelli che aveva raggiunto li doveva alla sua natura demoniaca, ma anche a quella parte umana che aveva scoperto esistere in lui. Diversa da quella dei ningen, e tuttavia presente. Palpitante.

 

Ricacciò indietro il lungo mantello di pelliccia in un gesto abituale. Ogni volta che era nervoso, ne tormentava il pelo soffice e vaporoso. Lo arrotolava fra gli artigli, lisciandolo e annodandolo di continuo. Scaricava con gesti secchi e spezzati la tensione. Chi lo avesse visto da lontano lo avrebbe detto perfettamente tranquillo e sicuro di sé. Ma gli amici che gli stavano al fianco vedevano perfettamente il movimento frenetico della sua mano.

 

<<…perché amico mio?...>>

 

*****

 

I soldati furono colti di sorpresa dalle truppe d’assalto di Inutaisho. Erano arrivate a poca distanza dalle mura nemiche, silenziose e non viste, scivolando nelle ombre sicure della notte. Poi, un ululato di lupo. Inatteso, nel silenzio irreale. Secondi. Secondi interminabili. Chi ci aveva fatto caso aveva stretto l’asta e scrutato nell’oscurità. Non era zona di lupi, quella. Ancora silenzio. Solo silenzio. Falso allarme.

 

Il tempo di girarsi e sentire la morte prenderti, entrando in te con le fauci di un lupo. Hidoshi, al segnale, aveva atteso un istante e poi aveva scatenato il suo reparto. Un impatto improvviso che produsse grida di allarme e sorpresa, un clangore di tuono che percosse tutta la valle, urtando i fianchi dei monti e perforando il cielo, e saliva ancora, spinto in alto dalla foga degli uomini dell’inuyoukai.

 

Gli uomini di Morigawa ondeggiarono sotto la furia dell’attacco inaspettato; si dispersero senza prestare ascolto ai loro comandanti. Nessuno pensò a sbarrare la spessa porta di quercia del portone principale: rimase spalancata verso la corte interna. Un invito da non rifiutare. E mentre le zuffe si accendevano sempre più numerose e violente fuori il perimetro delle mura e nella piazza d’armi, Inutaisho irruppe nel castello seguito dai suoi uomini.

 

Il secondo reparto si disperse velocemente fra i corridoi di legno, calpestando tatami preziosi, squarciando paraventi e abbattendo fusume, uccidendo chi cercasse di opporre resistenza. Inutaisho aveva dato ordine che nessuno si fermasse a spogliare i cadaveri finche la battaglia non fosse terminata. Si cercava solo il varco nel nemico per trafiggere e ferire, per sfoltire con il ferro il nemico. Per far cessare tutto.

 

A un cenno di Inutaisho, un soldato che era rimasto sulla porta iniziò ad agitare dei ventagli e l’ultimo battaglione, quello di Kumamoto, prese a scendere lentamente verso la fortezza, sbarrando la strada ai fuggiaschi, mentre gli uomini di Hidoshi iniziarono lentamente a ritirarsi. I soldati di Morigawa, vedendoli arretrare, convinti di potergli ancora battere se si fossero organizzati, serrarono le file e iniziarono a premere contro i nemici, fino a uno scoglio roccioso che si ergeva a cento passi sulla sinistra, dove le truppe di Inutasiho si volsero e si diedero alla fuga. Gli avversari allora, presi dalla furia del combattimento, ubriachi per le grida, il sangue e il fragore delle armi, entusiasti per la vittoria che credevano di aver già in pugno, si gettarono al loro inseguimento per annientarli.

 

A quel punto, un altro ventaglio si abbassò repentino nell’aria e Kumamoto fece avanzare i suoi dodici battaglioni insieme a passo cadenzato, scaglionati su una linea obliqua. Appena superato il leggero dislivello del terreno, fecero breccia nel fronte nemico, sbaragliandolo per poi passare oltre. Dietro di loro, in linea obliqua, venivano gli altri, demoni delle pianure, con le lunghe yari dalla punta dritta abbassate fino alla terza fila, mentre i fanti della retroguardia mantenevano ritte le naginata ricurve, facendole ondeggiare al passo cadenzato. Un tintinnio metallico di armi e corazze, angoscioso presagio. Suono di morte.

 

Gli uomini di Morigawa cercarono di stringere i ranghi, piantando le lance a terra e opponendo le punte al nemico che avanzava sempre più velocemente, ormai a passo di corsa. Ma ormai giunto a tiro, l’ultimo squadrone di Kumamoto fu scavalcato da demoni alati, fino a quel momento rimasti nascosti nelle retrovie, che si abbatterono sugli avversari. Una conversione, e subito seguì la seconda ondata e poi la terza e di nuovo la prima. A quel punto, Kumamoto fece assumere ai suoi uomini una formazione a cuneo e vi si mise alla testa, mutandosi in un superbo cane dal pelo marrone, quasi dorato sotto i riflessi argentei della luna. Caricò nel mezzo, guidando i suoi uomini nelle file avversarie e colpendo nel mezzo dei ranghi avversari, sbaragliandoli definitivamente, fino ad arrestare la sua corsa al fianco di un magnifico lupo nero. Hidoshi.

 

I due demoni ripresero aspetto umano e spazzarono con lo sguardo la devastazione da loro provocata: corpi lacerati, principi di incendi, sangue che scorreva a confondersi con il fango e rendeva scivoloso il terreno. Una carneficina. Insensata. E su quella moltitudine di cadaveri i loro uomini danzavano come fuori di sé. Ebbri del sangue e della vittoria.

 

Inutasiho?”

 

Hidoshi si limitò a girare il capo, indicando il palazzo dove il generale aveva fatto irruzione con i suoi uomini. In quel momento, ne stavano uscendo i prigionieri e la Signora del palazzo. Kyoko. Pallida e stravolta. Quasi delirante. Continuava a dimenarsi, cercando di tornare nel castello. I due demoni la presero subito in consegna, assicurandosi che stesse bene e disponendo perché non fosse fatto del male alle yasha e ai sopravvissuti.

 

Non ebbero il tempo di scambiarsi una parola che un’esplosione dilaniò il corpo centrale dell’edificio, costringendoli a cercare riparo dai detriti e dal fuoco. Una fiamma sanguigna si alzò a frustrare l’aria, avvolgendo la torre fino a farla schiantare al suolo, mentre urla disumane si mischiavano al fischio delle fiamme. Alla luce sanguigna, si delineò una figura, barcollante. Inutaisho.

 

*****

 

Morigawa

Erano cresciuti assieme: loro due, Kumamoto e Hidoshi. Frequentavano con lui le lezioni del loro precettore, tranne Kumamoto, che era più grande e quindi dipendeva dal Signore per la sua educazione e il suo addestramento.

C’erano altri ragazzi a palazzo, figli di alleati, di dignitari, ostaggi…Ma fra loro quattro era nata fin da subito un’amicizia particolare. Un rapporto di complicità che si erano giurati che non si sarebbe mai spezzato. Quattro caratteri, diversi e a volte opposti, fra loro ostili ma capaci di integrarsi e accettarsi reciprocamente, fra intemperanze ed eccessi.

 

Hidoshi era il più impulsivo, seguiva l’istinto che caratterizzava la sua natura di ookami, un’astuzia pronta e quasi ferina, non ancora levigata e piegata dal costante esercizio. Non sopportava assolutamente la costrizione delle mura; era cresciuto libero nei boschi e nelle praterie, agguerrito e pronto alla provocazione, tanto che era sempre pronto ad azzuffarsi anche con demoni più grandi di lui, con il risultato che era costantemente pieno di lividi e graffi, quasi sempre impresentabile nelle cerimonie di corte e alle occasioni ufficiali.

 

Inutaisho aveva legato fin da subito con il ribelle ookami, facendosi spesso trascinare in giochi e scherzi che avevano quasi sempre di mira il loro precettore. Il giovane principe aveva di per sé un carattere aperto, anche se non così sfacciato come quello del demone-lupo. Era testardo e molto orgoglioso, conscio del suo ruolo e del posto che un giorno avrebbe dovuto occupare, per cui, tanto era favorevole e dimenticare la propria condizione e a mettersi alla pari con dei subordinati, altrettanto era veloce nel ristabilire le gerarchie, soprattutto se qualcuno si azzardava a mettere in dubbio le sue capacità. C’erano momenti in cui Inutaisho mostrava il volto del bambino, quello furbo e scaltro del ragazzo di stalla, con la risposta pronta e sprezzante, con la passione che accendeva le iridi d’ambra davanti anche ad una sciocchezza o per la voglia di conoscere, per quell’inesauribile desiderio di sapere che aveva. Ma c’erano anche momenti in cui sembrava più adulto della sua stessa età, con il portamento fiero e la sguardo freddo e tagliente. In quei momenti, la parte umana della sua anima, quella che non si vergognava mai di mostrare, scompariva. Inghiottita dal gelido lato demoniaco. Quando i suoi occhi si assottigliavano e indurivano, le labbra si serravano come incise nel marmo, in una distaccata superiorità, chi lo conosceva bene sapeva che era pronto a sostenere la sfida, a ricoprire appieno il ruolo cui era chiamato come Principe.

 

Fra Hidoshi e Inutaisho, la razionalità estrema e pacata era rappresentata da Kumamoto, che calibrava gli eccessi dell’ookami e stemperava la rigidità di corte dell’inuyoukai. Il padre di Inutaisho glielo aveva messo al fianco perché lo proteggesse e si instaurasse fra loro un rapporto saldo, visto che Kumamoto era il figlio di uno dei maggiori generali del regno. Inoltre, il Signore sperava che domasse il carattere a volte troppo umano del figlio, imprigionandolo nell’algido autocontrollo proprio dei demoni. O meglio, dei demoni superiori come erano loro. Perché la loro antica dinastia non poteva certo permettersi di esser soggetta a discredito solo per le intemperanze di un demone ancora troppo giovane. Anche se era, soprattutto se era, il Principe.

 

In realtà, Kumamoto non era riuscito a frenare Inutaisho, venendone invece conquistato dall’apparente leggerezza con cui affrontava la realtà quotidiana, per poi mutare all’improvviso, perdendo il sorriso e assumendo un’espressione greve e austera. Sapeva dominare con una sola occhiata, imponendosi su ragazzi più grandi senza altro bisogno che la sua persona. Lo aveva visto davvero poche volte ricorrere alla forza fisica per prevalere in una discussione, ma quando accadeva l’inuyoukai ne usciva sempre vincitore.

 

Morigawa

Si era inserito più tardi nel terzetto; ostaggio a palazzo. Isolato, guardato con sufficienza, quasi disgusto. Eppure, non era diverso dagli altri cuccioli di demone presenti al castello del Signore dell’Ovest. Era arrivato a metà della primavera, quando gli uomini iniziavano a riorganizzarsi per riprendere le campagne militari o semplicemente la caccia ai ningen.

Un giorno come gli altri, in cui Inutasiho era entrato nella stanza di Kumamoto, per vederne i molti rotoli che custodiva. Erano ancora due ragazzini, eppure la loro vita già ruotava attorno alla morte, alle battaglie e al sangue. Kumamoto aveva già partecipato ad alcune cacce, mentre Inutaisho aveva inizio già da più di un anno ad esercitarsi nella scherma e nella lotta. Un universo in cui erano nati, privo di abbracci e carezze, parco di elogi e più propenso a schiacciare chi si fosse mostrato debole, fosse stato anche il Principe, più che ad aiutarlo e sostenerlo. Inutaisho era l’erede, e come tale aveva solo il ruolo di continuare, un giorno, la sua stirpe gloriosa, mantenendone alto il nome e dandogli figli puri e perfetti. Una macchina in grado di imporre a tutti la legge degli inuyoukai.

 

“Lo sai che è arrivato un ragazzo della tua età?” gli aveva chiesto Kumamoto riponendo un trattato, mentre vedeva gli occhi del suo amico illuminarsi. Glielo aveva indicato dalla finestra: un puntino nella piazza d’armi, intento a tirar calci ad una palla. Inutaisho era corso giù per le scale più in fretta che aveva potuto, fermandosi sull’engawa ad osservare il nuovo ospite. Curioso e sospettoso ad un tempo. Quel ragazzo era della sua stessa stirpe, un demone-cane. Lo capiva dall’odore, e anche dall’occhiata di sufficienza che Hidoshi gli aveva rivolto, prima si sussurrargli all’orecchio, quasi con disgusto: “Un altro botolo…come se tu non fossi già sufficiente”.

 

Inutasiho aveva sorriso a quelle parole, voltandosi verso l’amico che se ne andava scuotendo la testa e facendo ondeggiare i lunghi capelli neri. Hidoshi non sarebbe mai cambiato. Anche quando lo aveva conosciuto, la prima cosa che gli aveva detto era stata un’offesa simile. Lui aveva risposte per le rime e si erano azzuffati, fino a crollare al suolo ridendo. Amici.

 

“Tirami la palla”

 

Inutaisho si accorse solo in quell’istante della sfera che era rotolata fin ai suoi piedi. La prese e si avvicinò al ragazzo, fissandolo negli occhi neri come la notte. Inquietanti. Aveva assunto un atteggiamento strafottente che non gli piaceva molto. E lui stesso aveva assottigliato gli occhi d’ambra. Voleva sfidarlo?

 

“Come ti chiami?”

 

Morigawa” rispose gonfiando il petto, come se il suo nome fosse già quello di un guerriero che incute timore. “Se hai qualcosa da dire, ti ascolto, perché qui sei il padrone. Ma nessuno può chiamarmi botolo. Specialmente, un lupastro”

 

Morigawa gli strappò di mano la palla, calciandola con precisione e facendole colpire alla testa Hidoshi, colto alla sprovvista. L’ookaimi, accortosi si essersi fatto giocare, lo raggiunse per avere vendetta, ma la mano di Inutasiho lo fermò. Stava ancora scrutando con espressione neutra il nuovo venuto quando le sue labbra si piegarono in un sorriso e i muscoli si rilassarono, mentre gli porgeva la mano.

 

“Benvenuto fra noi, comandante!”

 

*****

 

Ancora fermo appena oltre le shoji abbattute, Inutasiho strinse convulsamente la mano, fino a piantarsi gli artigli nella carne, lacerando la stoffa della manica. Quella stretta era stata leale. Quella volta…Quando erano ancora bambini, si erano stretti la mano senza ambiguità e sotterfugi. Erano diventati amici. Davvero.

 

Avevano vissuto assieme la loro infanzia e l’adolescenza. Morigawa era al suo fianco quando suo padre era morto e lui aveva dovuto salire sul trono antico degli inuyoukai. Era stato con lui nelle molte battaglie; lo aveva aiutato a ristabilire la sua autorità; lo aveva elevato alla carica maggiore del suo impero, affidandogli proprio quei territori che da tempi immemori appartenevano alla famiglia di Morigawa. Gli aveva restituito la dignità che secoli prima era stato sottratta alla sua famiglia.

 

Morigawa era uno della sua stirpe, come Kumamoto. Un inuyoukai. Un possibile candidato al trono se a lui fosse successo qualcosa. Un erede appartenente ad un ramo collaterale, neanche con un qualche vincolo di parentela con lui, ma pur sempre un erede. Tuttavia, Inutaisho non si era mai preoccupato di questo. Lo aveva sempre visto come un saldo punto di appoggio. Fidato. Una fiducia che adesso scopriva tradita. Il tradimento peggiore. Quello di un’amicizia giurato sulla reciproca persona.

 

Prese un respiro profondo e si diresse verso il dongione a cinque ordini, centro del palazzo. Era la cittadella, con la sala del trono. Perfettamente al centro del vasto e articolato edificio, separava le stanze pubbliche dagli appartamenti privati del Principe dell’Est. Ad ogni passo, una parte del suo essere si contorceva, annullandosi, soffrendo. Aveva percorso quei corridoi centinaia di volte, sempre con il desiderio di riabbracciare l’amico. Adesso, camminava fra detriti e legni bruciacchiati, investito dal riverbero del fuoco che stava lentamente consumando tutto l’edificio. L’odore del sangue e dell’olio bruciato si faceva sempre più intenso.

 

Una porta scurita dal fuoco. La sfiorò con la mano. Si potevano ancora sentire i rilievi decorativi che la caratterizzavano. Forme armoniose e delicate, in argento e avorio. Raffigurazioni di battaglia, paesaggi di fantastica bellezza. La schiuse senza sforzo apparente. Eppure, non aveva mai fatto così fatica ad aprirla. Perché farlo significava uccidere parte della sua vita. Distruggere se stesso.

 

Una nube di fumo acre e maleodorante lo investì, costringendolo a ripararsi la bocca con la mano. La sala del trono stava bruciando. Un inferno in terra. L’aria calda e irrespirabile fluttuava gelatinosa, facendo ondeggiare i contorni. E fiamme lambivano sinistre la superba selva delle colonne, con uno scricchiolio inquietante. Sotto il baldacchino, ormai una cortina di fuoco, una figura gli dava le spalle.

 

“Perché?”

 

Inutaisho si era avvicinato, incurante del respiro spezzato, del caldo che gli faceva scivolare rivoli di sudore sul viso. Vedeva solo il suo amico. Vedeva solo Morigawa davanti a sé. E sperava che si girasse per abbracciarlo come aveva fatto infine volte in quella stessa sala. Eppure, sapeva che il passato non ritorna. Che qualcosa fra loro si era rotto. Perso per sempre. E la sua frustrazione e la rabbia non facevano che aumentare nel disperato tentativo di capire cosa fosse stato perduto. E per quale motivo.

 

Morigawa ebbe un sorriso di scherno quando si girò verso di lui. Il grande Inutaisho gli chiedeva spiegazioni. Non capiva perché avesse tramato contro di lui. Ma davvero era così difficile? Davvero non riusciva a capirlo? Era la cosa più ovvia, la più banale. Quasi da vergognarsi del fatto che fosse quella la motivazione del suo agire. Una vergogna ovvia, ma insensata. Perché era la cosa giusta da fare.

 

“Perché ti ho sempre odiato”

 

Odiato. Odiato. Con tutta l’anima. Con ogni fibra del suo essere. Morigawa non ricordava più due bambini che si erano stretti la mano in un pomeriggio di primavera. Non ricordava gli anni trascorsi assieme, gli insegnamenti del Sensei, le confidenze e l’aiuto reciproco. Morigawa vedeva solo il demone che lo superava. Sempre. In ogni cosa che facesse. Lui non sarebbe mai stato al livello dell’amico, per quanto si sforzasse, e questo lo rendeva livido di rabbia.

 

Poteva sfibrarsi, metterci tutto il suo essere, ma Inutaisho si sarebbe sempre trovato un passo davanti a lui. Lui era l’erede degli inuyoukai, lui era a capo di un vastissimo impero, lui aveva quell’autorità e quel potere che la sua famiglia avevano perso da secoli. Forse, quello avrebbe anche potuto sopportarlo; in fondo lo aveva sempre fatto. Lo aveva sempre aiutato come un fratello. Senza chiedere nulla in cambio.

 

Ma dopo quella volta…Dopo che gli era stata rifiutata Sounga…Si era sentito definitivamente umiliato. Isolato. Accusato di incapacità. E tutto per colpa del Sensei. Perché era stato lui a sbattergli in faccia la sua inadeguatezza. In modo chiaro. Inequivocabile.

 

“Perché ti dominerebbe”

 

Poche parole. Poche lucide parole. Taglienti come lame. Affilate come spade. Non era all’altezza. Non lo aveva mai ritenuto all’altezza. Lo considerava un debole. Incapace anche di dominare lo youki di Sounga. Lo accusava di indolenza, di debolezza. Di incapacità a domarla. Si sarebbe fatto sottomettere. Sottomettere. Sottomettere. La spada lo avrebbe piegato alla sua volontà. Lo avrebbe schiavizzato.

 

Quelle parole continuavano a rimbombargli in testa. Perché erano l’accusa della sua inferiorità. Pronunciata davanti a tutti. Davanti a lui, che aveva impugnato la spada sigillandone l’antico spirito demoniaco. Piegandolo a sé e alla sua volontà. Dominandolo.

 

Morigawa scattò. Spada in mano. Sguardo folle e dilatato. Gliela avrebbe fatta pagare. Gli avrebbe fatto ingoiare tutti gli ossequi cui lo aveva costretto. Tutte le umiliazioni subite. La falsa amicizia con cui lo teneva legato a sé. Avrebbe ucciso il dominatore del mondo e ne avrebbe preso il posto. Non per follia. Non perché era impazzito. Ma perché lui non aveva nulla da invidiare a Inutaisho. Nulla. E il fatto che fosse Inutasiho l’erede degli inuyoukai e non lui non era una motivazione bastevole per accusarlo di incapacità. Perché erano solo menzogne. Bugie costruite ad arte. Per impedire che l’erede si trovasse in una posizione scomoda. Che la sua incapacità e inadeguatezza divenissero manifeste.

 

Inutaisho fu costretto a schivare, arretrando sempre di più. Non riusciva a credere alle farneticazioni di Morigawa. Tutto quello era avvenuto solo perché si era sentito sminuito. Perché era convinto che una specie di congiura avesse fatto in modo di sottometterlo a lui e umiliarlo. Solo per impedirgli di mostrare a tutti che il Principe era in realtà un perdente. Incapace di u passo senza l’aiuto dei suoi generali. Che a lui andava la gloria, mentre erano loro a fare tutto il lavoro. A rischiare la vita.

 

No. Falso. Falso. Falso. Inutaisho non ci credeva. Non poteva convincersi che le cause di quell’odio fossero dettate solo dall’invidia. Perché sarebbe stata davvero la rovina della loro amicizia. Se gli avesse detto che gli aveva fatto un torto, che doveva vendicare un vecchio affronto…Qualsiasi cosa. Qualsiasi cosa sarebbe andata bene. Anche che lo voleva uccidere perché gli aveva soffiato una donna. Andava bene anche una motivazione futile come quella. Tutto. Ma non l’invidia. Perché quel sentimento era l’unico che Inutaisho non accettava. Lui aveva sempre diviso tutto con loro. Con i suoi amici. Le gioie come le sofferenze. Bevendo con loro e mangiando il loro cibo. Digiunando con loro ed esponendosi ai medesimi pericoli. Acconpagnandoli in battaglia e rischiando guerre per il loro onore. Trattandoli come pari. Considerandoli suoi pari.

 

All’ennesimo fendente, si allontanò con un salto. Per un istante, lo fissò negli occhi. Pece ed oro. Oro e pece. Lo sguardo di Morigawa era incendiato, ardeva di pura follia. Di rabbia totalmente umana. Di insensata invidia. Inutaisho sospirò. Era perso. Per sempre. Non avrebbe più potuto ricucire nulla. Nulla avrebbe riportato la serenità dell’infanzia negli occhi di Morigawa. E anche lui, dopo quella notte, non avrebbe più potuto perdonarsi per aver ucciso un amico che il suo stesso comportamento aveva portato all’estremo.

 

Si rialzò in piedi con lentezza, ricacciando indietro il magone che gli chiudeva la gola. Le travi del soffitto precipitavano al suolo in una nube di scintille infuocate. Inutaisho socchiuse gli occhi mentre stringeva la mano sull’elsa di Sounga. Rivide altre scintille, altri fuochi. Quelli di un giorno lontano, quando Morigawa gli aveva presentato suo figlio. Il suo primo figlio. Il suo erede. Aveva sperato di poter fare lo stesso. Adesso, invece, tutto naufragava nel riverbero liquido del fuoco.

 

Strinse le mani sulla katana, piegando alla sua volontà lo spirito della spada. Avrebbe scatenato il dragone dell’inferno. Avrebbe vinto. Con la morte nel cuore. Ormai, il potere lo avvolgeva completamente; e si preparò ad attaccare. Morigawa non sarebbe mai scappato, lo aspettava a piè fermo e con il viso deformato dal piacere e dalla gioia di una vittoria. Ormai, non era più neanche capace di distinguere la realtà dell’imminente sconfitta dai suoi folli sogni.

 

“Padre!”

 

Una voce di bambino. Confusa con le fiamme che frustravano l’aria. Inutaisho la colse e assopì d’istinto lo youki che lo avvolgeva. Aveva riconosciuto a chi apparteneva quella voce. Girò appena la testa e scorse fra le fiamme la sagome nera di un bambino. Sentì ancora quel grido disperato, poi la vide accasciarsi a terra. Esausta e tossendo. Sentì lo scricchiolio delle assi; uno schiocco secco e l’odore dell’aria fresca. Si voltò ignorando completamente il suo avversario. Lo attaccasse pure. Non gli importava. Gli diede le spalle e saltò oltre la cortina di fumo e fiamme, sottraendo il bambino alle macerie del soffitto che crollava un attimo prima dello schianto e venendo sospinto lontano dall’onda d’urto del colpo di Morigawa.

 

Avvolse Shin nella sua pelliccia e si rialzò lentamente, ancora confuso e stordito per il contraccolpo. Fra le finestre del fuoco, vide il suo amico trasformarsi in un mostruoso cane nero, contorcersi fra urla spaventose, deformandosi, brillare e poi accasciandosi al suolo. In un silenzio irreale di morte. Fra le sue braccia Shin, semicosciente, aveva distinto solo l’ombra gigantesca del padre proiettata sul muro e un suono profondo e doloroso. Poi, solo il buio.

 

Inutaisho sentì un brivido percorrergli la schiena e d’istinto iniziò a correre, stringendo a sé il fagottino di pelliccia. Non sapeva neanche lui perché quella paura improvviso lo avesse colto, ma era una sensazione istintiva. Se non fosse riuscito a uscire subito da lì, sarebbe morto. Anche se razionalmente non aveva senso, l’istinto gli diceva di correre. Correre. Correre. Veloce. Verso l’esterno. Verso l’aria.

 

Attraversò di slancio l’entrata, e venne sospinto avanti dallo spostamento d’aria di un’esplosione. Aveva squarciato il corpo centrale dell’edificio, percorrendo i corridoi del palazzo alla disperata ricerca di una via di sfogo. Potè solo osservare col terrore negli occhi spenti le fiamme alzarsi fino al cielo, infuocando la montagna lontana e tingendo il cielo basso e nuvoloso.

 

*****

 

Vento caldo. Secco. Vento d’estate. Le ultime manifestazioni di una stagione che declinava. Vento che sa di sabbia.

Scompigliava leggermente le chiome nere, s’insinuava fra l’erba alta facendola ondeggiare come un mare tranquillo; ondate d’argento e d’oliva. Riflessi fiabeschi sotto la luna. E un profumo forte di muschi e acqua. Inebriante.

 

Inutaisho sollevò il viso al cielo terso e scuro. La luna lo osservava nella sua algida lontananza. La luna…la sua protettrice; il simbolo della sua stirpe. L’emblema tatuato sulla pelle, proprio del Clan egemone, dei discendenti diretti. Chissà suo figlio dove avrebbe avuto quel tatuaggio?...Forse sulla fronte come sua madre, forse su una spalla come lui…suo figlio…sarebbe nato presto…E lui forse non sarebbe stato a palazzo. Morigawa era stato sconfitto, ma i suoi alleati, gli ultimi, ancora facevano resistenza. Una fortezza. Una fortezza verso Sud, arroccata fra le rocce. Quasi imprendibile. Doveva conquistarla. Doveva prenderla, per non perdere anche il futuro di suo figlio. Forse non ne avrebbe sentito il primo vagito, ma non avrebbe permesso a nessuno di rubarglielo. A nessuno.

 

Si passò una mano nei capelli d’argento, sciogliendo la coda alta e facendoli ricadere liberi sulla schiena. Era così stanco. Quella battaglia gli era costata più energie di mille scontri. Più sudore e sangue di secoli di conflitti. Gli era costata una parte del suo cuore. Strinse la pelliccia che gli copriva le spalle. Sentiva freddo, anche se era piena estate e l’aria calda sapeva di frutta e sole. Aveva freddo. Molto freddo.

 

Suo figlio avrebbe avuto un padre…ma lui aveva strappato il genitore ad un bambino. A quel bambino che aveva raccolto fra le mani dopo che era nato. A quel bambino che avrebbe dovuto tenere per una spalla il giorno del suo battesimo delle armi. Shin…Come avrebbe reagito quanto glielo avrebbero detto? Cosa avrebbe cercato, cosa avrebbe capito? Era ancora troppo piccolo per intuirne il carattere: forse si sarebbe reso conto che quella era l’unica soluzione possibile, forse avrebbe cercato vendetta, accecato dal suo sangue ancora giovane. L’unica cosa che sperava era che non si perdesse anche lui, che non inseguisse vuote chimere.

 

“Te la senti o vuoi riposare ancora un po’?”

 

Hidoshi lo aveva raggiunto alle spalle, silenzioso come solo un predatore sa essere. Nessuno di loro era mai riuscito a batterlo in quel gioco. Se voleva, l’ookami era in grado di avvicinarsi a qualcuno fino a piazzarglisi d’improvviso a pochi millimetri dalla faccia. Leggero e inafferrabile. Confuso con tutta la natura che lo circondava. Si prendevano in giro come da ragazzi, si rinfacciavano gli sbagli dell’addestramento e gli scherzi preparati. Eppure, fino a poche ore prima lui non aveva mai pensato che la sua amicizia potesse essere un peso per loro. Un ostacolo. Non aveva mai considerato il fatto che potessero sentirsi schiacciare dalla sua presenza. Mettersi in competizione era normale fra ragazzi, ma che questa sana rivalità fosse degenerata fino all’invidia che dilania il cuore non riusciva ancora ad accettarlo. Eppure, era la verità. Sbattutagli in faccia con la forza di uno schiaffo. Colta con disarmante lucidità. Annichilente.

 

Morigawa aveva ordito tutto quel piano perché lo odiava. Perché si sentiva da lui usato e sfruttato. Perché lo riteneva un arrivista, che approfitta del lavoro altrui per coprire se stesso di gloria, ignorando chi davvero aveva rischiato in battaglia, infischiandosene del numero dei morti necessari a soddisfare un suo capriccio. Morigawa lo aveva accusato di essere un tiranno, non un Principe. Il più indegno della sua stirpe.

 

Tuffò la testa nelle braccia e si smarrì nelle ombre del bosco. Quella foresta era immensa e selvaggia. Inviolata. Un intricato labirinto vegetale in cui anche per un demone sarebbe stato difficile ritrovare l’uscita una volta avventuratosi nei suoi meandri vegetali. Un guardiano perfetto. Eterno e incorruttibile.

 

“Non è colpa tua…”. Hidoshi lo aveva affiancato, rivolgendo a sua volta l’attenzione alla boscaglia fitta e silenziosa. Capiva perfettamente come doveva sentirsi l’amico. Le stesse laceranti sensazioni che si rincorrevano nell’animo suo e di Kumamoto. Il primo di loro era caduto. Perso per sempre. Qualcosa era riuscito a entrare nel loro gruppo e lo aveva spezzato. Qualcosa di più profondo e devastante della morte. Se Morigawa fosse caduto su un campo di battaglia, allora…Ma smettere di essere un demone fiero in quel modo, essere condannato a quella pena…forse era peggiore che averlo perso in battaglia.

 

“Anche per voi io sono un peso? Un ostacolo?”

 

Lo sussurrò appena, le labbra premute sulle braccia, un respiro articolato in suono. Era da quando aveva consegnato Shin a Kyoko che voleva far loro quella domanda. Voleva sapere se quelle accuse erano vere o un capo espiatorio cui Morigawa si era aggrappato. Una realtà deformata dalla sua mente, e non la verità.

 

Il silenzio prolungato dell’ookami lo costrinse ad alzare gli occhi su di lui. Un’ occhiata ansiosa e disperata, angosciata. Uno sguardo nascosto dietro una cortina di fili d’argento. Un velo a separarli. Leggero. Perché per la prima volta Inutasiho non aveva la forza di fissare dritto negli occhi l’amico, di sostenerne lo sguardo.

 

Hidoshi continuava a scrutare con apparente interesse le ombre della notte. Avrebbe voluto prenderlo a pugni, ma sapeva che probabilmente era ancora troppo sconvolto per capacitarsi realmente di quello che aveva detto. Tuttavia, una sottile rabbia gli faceva fremere le membra. Idiozie. Stava dicendo solo idiozie. Come poteva anche solo lontanamente passargli per la testa l’idea che fosse un ostacolo? Lui era il migliore di loro, e proprio per questo era un modello. Un esempio che ti spinge a dare sempre il massimo. A sforzarti per non essere inadeguato.

 

Inutaisho aveva gioito con loro dei loro risultati e si era rattristato con loro per gli insuccessi. C’era sempre stato, al loro fianco, nei momenti belli dell’addestramento e in quelli cupi della vita. Li trattava come gli altri quando sedevano al tavolo, in riunione, elogiandoli o riprendendoli come faceva con ogni altro generale. Dominando con la sola forza dello sguardo e il timbro della voce youkai di razze e provenienze diverse, convincendoli della possibilità di vittoria anche dopo la più devastante delle sconfitte. Questo era Inutaisho: un demone d’incredibile forza d’animo e determinazione, di vitalità indomabile, di mente acuta e fervida. Altresì capace, a riunione finita, di prendere loro tre per le spalle e trascinarli a caccia, senza preoccuparsi che la sua immagine non ne risultasse compromessa. Tornando al castello ridendo come un ragazzino.

Una persona poliedrica, che il potere non era riuscito a piegare ai suoi capricci, facendogli semplicemente assumere più facce: maschere che continuamente indossava e toglieva. Rendendo difficile capire realmente chi fosse, quale fosse la sua natura. Solo i suoi amici conoscevano la profonda solitudine che lo accompagnava e la paura che ne derivava: l’inuyoukai era attanagliato dal terrore di ritrovarsi solo, impedito di dedicarsi a coloro che lo circondavano. Dai suoi amici a sua moglie, fino al figlio che presto avrebbe avuto.

 

“Io non rispondo a chi mi pone le domande in questo modo”

 

Hidoshi aveva intrecciato le mani dietro la nuca e si era stirato la schiena. Lui non era e non sarebbe mai stato un ostacolo per loro. La fonte del loro possibile odio. Morigawa si era lascito accecare dal potere; ne era divenuto succube fino a non riuscire più a distinguere la realtà dall’immaginazione. Si era lasciato irretire dai discorsi forvianti e avvelenati dei suoi cortigiani. Si era fatto plasmare senza neanche accorgersene.

 

Inutaisho ridacchiò. Quella risposta era tipica dell’ookami. Sprezzante. Non ci sarebbero mai riusciti: Hidoshi non avrebbe mai accettato il rigore dell’etichetta se non quando proprio era strettamente necessario. D’altronde, cercare di imporgli regole era come pretendere che un lupo cresciuto in cattività avesse il medesimo istinto di un fratello sempre vissuto libero. E in fondo, a lui andava bene così.

 

“Andiamo, botolo. Finiamo questa brutta faccenda, o ti sei davvero rammollito così tanto a star seduto su quel trono?”

 

Inutaisho afferrò la mano che il demone-lupo gli porgeva e ricambiò il sorriso, a metà fra lo scherno e il sollievo. Ma sentitelo…Aveva le occhiaie profonde e un’espressione sfinita e ancora lo canzonava? Strinse la mano e lo strattonò, facendolo finire a terra, nell’erba alta, mentre rideva contento di avergli dimostrato che lui di forza ne aveva ancora e si allontanava tranquillamente verso la grotta.

 

“Chi è che si sarebbe rammollito?”

 

Hidoshi sollevò il braccio, pronto a gettargli contro la prima cosa che gli fosse passata fra le mani, ma lo riabbassò subito, iniziando a sorridere e poi a ridere. Almeno, lo aveva tirato un po’ su di morale.

 

*****

 

Luce fioca. Spettrale. Luce irreale.

S’infrangeva sulla roccia, scivolano sulle colonne calcaree e oscillando al soffio leggero del vento. Stalattiti lucenti percosse dal sudore della terra; lacrime piante in silenzio, senza motivo, in una caverna che si insinuava nel cuore della montagna sacra. Vapore leggero che ammanta la terra. Acqua che evapora in uno sfrigolio appena udibile.

 

Inutaisho si fermò alla fine della galleria scavato dal tempo e dal vento. Una grotta immensa, in cui il fresco delle viscere della terra si confondeva col calore del magma del vulcano. Le pareti trasudavano acqua. La falda lavica non doveva distare molto da quel luogo. Spaziò con lo sguardo tutta la caverna, concentrandosi infine sul globo luminoso al suo centro. Salutò con un cenno Kumamoto che stava per uscire e si avvicinò alla sfera. Piccola. Palpitante.

 

La sfiorò con gli artigli, ricevendone come una scossa e riavvertendo un potere conosciuto sfiorarlo. Morigawa…Quella piccola sfera concentrava in sé l’youki del suo amico. Strappato con un incantesimo proibito. Rubato con gli artigli della magia fusa all’alchimia. Il solo modo per evitare di ucciderlo.

 

Il Sensei non aveva avuto scelta. Quando era intervenuto per impedire che Morigawa uccidesse l’inuyoukai aveva avuto solo due scelte: uccidere il suo allievo o privarlo del suo youki. Renderlo inerme. Aveva scelto di lasciargli la vita. Si era mostrato…clemente. Forse compassionevole della fragilità d’animo che Morigawa aveva mostrato. Lo aveva costretto a trasformarsi e lo aveva dilaniato nell’animo con una tecnica proibita fin dal tempo più antico. Fondendo la sua forza demoniaca a pratiche alchemiche umane. Contaminando fin nella sua essenza la sua natura di youkai puro.

 

Gli aveva sottratto lo youki concentrandolo in quel globo pulsante; lo aveva relegato ad un semplice involucro. Sfinito. Distrutto. Ma almeno, ancora vivo. Il Sensei stesso lo aveva portato fuori dal palazzo in fiamme, restituendolo a sua moglie e ai pochi fedeli della corte che erano sopravvissuti. Morigawa era e sarebbe rimasto incosciente molto a lungo, per recuperare tutte le sue forze. Ma non sarebbe più stato in grado di rompere il sigillo che frenava la sua forza demoniaca.

 

“Sei pronto?”

 

Inutaisho annuì solamente. Sapeva benissimo cosa volesse da lui il Sensei. E che lui solo era in grado di sostenere quello sforzo. Chiuse gli occhi, mentre si lasciva avvolgere dal suo youki e si mutava in un magnifico cane bianco. Ululò al vento il suo dolore e poi piegò docile la testa. Chiuse gli occhi. Mille sensazioni gli attraversarono la mente, gli dilaniarono i muscoli. Percepì il respiro spezzarsi e il cuore smettere di battere. Sentì un freddo innaturale cementargli ogni azione e poi il sangue prendere a scorrere nelle vene con una forza tale che sembrava volergliele spezzare. Forse, stava già sanguinando. Qualcosa di caldo fuoriusciva da lui. Docile al comando del Sensei. Si sentì invadere con violenza, come se stessero cercando di strappargli il cuore, la vita. Strinse i denti in un ringhio soffocato, mostrando la dentatura possente, il sangue che lentamente scendeva a colorare il terreno.

 

Quando riaprì gli occhi, era di nuovo in forma umana, sorretto da Kumamoto, con addosso la sua pelliccia e anche quella di Hidoshi. Faticava a mettere a fuoco i contorni, i suoni gli arrivavano ovattati e gli odori confusi. Chiazze di vario colore davanti all’ambra appannata. Qualcuno lo costrinse ad aprire la bocca. Un liquido caldo in bocca, nella gola…lo stavano facendo bere qualcosa…non aveva sapore…non riusciva subito a distinguere il sapore…

 

Inutaisho allontanò d’improvviso Hidoshi, rovesciando la scodella e cercando di sputare quanto più possibile di quel maledetto intruglio. Volevano forse avvelenarlo? Era disgustoso. Non ci provò nemmeno a immaginare cosa diavolo doveva averci messo dentro il suo amico. Almeno, lo aveva fatto riprendere completamente coscienza. Unica nota positiva. Ignorò l’invito di Kumamoto a rilassarsi di nuovo e si alzò in piedi barcollando. Cercò con lo sguardo il Sensei, ma non lo trovò. Al suo posto, un gigantesca sfera di potere demoniaco, incatenata da zanne e colonne calcaree, stretta nella morse di uno youki. Il suo youki.

 

Il Sensei gliene aveva sottratto un po’ perché avvolgesse e domasse quello di Morigawa. Sigillato. Ora, davvero non avrebbe più potuto liberarsi. E se per caso fosse successo, Inutaisho avrebbe avvertito un dolore inimmaginabile, come se stessero tentando di strappargli il cuore.

 

Si girò facendo ondeggiare il mantello di pelliccia. Ora, era finita.

 

*****

 

L’imbarcazione dondolava pigramente. Era una buona nave, nel legno migliore e più pregiato. Con una vela di seta nera legata all’albero maestro. La prua leggera e scattante, la poppa possente, con un castello semplice, ma comunque degno di una famiglia reale. Degno di loro.

 

Dal pontile, Kyoko la osservava assorta, lasciandosi inebriare dall’aria marina e dal suono placido della risacca. Poco tempo ancora, e avrebbe detto addio alla sua terra natale. Avrebbe lasciato il Nihon per avventurarsi sul Continente. Una terra sconosciuta. Forse più ospitale, forse più pericolosa. Comunque, un altro mondo. Diverso da quello dove era nata e di cui era signora.

 

“Mi dispiace…”

 

Inutaisho le si era affiancato silenzioso. Se solo ci fosse stata un’altra soluzione. Qualsiasi cosa. Invece, l’unico modo perché Morigawa potesse vivere e non fosse più una minaccia era l’esilio. Per lui e per la sua famiglia. La yasha scosse la testa e gli rivolse un sorriso tirato. In definitiva, era lei a voler andare. A non voler lasciar solo il marito. Sperava che la lontananza lo potesse cambiare. Gli restituisse il demone che aveva conosciuto su un campo di battaglia e di cui si era innamorata. Un demone fiero e valoroso. Non un assassino votato ad una insensata vendetta.

 

L’inuyoukai ricambiò mesto il suo sorriso. Una smorfia tirata. Rivedeva Kyoko all’apice della sua bellezza, quando si recava al suo palazzo al fianco di Morigawa. Fiera e altera. Orgogliosa del marito e della sua forza. Da quando lo aveva sposato aveva rinunciato al potere diretto sulle terre che le appartenevano, quasi trasformandosi in una tranquilla hime, eppure, i suoi tratti puri e indomiti rivelavano la natura selvaggia della sua origine, la sua provenienza dal Nord, da un’isola sperduta oltre il mare, avvolta da nebbie, d’oro d’estate e bianca d’inverno.

 

E anche in quella sua scelta, nella volontà di abbandonare tutto solo per seguire Morigawa, riaffiorava il suo carattere indomito. La sua passionale testardaggine.

 

Una yasha li raggiunse. Era avvolta in vesti sontuose, ma che comunque lasciavano intravedere la sua gravidanza. Occhi d’acciaio e capelli d’oro bianco. Uno spicchio di luna in fronte. Inutaisho le diede il braccio e lei vi si appoggiò. Il bimbo nel suo grembo scalciava. Vivo. Ribelle. Indomato. Mostrava già un carattere un po’ troppo combattivo.

 

Kyoko le sorrise complice e le sfiorò la mano. Avrebbe voluto esserci quando sarebbe nato l’erede degli inuyoukai, come loro erano stati presenti quando era nato Shin. Purtroppo, il destino aveva deciso diversamente. Gettò un’ultima occhiata ad Inutaisho prima di salire su una piccola scialuppa e alzò il braccio in segno di saluto. Lasciava il suo mondo. Lasciava gli amici che l’avevano accettata anche se di una terra diversa dalla loro.

 

Il mare inghiottì il vascello, portando con sé oltre l’orizzonte speranze, dolori, sogni e vendette

 

§§

 

  
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