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Autore: Shian Tieus    22/03/2007    6 recensioni
Genevieve era una ragazza assai graziosa. Un nasino francese quasi quanto il suo nome, un paio di grandi, rotondi occhi grigi incorniciati in un volto ovale dall’incarnato pallido, a sua volta imperlato fra dei curatissimi capelli lisci come seta, castano chiari, che le scendevano ai lati delle orecchie con grazia, lasciando spazio a due labbra sottili e rosee. Magra e longilinea, tuttavia non era alta; raggiungeva a stento il metro e sessantacinque, con un bacino stretto e una vita esile, un seno che lei reputava troppo piccolo, ma che, al contrario di quanto lei pensasse, se fosse stato più grande probabilmente avrebbe tolto slancio e dinamismo alla sua figura. TITOLO MODIFICATO CAUSA ERRORE LINGUISTICO DELL'AUTORE
Genere: Malinconico, Sovrannaturale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 1: EGO ANGELOS EIMI

Nel sesto mese il Messaggero Gabriele fu mandato da Dio […]
 a una vergine […]. La vergine si chiamava Maria

Vangelo di Luca 1, 26-27

Genevieve era una ragazza assai graziosa.
Un nasino francese quasi quanto il suo nome, un paio di grandi, rotondi occhi grigi incorniciati in un volto ovale dall’incarnato pallido, a sua volta imperlato fra dei curatissimi capelli lisci come seta, castano chiari, che le scendevano ai lati delle orecchie con grazia, lasciando spazio a due labbra sottili e rosee.
Magra e longilinea, tuttavia non era alta; raggiungeva a stento il metro e sessantacinque, con un bacino stretto e una vita esile, un seno che lei reputava troppo piccolo, ma che, al contrario di quanto lei pensasse, se fosse stato più grande probabilmente avrebbe tolto slancio e dinamismo alla sua figura.
Quel giorno, Genevieve vestiva semplicemente, come d’altronde era solita fare: un paio di pantaloni scuri e una anonima maglietta verde. Ai piedi un paio di scarpe da ginnastica.
Quel giorno, una lunga mattina di fine primavera, fuori dalla finestra i petali rosa del ciliegio in giardino volteggiavano lentamente, trasportati dal vento, danzando in ampi cerchi , prima di sparire dietro l’infissa, tutto in un silenzio quasi monastico.
Genevieve , tuttavia, non era in giardino, né guardava i petali cadere, fuori dalla finestra. Era nella sua camera. Una camera piccola e semplice, tuttavia piacevole alla vista: sulla destra la finestra, dalle infisse in legno, dava una piacevole vista sul verde del giardino, macchiato qui e lì dal vermiglio di quei fiori che a sua madre piacevano tanto, nonché sul ceruleo cangiante del cielo primaverile, mentre sulla sinistra c’era il letto, in cedro, fatto su misura da un artigiano del luogo, geometrico e piacevole alla vista, avvolto con gentilezza dalla luce proveniente dalla finestra.
Un comodino sulla destra seguiva lo stesso stile, così come due mensole, più in alto; il primo era occupato da un libro, per cui un biglietto del treno faceva da segnalibro: “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, di Calvino che, seppure l’inverno fosse poco conforme alla presente stagione, era comunque un piacevole passatempo letterario; una lampada da lettura in alluminio sullo stesso mobile tradiva l’abitudine della ragazza a leggere la sera.
Le mensole, invece, oltre a qualche libro sparso in disordine, fungevano da appoggio per una bambola di porcellana e una maschera africana oblunga, inviatale dallo zio dall’africa.
Un quadro raffigurante aironi, dipinto in stile cinese, era a destra delle mensole, mentre, a sinistra, sopra il letto, era incorniciato un carme di Saffo, particolarmente caro alla ragazza per contenuti e stile.
Vicino alla finestra, invece una scrivania ospitava penne e libri di scuola, nonché il suo flauto traverso, nella custodia rigida foderata di velluto rosso, e un piccolo stereo portatile che trasmetteva sommessamente una canzone degli U2, a volume troppo basso per poter coprire il rumore del pianto di Genevieve che, prona sul letto, con la testa fra le braccia, singhiozzava misuratamente espiando i suoi dolori.
A poco servivano le lenzuola con l’allegro motivo a stelle e il poster di Bob Marley, ai piedi del letto, che la ammoniva a lasciare le preoccupazioni dietro di sé.
Piangeva perché la vita era ingiusta, piangeva perché la misura, in un certo senso, era colma. Le lacrime le scorrevano giù dagli occhi, facendo colare il leggerissimo trucco che andava a rigarle il viso.
Piangeva senza parole, senza preghiere, piangeva di quel pianto infelice, quasi liberatorio e al contempo privo di consolazione e di speranza. Lamentava l’ennesimo colpo di una vita che l’aveva delusa. Non meditava la morte, l’annientamento, assolutamente no; la morte la spaventava in maniera indicibile, come è giusto che sia. Ora, semplicemente, piangeva per eliminare ogni pensiero.
Il motivo non è importante. Il motivo è solo una causa passeggera, latrice di ben più profondi scompigli, che emergono, ancora una volta. Il motivo, la causa, è accidentale, il pianto, per Genevieve non lo era; era inevitabile: il tempo, il momento… solo dettagli.
-Genevieve?-
Una voce maschile, dolce, ma sicura. La ragazza pensò per un attimo, stupita, che potesse trattarsi di suo fratello, ma scartò subito l’ipotesi; la voce le ricordava un suo amico, ma le pareva assai strano che lui potesse trovarsi lì, in quel momento. Stupita, si girò di scatto, sollevando il viso dalle braccia e pronunciando il nome di lui.
-Alan?-
-Ouk Eimi Alan- rispose quello. Genevieve impiegò diversi secondi a realizzare chi (o cosa) avesse di fronte, momenti in cui la figura di fronte a lei non pronunciò alcuna parola.
Era un uomo, o perlomeno, si poteva definirlo per sommi capi un uomo; era di colore, tuttavia, al contrario di tutti gli uomini di colore da lei conosciuti, aveva un naso dritto, affatto schiacciato, e labbra sottili, nonché un paio di penetranti occhi verde smeraldo. Aveva spalle larghe e muscoli ben definiti, tuttavia, era longilineo, alto sicuramente più di un metro e ottanta, e aveva stampato sulla faccia un sorriso gentile, con la bocca appena aperta, e piegata da un lato.
Ma le normalità finivano qui.
Innanzitutto, era totalmente nudo, se si esclude un drappo di seta bianca che gli girava intorno alla vita, e che pareva essere sospeso a mezz’aria, volteggiando lentamente come se fosse immerso nell’acqua. Lo stesso effetto era dato dai capelli, mossi e bianchi come la neve. Tuttavia, la nudità, cosa strana, non saltò immediatamente agli occhi della giovane, e anche quando la notò, non provò alcun tipo di vergogna o sdegno. Inoltre, nonostante l’altezza e la massa muscolare, aveva una grazia quasi femminea, sia nell’aspetto, sia nei movimenti, misurati e mai bruschi.
Ma la cosa più sorprendente erano le ali.
Un paio di maestose ali di piume, bianche e dorate, che ostruivano la visione verso tutto ciò che non fosse lo strano essere che, sospeso a qualche centimetro da terra come per magia, le sorrideva.
Aspettò che la ragazza lo osservasse per bene, prima di pronunciare qualsiasi altra parola. Tese una mano in avanti, come per invitare la giovane, poi, con il sorriso che lentamente calava dal suo volto, riprese a parlare.
-Ego Angelos eimi-
Lei lo guardò con un misto di perplessità e stupore, con ancora qualche residuo di pianto in gola, piuttosto stranita dal sentirlo parlare in una lingua ormai morta da tempo; incrinò un sopracciglio, mentre negli occhi si insinuava un tocco di speranza.
-Sei un angelo? È Dio che ti manda?-
Quello ritrasse la mano e, smettendo di fluttuare in aria, poggiò delicatamente i piedi a terra, sul suo volto ricomparve il sorriso, comprensivo, quasi paterno, stavolta accompagnato da un accenno di riso.
-Non ho detto questo- stavolta, non parlò in greco. Fece un cenno con la mano, indecifrabile –E di certo colui che mi manda non ha il potere di permettersi Messaggeri come gli Angeli, che comunque, se vuoi un parere, sono decisamente troppo spocchiosi, per i miei gusti- aggrottò la fronte per sottolineare il suo giudizio.
Era incredibile come in così poco tempo la tristezza avesse lasciato spazio allo stupore, e come anch’esso fosse scivolato via come olio dopo poco tempo. Genevieve, in parte delusa dal fatto che l’essere, nonostante le apparenze, non fosse un angelo, pose quindi la domanda più ovvia.
-Chi sei, dunque?-
-Te l’ho detto- rispose quello immediatamente, con noncuranza –sono un Messaggero- sorrise ancora, forse per tranquillizzarla –Eppure sapevo che non eri malaccio, in greco…- Prese una penna che era poggiata sulla scrivania ed aggiunse –E tu sei Genevieve, giusto?-
Lei si mise a sedere, sempre più confusa: -Si…- fu l’unica cosa che le venne da dire, e poi prounciò forse la domanda più banale fra le migliaia che le frullavano in mente -…e cosa ci fai qui?-
Quello fece scattare un paio di volte il meccanismo della penna a molla, poi la rimise al suo posto e riprese a guardarla.
-Cosa fa un messaggero, secondo te? Porto un messaggio- fece una pausa, poi sbuffò, con aria annoiata e disse fra se e se, a voce appena percettibile –Chissà poi perché me lo chiedono sempre tutti- dopo questa parentesi dall’aria scocciata, tuttavia, lo pseudo-angelo parve ritornare immediatamente a quell atteggiamento gentile che fino a quel momento lo aveva contraddistinto
-Oh, scusa… ma sai com’è… tremiladuecento anni di lavoro ed ogni volta le stesse domande… ma questo non ti interessa; piuttosto, vuoi sapere il messaggio del mio padrone?-
Genevieve rimase attonita, un labbro increspato e l’espressione troppo stupita per poter emettere alcun suono. Il Messaggero, dopo aver aspettato qualche secondo, la indicò con un gesto confidenziale, si morse la lingua, aggrottando la fronte, e si limitò a dire: -Lo prendo per un “sì”- e proseguì, distendendo l’espressione.
-Vedi, la questione è semplice, lui ti vuole parlare… e vuole che tu incontri delle persone, prima di raggiungerlo- alzò le spalle, con la massima semplicità, come se quel breve periodo potesse bastare per spiegare la presenza di un gigantesco pennuto antropomorfo all’interno della camera al secondo piano di una piccola villetta di campagna.
Ancora una domanda banale da parte della ragazza, che ancora non aveva ben focalizzato la situazione.
-“Lui” chi?-
Dopo l’entrata “scenica” e le prime frasi, il tono del Messaggero si era fatto ben più colloquiale
-Il mio padrone… Oh, gia, dimenticavo; non vuole che tu sappia chi sia; vuole presentarsi di persona: fa così con tutti- poi protese le mani in avanti e si affrettò a tranquillizzarla –Tranquilla, comunque, non è una cattiva persona, gli piace solo adombrarsi di un’aria di mistero-
Risposta vaga. Calò d’improvviso un silenzio imbarazzato, che tuttavia il Messaggero si affrettò a dissimulare; diede una rapida occhiata fuori dalla finestra, scorgendo il sole, e ricominciò a parlare con il solito tono amichevole.
-Numi, come è tardi! Non pensavo di aver perso così tanto tempo parlando con Quinto… gambe in spalla, ragazza, non mi è mai piaciuto arrivare in ritardo-
-Ma…- tentò di prender tempo lei
-Su, su… se hai altre domande, ne parliamo durante il viaggio; non per nulla, sai, ma se perdiamo la corsa ci toccherà aspettare ancora- e le tese la mano –Andiamo?-
Jenevieuve non seppe mai perché prese la decisione, così affrettata, forse stupida, di seguire il Messaggero, di cui nemmeno conosceva il nome, tuttavia, i fatti sono inoppugnabili, e i fatti furono che lei si alzò dicendo un flebile “si”, gli prese la mano, e lui, ripiegando le ali per potersi muovere agevolmente, aprì la porta della piccola camera e uscì con passo delicato, quasi da danzatore, conducendo la ragazza con sé, fuori dalla camera.


  
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