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Autore: Vegeta_Sutcliffe    06/09/2012    5 recensioni
Salve a tutti. Propongo questa storia molto introspettiva e diversa dal solito, o almeno così penso.
Cit: Aveva ucciso, aveva sbagliato e per questo stava per essere punita. Avrebbe dovuto uccidere, avrebbe dovuto sbagliare e se non lo faceva rischiava di essere punita.
Esistevano criteri incorruttibili di verità? Gli uomini erano lunatici, volubili, cambiavano e con loro il mondo, ma la giustizia erano loro o la giustizia trascendeva loro?
“Perché l’hai fatto?”
“Ti avevo promesso che saresti uscita di prigione, se non sbaglio.”
“E non c’era un altro modo?”
“Anche più di uno.”
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bulma, Un po' tutti, Vegeta | Coppie: Bulma/Vegeta
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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E' molto facile, in nome della libertà esteriore, soffocare la libertà interiore dell'uomo. 
Tagore


L’imponente struttura dell’Orange Star High School si ergeva davanti a loro in tutta la sua maestosità.
Una costruzione moderna che vantava la reputazione delle antiche scuole del paese: un preside intransigente, un ottimo corpo docenti e studenti scelti in base al merito, le avevano permesso di essere una tra gli istituti educativi più sospirati da genitori ambiziosi e studenti sognatori di un roseo e non banale futuro lavorativo.
Chi aveva seduto tra quei banchi, aveva poi frequentato prestigiose università e aveva coronato infine le proprie aspettative o i propri sogni che dir si volesse.
Frequentare quella scuola aveva il sapore della vittoria: essere riuscita dove molti altri avevano fallito, essere riconosciuta per le proprie doti intellettive. Ma, una volta averne assaporato il prelibato gusto, restava in bocca l’amaro retrogusto di una possibile umiliazione.
Suo padre era un famoso scienziato e presidente di un’importante azienda e conseguire un diploma con ottimi voti era un curriculum vitae sufficiente per aspirare ad essere l’erede del genitore.
Fin da quando era piccola tutti gli avevano inculcato in testa il desiderio di essere come suo padre, di essere suo padre.
E ora che stava lavorando per realizzare questo desiderio, si sentiva schiacciata dalla paura di deludere le aspettative.
“Eccoci qui allora…”
Disse, mandando giù un grosso groppo di saliva e stringendo maggiormente la mano dell’amica.
“Si, Bulma, ma non rompermi la mano.”
Guardò la ragazza al suo fianco.
Tremava impercettibilmente e i suoi occhi castani erano sbarrati e seguitavano a mirare il liceo.
Era nervosa, era agitata, era preoccupata di non essere all’altezza degli altri ragazzi.
Lei, ragazzina tenace e dalla dura tempra ma dai sentimenti fragili, era la sua migliore amica da una vita.
Era l’unica che non l’aveva derisa, quando, appena bambina di sei anni, dichiarò orgogliosamente alla classe di volere fare la  ‘Cambiatrice’ del mondo.
Troppo stolti i bambini per non prendersi gioco di lei, troppo disillusa la maestra per non elargirle  un sorriso rassegnato e parole di sconforto.
Complimentandosi per i bei vestitini che indossavano, avevano pian piano scoperto che, oltre la moda e le futilità piacevoli della vita, potevano parlare liberamente tra di loro di argomenti importanti, senza che una criticasse o ridesse dei pensieri dell’altra.
“Andiamo ChiChi, la nostra vita da liceali ci aspetta.”
Cercò di incoraggiare entrambe con un sorriso forzatamente spontaneo.
“E’ un peccato che alla fine hai scelto il liceo scientifico.”
Confessò la mora all’amica: dall’elementari non erano mai più state in classi separate.
“Sono contenta della mia scelta, dispiace solo di non poter stare in classe con te.”
“La vita separa…”
L’azzurra scoppiò in una risata sinceramente divertita.
“Basta con questi discorsi da casa di riposo. Siamo giovani e belle, godiamoci la vita.”
Disse e incominciò a correre, costringendo l’amica a seguirla.
“Non voglio essere rimproverata il primo giorno. Andiamo in aula magna a sentire il discorso del preside.”
Si sentivano grandi, stavano correndo verso il futuro e si sentivano grandi.
Appena varcato l’ingresso della scuola, girarono su se stesse, con espressione stupita, ispezionando tutto, anche il più minimo e infimo dettaglio di quella scuola.
I corridoi lunghi e larghi, le aule enormi, professori costretti in seri vestiti e ragazzi, tanti ragazzi.
Ragazzi loro coetani, ragazzi più grandi. Ragazzi con la faccia pulita e la divisa in ordine, ragazzi trasandati e smaliziati.
Si sentivano piccole, il loro futuro era arrivato, diventando presente, e si sentivano piccole, terribilmente piccole.
“Come facciamo a trovare l’aula magna?”
“Chiediamo in giro.”
Rispose ovvia e intraprendente l’azzurra.
I suoi occhi celesti, brillanti e intensi, scrutavano minuziosamente ogni volto, studiandone la fisionomia e cercando di intuire, con una prima occhiata, il carattere di ognuno, fin quando, curiosi e inconsciamente crudeli verso la sua stessa persona, si fermarono sulla soglia dell’ingresso.
Un giovane carismatico e affascinante stava entrando, attirando su di se gli occhi indiscreti di tutti i ragazzi.
Aveva capelli di pece, acconciati in una singolare pettinatura a fiamma, ossidiana incastonata in due occhi dal taglio crudele. Labbra sottili e naso adatto ai lineamenti severi e spigolosi del suo viso.
Ma ciò che più reclamava attenzione non era la bellezza perfetta di quel volto virile, quanto l’incedere lento e regale di quel corpo non troppo alto, ma muscoloso e ben proporzionato.
Postura dritta e portamento fiero, fisico snello e asciutto, sottratto agli occhi delle femmine dalla divisa scolastica.
Sulla spalla reggeva una tracolla di pelle nera, tra le dita una sigaretta accesa.
Si stupì di vedere la camicia bianca stirata e la giacca a doppiopetto abbottonata perfettamente e la cravatta annodata elegantemente.
Benchè tutti gli studenti fossero costretti a indossare quell’abbigliamento, vedere quel giovane sconosciuto, dallo sguardo misterioso e distaccato, vestito in tal maniera, le recava fastidio.
L’ostentata rigidezza del vestiario cozzava palesemente con la cicca fumante e gli occhi scuri e tempestosi di lui.
Si era diretto a passo cadenzato verso di lei e ora la fronteggiava in tutta la sua eleganza e compostezza.
La scrutava con occhi severi, contraddicendosi con un malizioso sorriso.
Il mondo si fermò per un istante interminabile. Il cuore le si fermò per un istante interminabile.
“Secondo te perché le matricole sono ogni anno sempre più stupide?”
“Come prego?”
Controbatté  risentita a quelle ironiche parole, colpevoli di aver interrotto bruscamente il suo personale sogno sul nuovo ragazzo.
“Ti sto dicendo che sei stupida.”
Rispose fermo e risoluto lui, senza mostrare intenzione di voler cancellare dal suo viso quel ghigno beffardo.
“E cosa te lo farebbe credere, scusa?”
Indagò curiosa.
“Il fatto che sei piantata lì ad osservarmi intensamente da dieci minuti e non ti sei minimamente accorta che sei davanti al mio armadietto. Evapora.”
Si voltò di scatto e notò, con somma vergogna, che si trovava esattamente dove lui aveva detto.
Si scostò veloce e cercò di giustificarsi.
“Scusa è che io… noi cercavamo l’aula magna e non sapevamo a chi chiedere.”
Si era diretto verso il suo armadietto, lo aveva aperto, noncurante degli sguardi femminili sulla sua schiena, e ne aveva estratto un pesante dizionario di greco.
“Guardare una cartina della struttura interna della scuola, affissa ogni dieci metri, ti sembrava un’idea troppo intelligente per te?”
Disse, aspirando dalla cicca e respirandole in faccia.
Bulma tossì di rimando. Non aveva mai fumato e respirare quel fumo dannoso le aveva infastidito i polmoni.
“Bambine” sbuffò indifferente e annoiato, per poi dileguarsi dalla sua vista.
La ragazza strinse i pugni nervosa e furibonda guardava il luogo vuoto, dove prima stava in piedi quell’arrogante.
I suoi allegri occhi azzurri erano diventati mare in tempesta.
Pensava alla maleducazione di quel ragazzo, vestita dalla più perfetta eleganza.
Chi diavolo era? Perché si permetteva di rivolgersi a lei, piccolo genio in erba, in quella rozza maniera?
“Su Bulma, calmati.”
Cercava di convincerla Chichi, sconcertata, ma non ugualmente furiosa, per i modi discutibili del giovane.
“Io lo ammazzo prima o poi.”
Giurò spontaneamente l’azzurra, destando un divertito timore nell’amica.





“Allora?”
Incalzò insistente e fastidioso.
“Io sto aspettando”.
Pronunciò queste parole col tono orgoglioso del vincitore che aspetta gli onori a lui dovuti dai vinti.
Se avesse potuto incrociare le braccia l’avrebbe fatto per palesargli la sua indisposizione. Se i suoi occhi avessero sputato fuoco, l’avrebbe incenerito.
“No, mai!”
“Ai ai, è proprio vero: l’orgoglio uccide.”
Lo guardo sbigottita e contrariata. “Proprio tu lo dici??” Ricordò acida.
Si alzò dalla sedia e gli si portò davanti. Le carezzò la guancia con estenuante lentezza. Saggiava col tatto la morbidezza di quella pelle, studiava con le dita ogni centimetro del suo volto.
“Che…che stai facendo?”
Si irrigidì all’istante al tocco inusualmente tenero dell’uomo.
La vita allontana, ma i ricordi uniscono. Non lo vedeva da anni, eppure le sue calde carezze non erano riuscite a cadere nell’oblio del tempo.
Erano state troppo sospirate per poter essere rinnegate, troppo combattute per poter essere dimenticate.
Eppure quel gentile tocco non era probabile per quell’uomo dal corpo e dal cuore di marmo.
Ieri come oggi Vegeta impersonava la contraddizione.
“Hai una pelle così delicata...”
Le guancie erano colorate di un leggero rossore.
“… Cosa preferisci l’orgoglio della morte senza resa, o la bellezza della vita coi compromessi?”
“Hai sempre la speciale dote di rompere le palle in momenti in cui nessuno potrebbe farlo.”
Cercava di mordergli il pollice, posato sulle sue labbra.
“Certo che sei tutta scema. Prima chiedi il mio aiuto e poi non fai niente per meritarlo. Pazienza aiuterò qualche altro poveretto che mi merita.”
“Non ti basta che ti sto chiedendo aiuto? Vuoi umiliarmi ancora? Perché questo sadico piacere?”
Le lacrime le pungevano gli occhi, quell’uomo faceva sempre vacillare il suo autocontrollo.
Lui incrociò le braccia al petto e la trafisse col suo sguardo glaciale.
“Se sono qui dentro è solo per colpa tua, brutto bastardo!”
Urlò nella sua direzione con le guancie bagnate dalla sua disperazione.
Avvicinò il suo volto a quella della ragazza e le parlò alitandole in bocca. Erano vicini, troppo vicini. Le loro labbra non si toccavano perché i nasi lo impedivano.
“Se sei qui dentro è perché sei una povera idiota che si crede intelligente. Se sei qui dentro è perché ti sei sopravvalutata e ti sei messa contro le persone sbagliate. E se sei qui dentro è solo perché sono stato così generoso da non spararti. E sai che io sono l’unico che ti può fare uscire da qui sana e salva.”
Gocce di sconfitta solcavano il suo viso e pensieri di resa schiacciavano il suo orgoglio.
Spostò  la bocca al suo orecchio.
“La tua vita è nelle mie mani. Ti consiglio di non rivolgerti a me in quel modo.”
Aveva ragione, era solo una bambina troppo cresciuta che aveva giocato in un mondo di grandi, ma se avesse avuto l’occasione di tornare indietro, avrebbe rifatto tutto e con più determinazione.
Tentava di mascherare i singhiozzi con una voce ferma.
“Scusa.”
Ma non poteva essere arrivata la sua ora, la sua vita sarebbe stata totalmente inutile se finiva in quel frangente.
“Perchè?”
Chiese mefistofelico, preparandosi a deliziarsi di una risposta che già conosceva.
“Perché io ho…”
Il suo stomaco era oppresso da un macigno tanto pesante quanto impossibile da dissolvere.
“Io non ce la faccio”.
“Devi.” Le ordinò.
Sospirò e sputò fuori la verità, non curandosi del suo orgoglio che urlava di vincere. Lottava per la vita, non per l’orgoglio.
“Scusa se ho cercato di ucciderti.”
La sua faccia si contrasse in un’espressione di godimento, appositamente mal celato.
“Che dolci, dolci parole che mi hai detto” le sorrise affabilmente.
Nessuna risata di scherno? Niente sguardo soddisfatto? Non scimmiottava le sue parole?
“Tutto qui? Ti bastano semplici scuse?”
Domandò perplessa, ma speranzosa.
“Hai un singolare senso dell’umorismo, cara.”
“Questa risposta non mi piace per niente.”
Le regalò un ghigno oscuro e impregnato di un sadico divertimento.
“Signor Ice, la detenuta deve tornare nella sua cella. Mi dispiace ma deve andarsene.”
Li interruppe una guardia dal volto serio e impassibile.
“Ok.”
Egli uscì dalla stanza, aspettando il momento in cui l’uomo avrebbe lasciato il locale.
“Si è fatto tardi, devo andare.”
“Hai promesso di farmi uscire da questo schifo.”
“Ti fidi di me?”
“No.”
“Bene. Stanotte avrai tutto il tempo che ti serve per pensare a quanto sei stata stupida ad affidarti a me. Ti roderai il fegato, sapendo che, mentre tu marcisci in una minuscola cella, io dormirò nel mio comodo letto con una splendida donna, quando invece dovrei pensare al tuo caso.”
“Io ti ammazzo prima o poi.”
Ringhiò nella direzione di lui, che già aveva imboccato l’uscita.


La sua macchina sportiva aveva raggiunto velocità folli nel percorrere la strada deserta che separava la prigione dal suo appartamento. Questo si trovava nella periferia della Città dell’Ovest. Era un luogo isolato e appartato, l’ideale per chi, come lui, detestava il caos della vita.
Entrò nel suo mondo personale, lasciando la porta aperta e si premurò subito di recuperare la propria libertà. Buttò la giacca nera in terra e allentò il nodo alla cravatta. La leggera camicia, sbottonata distrattamente, seguitava a coprirgli le ampie spalle. Le scarpe furono lanciate senza delicatezza e i calzini tolti con noncuranza.
Si versò dello scotch in un bicchiere di cristallo e si diresse in terrazza.
L’aria era fresca e pungente, ma non abbastanza da scalfire la sua pelle bronzea.
Appoggiato alla balaustra, mirava il cielo e le stelle che lo illuminavano.
Piccoli puntini lucenti in un vasto oceano di oscurità. Erano nulla in confronto all’immensità del cielo, eppure riuscivano a far lume.
Perdendo anche una sola stella, il cielo avrebbe perso un suo punto di forza. Un sua unica peculiarità.
Un ronzio proveniente dalla sua tasca, interruppe i suoi pensieri e la sua serenità. Odiava essere disturbato.
E non si capacitava del perché, benchè fosse l’unico abitante di un palazzo di cinque piani, non riuscisse mai a rilassarsi nel suo silenzio.
“Che vuoi?” esordì vagamente irritato.
“Vegeta, Vegeta, perché sei sempre così scontroso?”
“Che vuoi, Freezer?” ripeté, sorseggiando la bevanda alcolica.
“Come è andata?”
“Bene, ma domani devo tornare da lei. C’è stato poco tempo oggi.”
“Mi fido di te.” Dichiarò serio.
“Almeno tu.” disse sorridendo all’oscurità e riattaccando il telefono.
Non voleva sprecare tempo a cianciare inutilmente al telefono e la dose giornaliera di Bulma, quel giorno, era stata più che abbondante.
Si slacciò la cintura e sfilò i pantaloni neri del completo. Decise di sciogliere i muscoli sotto un potente getto d’acqua calda. Con  le donne ci voleva pazienza e una sana e strana predisposizione al martirio. E lui era certo di essere estraneo a queste due doti caratteriali.
Udì la porta di ingresso essere richiusa e dei leggeri passi dirigersi verso la sua camera.
“Vegeta, ti aspetto a letto.”
Bevve d’un sorso il suo drink e posò malamente il bicchiere sul banco d’appoggio più vicino a lui.
D’improvviso pensò che la doccia sarebbe stato meglio farla la mattina dopo e non per forza da solo.


Il sole entrava silenzioso, ma al contempo invadente, dalla finestra a barre della prigione,  la brandina sulla quale aveva trascorso la notte non era né particolarmente spaziosa né comoda, la schiena le doleva e un’emicrania insopportabile le martellava il cervello e la sua compagna l’aveva resa partecipe delle sue fantasie oniriche, urlando di tanto in tanto il nome di questa o quell’altra persona.
Si issò a sedere e accolse la testa dolorante tra le sue mani. Maledetto Ice!
Motivi per non chiudere occhio la notte ne aveva già abbastanza, non era assolutamente necessario che Vegeta le mischiasse il morbo dell’invidia.
‘Ti roderai il fegato, sapendo che, mentre tu marcisci in una minuscola cella, io dormirò nel mio comodo letto…’
Al diavolo lui e il suo comodo letto. Sperò ardentemente che anche lui non avesse dormito.
Una piccola soddisfazione personale che almeno l’avrebbe fatta stare meglio.
‘Ti roderai il fegato, sapendo che, mentre tu marcisci in una minuscola cella, io dormirò nel mio comodo letto con una splendida donna…’
Una donna. Una splendida donna. Digrignò i denti con rabbia, producendo un fastidioso rumore.
Perché aveva avuto cura di sottolineare quelle parole? Era un povero sciocco se pensava che bastava una semplice allusione per invadere i pensieri di lei.
Lei non era una di quelle donnine di cui si circondava Vegeta.
Quelle sensuali e sofisticate donnine intraprendenti e dal temperamento forte che diventavano cagnolini sottomessi al perverso piacere di un crudele padrone.
No lei non era loro. Lei non gli avrebbe mai concesso né il suo corpo né i suoi pensieri.
Il suo cervello era una tempio inviolabile, in cui lui non poteva assolutamente entrare.
Era un povero sciocco se pensava che lei potesse stare male per lui.
Era una povera sciocca se si era fatta irretire nuovamente nella sua rete.
“Bastardo Vegeta!” gridò stizzita.


*Toc toc*
Si rigirò nel letto, intrappolato nel piacevole torpore della dormiveglia.
Stirò le braccia e toccò un corpo caldo e nudo con il palmo della mano.
*Toc toc*
 Volse lo sguardo all’oggetto ancora non bene identificato che gli stava accanto e, dopo un tortuoso viaggio nelle memorie del giorno prima, si ricordò essere Irene.
Stava ancora dormendo placidamente, rannicchiata nell’angolo in basso del letto, ciucciandosi il pollice. Certo che quella donna assumeva certe posizioni davvero bizzarre per dormire.
*Toc Toc*
Sbadigliò, assonnato dal riposante sonno, e, nudo com’era, si diresse alla porta per aprire.
Appena sveglio vedere Freezer nervoso e incazzato non era il massimo, ma era famigliare. Molto famigliare. Troppo famigliare.
“Sono fuori da dieci minuti. Io odio aspettare.”
Vegeta aprì e richiuse la bocca impastata dal sonno.
“Cosa non odi?” Osò inopportuno.
Lo sorpassò veloce, entrando nello spazioso e male arredato soggiorno dell’appartamento, e si sedette sul divano. Sul pavimento erano ancora disseminati gli abiti del giorno precedente.
“Prego accomodati, fai pure.”
Sbatté violentemente l’uscio e lo raggiunse, sedendosi di fronte a lui, con le gambe incrociate.
“Che ci fai qui?” Domandò, ancora non troppo abituato alla realtà.
“Volevo vederti- rispose meccanico- con i vestiti addosso.”
“Pensa se ero Dodoria…” Insinuò maligno l’immagine dell’indecenza nella testa dell’altro.
Abbassò il suo sguardo, sciogliendo il contatto tra i loro occhi, e si soffermò a mirare il suo corpo statuario e nudo. L’attenzione era ferma, fissa sulla sua imponente virilità.
Un sorriso mellifluo curvò le labbra scure.
“Oggi verrò con te.” Palesò glaciale.
Risentito si alzò dal divano e lo puntò con i suoi occhi truci: “Ce la faccio da solo. Non ho bisogno di te.”
“Lo so. E non ti intralcerò in quello che farai, ma io vengo con te, che tu voglia o no.”
Ponderò attentamente sulle sue parole e scrutava il suo immobile volto, cercando di capire il motivo di quella decisione.
Aveva la chiarezza della’acqua fangosa, torbida e stagnante di una pozzanghera.
“Fa come vuoi. Basta che non rompi i coglioni.”
Voltò le spalle all’ospite e si diresse nella sua stanza per lavarsi e cambiarsi. “Oggi mi offri la colazione.” Urlò in direzione di quello, non curandosi della ragazza che, beata, occupava ancora il suo talamo. Sapeva perfettamente che non si sarebbe svegliata né per un terremoto né per una sparatoria. Strana donna quella!
“Come sempre, d’altronde.” Ricordò infastidito l’uomo sul divano. “Hai un quarto d’ora per fare tutto.”
In riposta alle sue parole sentì il rumore scrosciante dell’acqua.
Si accomodò meglio sul divano e appoggiò la testa allo schienale, chiudendo gli occhi: era stufo di volgere la vista a quell’immenso porcile che era l’appartamento di Vegeta!
Passarono i quindici minuti da lui concessi, e poi altri quindici.
La sua pazienza aveva un limite ben definito ed era consigliabile, a tutti quelli che intrattenevano una qualche sorta di relazione con lui, di non oltrepassarlo.
Ma con quell’uomo, ogni limite, ogni regola, ogni imposizione era totalmente vana e inutile.
Si alzò indisposto dal divano, deciso a sfondare la porta del bagno e trascinare il ragazzo per i capelli in qualunque circostanza si trovasse.
Ma, appena lasciatosi alle spalle il salone, vide Vegeta venirgli incontro e rivolgergli un ghignò derisorio.
“Già ti mancavo?” Disse, stirandosi con le mani tutte le pieghe del vestito.
Gli voltò le spalle e con passo veloce tornò indietro e incominciò a scendere le scale.
Ormai era sordo alle sue parole di scherno. “Seguimi, ora!”


Arrivarono sgommando nel parcheggio del carcere.
“Io ancora sto aspettando il mio caffè.”
“Quanto la fai lunga. Dopo ti offro il pranzo.”
“Sushi!”
“Sì sì.”
Gli faceva estremamente schifo il pesce crudo, ma pur di non sentirlo, gli avrebbe dato la luna.
Entrarono in quel cupo edificio e una sensazione malinconica colpì l’uomo più anziano.
“Quanti bei momenti passati qui.” Ricordò vago e allusivo, allargando quel ghigno beffardo, dipinto sul volto.
Si girò verso Vegeta che non mostrava nessuna emozione, se questa non era né il fastidio né la noia.

 
“Dejavuù.”
Era un suo intimo pensiero, ma lo disse ugualmente ad alta voce. Aveva un matto bisogno di parlare, di non perdere quella capacità unica del genere umano. Aveva bisogno in qualche modo di dimostrare che aveva ancora il lume della ragione.
La situazione, i suoi vestiti, i suoi capelli, le sue occhiaie, il suo malumore, tutto era uguale al giorno precedente.
Quella grigia monotonia le stava distruggendo la sanità mentale. Il giorno dopo magari si sarebbe svegliata, sicura che fosse il giorno prima. Ma che importanza aveva conoscere la data? Martedì o Mercoledì faceva differenza in un omogeneo miscuglio di noiosa abitudine?
“No. Stai esagerando.”
Gli venne spontaneo ricambiare le sue parole con uno sguardo totalmente perplesso.
“Ieri avevo i boxer neri, oggi li ho blu scuro. Non è tutto uguale a ieri…”
L’innocua curiosità subito mutò in un terribile smarrimento.
Le leggeva il pensiero, forse? Capiva i suoi pensieri guardandola negli occhi? O forse aveva gli analoghi pensieri.
“E poi oggi non saremo solo noi due.”
L’aveva sottoposta a qualche sonda o a qualche marchingegno che si insinuava tra le tortuose vie del suo cervello?
Continuava a guadarlo esterrefatta, ignorando inconsciamente le sue parole.
“Mi stai ascoltando?” Richiamò la sua attenzione. Essere ignorato lo mandava in bestia.
“Stanotte non ho dormito tanto e mi sento un po’ intronata.”
“Nemmeno io ho dormito tanto stanotte, eppure mi sento benissimo.” Insinuò malizioso e crudele.
“Spero ti venga l’Aids.” Gli augurò dolcemente crudele.
“Solo quando scoperò con te.”
“Chi ci sarà oggi con noi?”
Cambiare argomento non poteva essere che un bene. Continuare su quella linea significava finire a parlare del passato, di loro due, della sua scelta, dei loro errori. E come risultato finale lei sarebbe marcita in galera, se tutto andava bene…
“Oggi con noi ci sarà una persona che ti renderà particolarmente felice.” Disse falsamente emozionato e eccitato.
“E chi è?” domandò curiosa e ingenuamente felice.
Finalmente qualcuno di piacevole con cui parlare. Avrebbero dialogato di qualsiasi cosa: del tempo, della moda, di macchine, di trucco e capelli.
Distruggere quelle allegre e infantili aspettative sarebbe stato per lui un piacere ineffabile.
“Freezer.” Scandì quel nome con una lentezza estenuante, pronunciando ogni lettera chiara e forte.
Il suo largo sorriso era scemato gradualmente, diventando un’espressione irata e spaventata al contempo, man mano che il cervello recepiva quel messaggio.
Quel nome rimbombava nella sua testa, facendole battere all’impazzata anche il cuore.
“Sai avrà la sua età ma ancora sembra un giovincello. I medici dicono che avrà una vita longeva. Finché nessuno l’accoppa, avrà un’ esistenza pregna di significato.” Dichiarò, ostentando un coinvolgimento che non aveva realmente, ma la ragazza aveva dei repentini sbalzi d’umore che lo facevano stare bene. Passava dalla rabbia al terrore, dallo sconforto alla tristezza in un lasso di tempo oggettivamente brevissimo.
“Fortunato lui e fortunati noi. “ Disse totalmente distrutta.
“Fortunate te, più di tutti. Il mondo è un posto grande e pericoloso e affrontare tutto da soli può essere difficile. Devi stare attenta a dove ti muovi e a chi pesti i piedi.”
“Ogni riferimento a fatti, veramente accaduti, è puramente casuale. Immagino.”
Scherzava con le parole, ma moriva dentro.
“Non se ne trovano in giro persone come te. Sei intuitiva, sei sveglia, sei veloce nei ragionamenti. Hai una faccia pulita che non desta sospetti. Sei brillante, riesci facilmente a circondarti di gente. Di ottima gente.
Hai un fisico slanciato e sei agile, aggraziata nei movimenti. E ancora sei giovane. Troppo giovane e troppo speciale per consumarti qui.”
Quante stronzate riusciva a dire senza che rigurgitasse bile? Adulare le persone era un metodo subdolo, ma vedere l’ego delle persone ingrandirsi e poi sottomettersi era un qualcosa di impareggiabile.
“Non ci casco, Vegeta.”
Si dimenticava sempre che lei non era una persona, lei era Bulma. Sottometterla sarebbe stato arduo, ma lo sforzo sarebbe stato ben ricompensato dall’immagine che lei che piegava al testa a lui e lo spirito al sistema.
“Immaginavo. Poniamo in diversa maniera la questione allora. Hai ucciso 4 persone, tutti membri della malavita. Tutte persone che tu avevi pedinato, spiato, minacciato.
L’omicidio, benché di reietti della società, non è felicemente accolto da nessun tribunale e ora tu rischi di perdere la vita. Tu non vuoi morire.”
 Si irrigidì nella sedia. Sospettava dove l’uomo volesse andare a parare e non le piaceva per niente.
“No, Vegeta.”
“Ti sei già macchiata di un delitto per poterli vendicare, eppure non ci sei riuscita a pieno. La tua coscienza non è sporca, è macchiata. E quelli aloni nessuno potrà mai cancellarli.”
Sospirò prendendosi una pausa.
“I tuoi genitori sono morti e nessuno te li ridarà indietro. Ma loro vivono in te, in te solamente.”
Se non odiasse con tutto il cuore calde lacrime e sciocchi sentimentalismi, si sarebbe commosso alle sue stesse parole, tanto era stato convincente.
“Devi scegliere se morire e uccidere completamente loro con te, oppure continuare a vivere, vendicarli, riprenderti ciò che è tuo di diritto. Nessuno te lo impedirà, anzi ti aiuteremo, ti aiuterà.”
“Il perdono solitamente si paga.” Sussurrò.
“Mai niente è per niente. Però tu per poco, puoi avere tutto quello che vuoi.”
“Dovrei prima uscire da qui, incolume. Chi mi garantisce che succederà?”
Tentò l’estremo tentativo, prima di vendere la sua anima completamente al demonio.
Era ammaliante, era suadente. Quello era un ricatto in piena regola, eppure le sembrava l’unico salvagente in una mare, in cui non sapeva nuotare.
“Ti ricordi quando mi dicevi che la vera forza del mondo era l’amicizia?”
Annuì impercettibilmente e lui continuò: “Freezer ha tanti amici, e muove il mondo come più gli piace. Il giudice che dovrebbe presenziare al tuo processo è un suo amico. L’ha aiutato qualche tempo fa e lui non avrebbe inibizione alcuna a ricambiare il favore.”
“Che schifo! Un giudice dovrebbe essere imparziale. Dovrebbe amministrare la giustizia, farla rispettare.”
“La giustizia la fanno gli uomini. Gli uomini potenti. E Freezer lo è.”
“No, piuttosto la morte.”
Si appoggiò esasperato allo schienale della sedia. Era di coccio quella donna.
“Chi ti dice che la morte non sarà peggio? Hai la certezza di quello che c’è dopo? Sarai in un mondo di luce, retto dalla giustizia o in un’orgia di malvagità?”
“Non lo so.” Ammise.
“Secondo la giustizia divina, quella stessa giustizia che tu dici di seguire, saresti colpevole, perché nessun uomo può levare la vita ad un altro uomo.”
“Ma avevano sbagliato, meritavano di essere puniti.”
“Anche tu hai sbagliato, anche tu meriti di essere punita. Se non in questo mondo, nell’aldilà, se veramente esiste.”
“Sbaglierà anche chi mi uccide allora.”
“Esatto. Con la tua morte perpetueresti quello che nella tua vita hai cercato di fermare. Non farti togliere la vita dagli uomini.”
Se avesse potuto, si sarebbe rosicata tutte le unghia delle mani. Era nervosa, era indecisa, era esortata al male contro la sua volontà.
Pensava di avere le idee chiare, eppure quelle parole l’avevano confusa. Lui l’aveva confusa. Non sapeva se era più importante vivere o restare coerenti a se stessi.
“Collaborare con noi, non vuol dire tradire i tuoi ideali.”
Sì! Quell’uomo usava la magia per leggerle dentro.
“Vuoi la vendetta? Ti ho detto che l’avrai. Cercheremo in lungo e in largo quelli che hanno tramato contro i tuoi genitori e li uccideremo, nel modo più doloroso che esista o in quello più dolce. Li uccideremo come vuoi tu. E alla fine avrai ciò che è tuo. E’ per questo che uccidi, no?”
“Dove sta la fregatura? Freezer mi farà assolvere, ma io gli dovrei un favore, come glielo deve il giudice.”
“Di questo ne devi parlare con lui. Io ti propongo una scelta. E devo sapere quale farai.”
“Ma tu mi dovresti difendere comunque.” Gli ricordò schifata.
“Si, ma il giudice potrà decidere se assolverti o meno. E qualcosa mi dice che lui, spontaneamente opta per un no.”
Tirò un sospiro angoscioso. Non le toccava scendere a patti col demonio, doveva addirittura sottomettersi a lui.
“Ti piacciono i bei vestiti? Le feste di gala? I gioielli e le macchine sportive? Attici lussuosi? La scienza?”
“Si.” disse con la voce tremante e cedevole.
“Nell’aldilà forse non ci saranno.”
La morte era una rinuncia troppo grande per una giovane donna come lei. Aveva un passato da non vanificare e un futuro che l’aspettava a braccia aperte. In forti e robuste braccia. In viscide braccia.
“Mi prometti che uscirò da qui? E che avrò tutto quello che hai detto?”
Tirò fuori dalla tasca il pacchetto di sigarette e ne accese una. Si alzò e le si portò davanti, appoggiandole il filtro tra le labbra.
“Vuoi? E’ tua. Puoi fumare.”
Aspirò con affanno, come un assetato a cui viene portato un bicchiere d’acqua.
Nella foga, posò le labbra sulle sue dita.
Erano così le mani del diavolo? Morbide e calde e profumate?
“Puoi avere tutto quello che vuoi, se stai dalla mia parte.”
Forse non era tanto male come compromesso.
“Ci sto. Sono dalla vostra parte.” Disse distrattamente, troppo presa dal gusto del tabacco.
Un ghigno oscuro e malvagio le sovrastò il capo, ma lei non se ne accorse.
Quante buone cose si sarebbe persa, se non avesse accettato l’invito di Vegeta.
Piegata, sottomessa a lui e non se ne accorgeva. Ma finché il collare non stringe, non si accorge di essere in cattività.

Buonasera gente. :D
Questo capitlo mi ha portato via davvero molto tempo. Ho cercato di essere convincente nel descrivere i dubbi e la fragilità mentale di una condannata a morte. In quelle condizioni, un comune essere umono penso sia davvero molto volubile.
Il quadro si allarga e forse la situazione non risulterà ancora troppo chiara, ma promettò che già dal prossimo capitolo tutto sarà più chiaro.
Anche il rapporto Freezer/Vegeta. Un po' tutto insomma.
Ringrazio vivamente tutti quelli che hanno letto, recensito e seguito la storia in una delle tre liste.
Non mi aspettavo che foste così numerosi e questo mi fa molto, ma molto piacere. =3
Spero che vi sia piaciuto e, se vi va, sentitevi liberi di lasciarmi un commento o una critica. ^^
Grazie di tutto e buonaserata. =)

  
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