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Autore: _neverdeen    04/09/2012    3 recensioni
Questa è la prima, *vera*, storia che scrivo. E' molto importante per me e vorrei sapere cosa ne pensate, perciò recensite!
INTRO:
C’è chi sfida il mondo, cerca l’inafferrabile, fugge dalle leggi della natura; chi, ormai fiacco, giace lì, tra i rottami; chi svanisce alla velocità della luce. C’è la fine, la notte.
Combattere è l’unica cosa che ci fa sentire vivi. La vita è complessa, riemerge dalle macerie.
E’ tempo di scelte, si torna alla realtà, mentre il vento soffia e spazza via le polveri. Aprite gli occhi, è l’alba.
Genere: Generale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Otherverse | Avvertimenti: nessuno
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Chronicles Of This Time Imperfect.



Intro

C’è chi sfida il mondo, cerca l’inafferrabile, fugge dalle leggi della natura; chi, ormai fiacco, giace lì, tra i rottami; chi svanisce alla velocità della luce. C’è la fine, la notte.
Combattere è l’unica cosa che ci fa sentire vivi. La vita è complessa, riemerge dalle macerie.
E’ tempo di scelte, si torna alla realtà, mentre il vento soffia e spazza via le polveri. Aprite gli occhi, è l’alba.



CHAP 1: DAWN

Lo stelo del soffione che mi rigiravo tra i polpastrelli aveva sbiadito quasi tutto il suo colore. Dei pigmenti verdi era rimasto ben poco ormai ma i petali bianchi erano tutti al loro posto, come se il fiore fosse stato appena colto. Sembravano danzare al suono di quelle note dolci, timidi ma determinati a dare spettacolo di se. Intanto, il menestrello seduto sulle radici dell’albero suonava la sua  amabile melodia, lasciando che il suo cuore sereno parlasse di se attraverso il flauto. Anche la natura intorno era placida; sembrava stregata, catturata dalla dolcezza di quei suoni. I respiri del mondo suonavano all’unisono.  Da lontano, tamburi dissonanti, di tanto in tanto, disturbavano col loro suono sgradevole l’armonia dei suoni a valle. Erano tonfi secchi, troppo discontinui per considerarli tanto, ma che rompevano momentaneamente l’equilibrio del suono. Poi i botti sordi divennero sempre più forti, sempre più frequenti e ridondanti. L’intensità aumentava attimo dopo attimo, la musicalità scemava e il mondo sembrava avvertire l’ansia. Ad ogni colpo la melodia si interrompeva; il menestrello sembrava avere sempre meno fiato e tutta la valle cantava suoni scoordinati. Poi un unico, potente  botto alle mie spalle e il vento forte, burrascoso e caotico. In un attimo, il cantastorie svanì e la musica si calmò. Il vento aveva spezzato lo stelo fragile e i petali del soffione erano volati via, lontano nella tempesta. Solo allora aprii gli occhi.

Un fascio di luce mi aveva colpito gli occhi con la stessa inclemenza con cui i genitori ammoniscono i figli disobbedienti, senza che capissi bene da dove provenisse quel raggio.  Solitamente nessuno entrava nelle mie stanze, erano strettamente private, una sorta di nido, quel giorno invece, una donna dai capelli chiari mi scuoteva , lasciando che la luce entrasse dal corridoio piuttosto che dalla finestra ancora coperta dal tendaggio scuro. Lentamente la mia mente parve attivarsi e solo allora compresi che i tamburi del mio sogno altro non erano che i battiti incostanti della donna sulla spessa porta di legno. Doveva aver bussato per molto prima di chiedere alla guardia di sfondare la porta con quel tonfo sordo. Cercai di parlare, di chiedere spiegazioni e magari anche di polemizzare sulla brutalità del mio risveglio. Odiavo essere svegliata e ancora di più odiavo vedere estranei nell’unico posto che davvero era mio. Per un attimo, incrociai gli occhi della donna, accigliata e indurita dalle mie lente reazioni. Aveva i capelli legati in una coda scomposta e una ciocca le ricadeva sulla guancia destra; nonostante fosse mattino, almeno così pensavo, aveva già una aria stanca e spazientita. Le sue mani callose premevano sulla mia pelle nel tentativo di sbrogliarmi dal groviglio di coperte in cui mi ero avvolta, forse per impedire a quel sogno così placido di interrompersi. Intanto parlava, sembrava rimproverarmi per qualcosa che non capivo.

“Chi sei? E che ci fate voi nelle mie stanze?” Chiesi infine,spazientita. Quel brusco risveglio aveva intontito i miei sensi ma mi era bastato poco per recuperare il distacco e la lucidità. Ora ero io a guardarla con aria corrucciata, l’aria di chi sa di dover ricevere qualcosa, delle scuse almeno, dai due personaggi che avevano disturbato quella quiete.

“Ci scusi, signorina, abbiamo bussato ma non arrivava nessuna risposta dall’interno.” Si affrettò a rispondere la donna, con una voce particolarmente melodiosa e dimessa. “Suo padre mi ha chiesto di venire a chiamarla e di ricordarle che…” Sembrava in imbarazzo, quasi avesse paura di dirmi quello che doveva. Prese fiato e riprese con velocità.” Mi ha chiesto di ricordarle che il mondo non ha intenzione di aspettarla. Avrebbe dovuto raggiungerlo più di un’ora fa e che si aspettava un minimo di rispetto da lei.” Sapevo che il problema era lui, nessun altro avrebbe avuto modo di entrare in quell’ala degli alloggi, scortata da una guardia, senza il suo aiuto. Mi irritava il suo modo di fare, sempre così distaccato, sempre così burbero. Preferiva che tutti avessero un pezzetto del mio orgoglio piuttosto che affrontarmi.
“Capisco. Riferisci a mio padre che sarò da lui quando sarò pronta e solo ad allora.” Sapevo di colpirlo con quel modo di fare e non potevo farne a meno. Guardai la donna annuire e allontanarsi dopo un breve cenno del capo.

Appena la porta fu chiusa, mi alzai dal letto, sbadigliando. Ancora una volta avevano interrotto il mio sonno, spezzato il mio sogno e spaccato il dolce equilibrio delle mie giornate. E tutto a causa di mio padre e del suo stupido e integerrimo modo di fare. Quel fanatismo che detestavo e che l’avrebbe portato ad odiare il mondo e ad essere detestato a sua volta. A volte preferivo non essere mai tornata a Firestein, avrei preferito la vita solitaria, l’eremitaggio, piuttosto che la vita in quella gabbia dorata. Sospirai e andai a vestirmi. Nella cabina armadio giacevano gli abiti che avevano scelto per me, quelli che mi avrebbero resa “la rispettabile figlia di tuo padre”, un membro effettivo della società. Era un vestito beige ricco di ricami stoffa su stoffa, intricati disegni che incorniciavano tutto il petto e che morivano nella vistosa fascia blu zaffiro che mi cingeva la vita e ricadeva in un morbido fiocco. Mi acconciai i capelli in una crocchia delicata e osservai il mio riflesso allo specchio. Impeccabile, forse, se non fosse stato per quel sorriso polemico che mi ero stampata sul viso.
Ero tutto fuorché impeccabile, tutto tranne che perfetta. Quel sorriso non raggiungeva i miei occhi ghiacciati, non solo per loro naturale colore ma per il peso che mi portavo sullo stomaco;i capelli castani che di solito giacevano su un lato della mia spalla e che adesso erano perfettamente legati erano qualcosa che non mi rappresentava affatto e quel vestito era un abominio, come se il mio corpo fosse staccato da me e controllato dalla stoffa, che lo catturava e lo inglobava nella sua morbida pressa.  “Spero tu sia soddisfatto, anche stavolta, padre”.  Dissi allo specchio, poi mi girai ed uscii dalla stanza, pronta ad affrontare quella corte che mi aspettava impaziente mentre il sole raggiungeva la sua più alta posizione nel cielo.


 

  
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