I
know you have a little life in you yet
- i
nove mesi di
Annie Cresta -
1. Mani
«Annie, ti posso parlare?», uno
sbuffo di voce che Annie quasi fu tentata di non udire, tanto i suoi
occhi
erano cimentati ad osservare i minuziosi solchi delle sue mani nodose
adagiate
sul suo grembo piatto.
Ad Annie piaceva pensare che le
sue mani fossero un po’ come le corde di Finnick - le
intrecciava, le snodava.
Quelle sue stesse mani che un tempo avevano raccolto conchiglie,
carezzando i
granuli di sabbia, avevano anche risucchiato vite e sciupato sangue.
Erano mani
da carnefice le sue, così come lo erano quelle di Finn. Per
questo utilizzava
le corde, per lavare via il sangue da sotto le unghie, per avere delle
dita
nuove. Ma lei non aveva corde, non poteva far altro che continuare a
fissare le
sue mani e a intrecciare nodi immaginari nell’attesa che lui
tornasse.
«Finnick..» iniziò Johanna con
voce riluttante, deglutendo un groppo troppo amaro che gli fece
riardere ancora
di più la gola.
Ad Annie piaceva pensare che le
sue mani fossero un po’ come delle corde per Finnick
– le intrecciava
continuamente tra le dita di lui. Aveva stretto intorno a lui un nodo,
ma
questa volta Finnick era poco avvezzo a districarlo. Le loro mani
conoscevano
esattamente ogni centimetro di pelle dell’altra. Non si
staccavano mai.
Allora perché la sua mano non era
legata alla sua adesso?
Annie sollevò lo sguardo spaesato
e traslucido su Johanna la quale si sentì mancare il terreno
sotto i piedi e, per
la prima volta in vita sua, anche le parole sulla punta della lingua.
Ad Annie piaceva pensare che le
sue mani l’avrebbero protetta, l’avrebbero salvata
da ogni tristezza, dolore,
mancanze, perdita; per cui, quando Johanna ricominciò a
parlare, le ripose
sulle orecchie, affondandole tra i capelli, premendole contro i suoi
timpani.
«Finnick ti amava
molto»
Ma Annie già era lontana, sentiva
la risacca del mare e la risata del suo Finn.
2. Sale
Quando
era piccola, Annie cadeva
in continuazione.
«Buttaci
sopra un po’ di sale, passa tutto»–
le aveva detto un giorno suo
padre.
Annie era cresciuta con questa
convinzione, soffiando sopra i tagli e le ferite scarlatte che gli
scogli
acuminati le ricamavano sulle gambe legnose e sulle ginocchia.
Una manciata di sale e la ferita
spariva. Friggeva come tizzoni di carbone ardente e l’acqua
del mare non
avrebbe potuto alleviare le sue pene.
Bruciava tantissimo, sì, ma la
ferita spariva.
Quando aveva partecipato agli
Hunger games, Annie piangeva in continuazione.
Sperava che il sale delle sue
lacrime potesse sciacquarle la mente, disinfettarle il cuore gli occhi
dall’orrore
e dagli incubi.
Ma per quanto piangesse, il sale
non le sanò la ferita brutale che i Giochi le avevano
inferto.
Quella macchia imputridiva ad ogni
secondo che trascorreva. La verità è che non se
ne sarebbe mai più andata.
Quando si era sposata, Annie amava
Finnick in continuazione.
Il giorno del loro matrimonio le
labbra ruvide di Finn avevano raggiunto quelle screpolate di lei. Un
solo bacio
al sapore di acqua salata, come voleva la tradizione del Distretto 4.
E il sale le si era incrostato
agli angoli della bocca, dentellandole un sorriso. E mai avrebbe
sospettato che
quel sapore le si sarebbe scrollato di dosso.
«Buttaci
sopra un po’ di sale, passa tutto» – aveva avuto
ragione suo padre.
Anche quel sapore, insieme al suo
Finnick, se n’erano andati per sempre.
Quando scoprì di essere incinta,
Annie vomitava in continuazione.
I singhiozzi le percuotevano le
scapole sporgenti, il terrore la divorava da cima a fondo, le penetrava
dagli
occhi per rigettarlo sottoforma di urla strozzate dall’acqua
e parole
sconnesse.
Buttaci
sopra un po’ di sale, Annie, tutto passa.
Tutto passa, tranne quello.
3. Zollette
Annie immerse le dita nel
barattolo di vetro e, corrucciando le sottilissime sopracciglia,
agguantò
l’ennesimo cubetto bianco e iridescente.
Lo levò al di sopra della propria
testa, strizzò gli occhi abbagliata dalla luce e lo fece
sommergere dagli
spicchi di sole che facevano capolino dalla finestra, scoprendone i
riflessi luminosi
e brillanti che nessun gioiello avrebbe mai potuto emettere.
Annie era stata abituata a quella
luminosità, a quei riflessi, a quelle luci, a quel palco, a
quelle interviste e
sapeva che dietro a tutto quel luccicare si nascondeva lo scempio dei
Giochi e
il sangue delle vittime.
Lo sapeva, la luce l’aveva fatta
uscire fuori di senno.
Gli occhi chiari scrutavano le
finissime sfaccettature rivedendo in ognuna di esse un sorriso, uno
sguardo, un
bacio.
Annie socchiuse gli occhi e le
mani striminzite portarono la gemma zuccherina alle labbra, rese secche
dal
caldo e dalla salsedine.
Un sospiro opaco e la zolletta si
ritrovò imprigionata tra la lingua e i suoi denti; Annie
lottò contro il
palato, ebbe la meglio sulla lingua e alla fine la inghiottì
e bevve la lacrima
che accompagnò quel gesto, beandosi del gusto dolce di cui
tanto aveva avuto
voglia.
Quarantotto.
Annie sospirò e intrecciò le mani
al grembo leggermente rigonfio, torturandosi il labbro con fare
colpevole.
L’ultima.
Il suo sguardo era già saltato sul
barattolo di vetro accanto a lei.
Per te,
Finnick.
La
mano era scomparsa tra i
cubetti nivei facendoli tintinnare tra di loro come tante campanelle.
L’ultima
e basta.
4. Stazione
Lo stridere agghiacciante delle
rotaie del treno, Annie non l’aveva mai sopportato.
Sarà perché fin da bambina i treni
le avevano fatto sempre un po’ paura.
Gli abitanti del Distretto 4
utilizzavano le barche, le navi colorate, piccole e leggere. Non i
treni.
I pochi che salivano su quella
scatola di latta, lunga e scintillante, erano diretti per Capitol City;
solo
andata, nessuno ne ritornava più indietro.
Ecco perché erano così i treni dei
Distretto 4 - vuoti.
Quando Finnick era salito su quel
treno, il suo cuore le aveva sussurrato che quella sarebbe stata
l’ultima volta
che lo avrebbe visto.
Eppure il treno era ritornato, i capelli
ambrati di Finn era spuntati dal finestrino, così come il
suo sorriso e il suo
pugno fermamente serrato puntato al cielo, segno di vittoria.
Una turba di gente fu pronta ad
accoglierlo: vecchi pescatori dai visi rugosi e cotti dal sole, bambini
con
occhi trasognanti e saturi di gioia, padri e madri rincuorati come se
quello
fosse stato il loro stesso figlio.
Quando Annie era salita su quel
treno, il suo cuore le aveva schiaffeggiato in faccia che quello
sarebbe stato
un viaggio senza un ritorno.
Anche quella volta il suo cuore le
aveva detto male – ma non del tutto.
Annie dall’Arena non era mai più
tornata; stava lì, in bilico tra una manciata di incubi e
l’orlo della pazzia.
Lo stridere agghiacciante delle
rotaie del treno, Annie ora lo attendeva con speranza.
La vecchia ferrovia del Distretto
4 adesso era più funzionante che mai. Donne, uomini, con
valigie e pacchetti
erano pronti a salire non più con la paura
nell’animo.
Annie non partiva, Annie non
andava da nessuna parte.
Se ne stava lì, su una panchina ad
accarezzarsi la sporgenza del vestito giallo ocra.
Aspettava che primo o poi da uno
di quei treni scendesse il suo Finnick tutto ridente.
Aspettavano.
5. Barca*
Per quanto
si potesse ricordare del
Distretto 13, Annie sapeva che da lì non avrebbe potuto
guardare il suo adorato
mare.
Aveva provato più volte a
sbirciare attraverso le minuscole finestrelle prima che
l’attacco di Capitol
City l’avesse costretta a scendere giù in
profondità.
Nessuna barca all’orizzonte,
nessuna vela bianca a segnalare il ritorno di qualche pescatore atteso
dalla
propria famiglia.
“Quando torneremo a casa, avremo
una barca tutta nostra, Finn?” aveva sussurrato nel buio del
proprio angolino,
rannicchiata contro il petto di suo marito, con i fischi delle bombe
che le
schiaffeggiavano il cuore.
“Si, Annie. Avremo una barca tutta
nostra. Io la mattina andrò a pescare e tu sarai
lì sulla spiaggia ad
osservarmi finché non sarò un puntino
piccolissimo all’orizzonte. E tu sarai lì
al mio ritorno. Avrò un valido motivo per ritornare a casa,
da te”
Finnick le aveva sfiorato i
soffici capelli neri con le labbra e Annie aveva nascosto il viso,
premendo il
naso freddo contro il suo torace.
Per quando si potesse ricordare
del Distretto 13, Annie avvertiva ancora quel lento vibrare del
materasso
rattoppato sotto di loro, dei sibili delle bombe sopra le loro teste,
di quella
barca instabile che aveva preso il largo nel bel mezzo della tempesta
alla
ricerca di porti sicuri.
Annie guardava i minuscoli puntini
bianchi all’orizzonte, lo stridere dei gabbiani intorno a
quelle vele.
Si massaggiò il ventre con
movimenti circolari, pure linee immaginarie solcavano la pelle della
pancia
rigonfia quasi come a misurarne la distanza, la profondità,
la circonferenza.
“Si, sarebbe stata davvero una
bella barca la nostra” mormorò distogliendo gli
occhi dall’orizzonte. I loro
cuori avevano già preso il largo verso acque più
pacifiche.
6. Pesciolino
Il giorno prima dei Settantesimi
Hunger Games, Finnick le regalò un pesciolino.
Annie se lo ricordava ancora, con
le squame argentate e le pinne arancioni con una spruzzata di rosso sul
dorso.
Non era bello, aveva anche gli
occhi storti tanto che Finn, porgendoglielo nel bicchiere di vetro, lo
aveva
chiamato Sisar, come il noto
presentatore dello show televisivo che precedeva i giochi, che
quell’anno aveva
sfoggiato un look tendente al rosso mattone.
«Guarda come è buffo» - Finnick
aveva puntellato due o forse tre volte sul vetro al punto che il povero
pesciolino dalla sorte sfortunata aveva cominciato a boccheggiare
spaventato e
a scuotere le pinne tremanti.
Annie rise per l’ultima volta
ammirando il suo bel pesciolino.
Il giorno dopo del ritorno di
Annie dall’Arena, il pesciolino non c’era
più ad aspettarla.
Pianse: le lacrime si infrangevano
sulle scogliere delle sue guance rimembrando il suo adorato pesciolino.
«Quando torneremo da Capitol City,
te ne regalerò uno nuovo – te lo
prometto»
Ma Finnick non ritornò più da
Capitol City, nè Annie ebbe più modo di
ricordarsi del suo pesciolino, la mente
offuscata dalla nebbia velenosa dell’orrore dei Giochi.
Il giorno prima della fine degli
Hunger Games, Finnick aveva mantenuto la sua promessa.
Annie poggiò la mano sul grembo alquanto
sporgente, disegnandone il confine e puntellò la pancia con
le dita al punto di
sentire per la prima volta una leggera pressione provenire
dall’interno.
E la sentì, la nuova vita che
guizzava e si agitava dentro di lei.
Annie rise per la prima volta dopo
la fine della guerra, sentendo di amare già quel pesciolino
che Finn si era
ricordato di donarle.
7. Conchiglie
Da
bambina Annie collezionava
conchiglie.
La spiaggia diventava un
firmamento di alghe secche, cocci di coralli e tappeti di conchiglie.
Smussava la sabbia e raccoglieva
tutto ciò che il mare le poteva regalare.
La sua coperta di lana blu celava
tesori preziosi, conchiglie dalle sfumature rosa e madreperlacee,
pietre
azzurre e coralli fiammeggianti.
Con alcune di esse si adornava i
capelli lisci e neri, con altra fabbricava collane e bracciali nella
speranza
che qualche donna del Distretto 4 le volesse acquistare, altre ancora
le teneva
per se e se le rigirava tra le dita sottili, sperando nella giusta
combinazione.
E le incastrava tra di loro,
facendone combaciare i bordi zigrinati ma nessuna era perfetta: una era
rotta,
una era troppo grande, una era sporca, una era a metà.
Lei e Finn erano proprio come
quelle conchiglie. I loro corpi erano porosi e delicati, ad un tocco
maldestro
si sarebbero potuti spezzare a vicenda.
E Finn non la toccava, l’accarezzava;
e Annie non lo baciava, gli soffiava le labbra.
Si univano senza toccarsi, al
buio, senza fare rumore.
Erano conchiglie troppo fragili,
cotte dal sole e corrose dal sale.
Eppure che potevano farci se
avevano dimenticato le cicatrici, gli orrori di Capitol City e si
sentivano
integri solo a contatto l’uno con l’altra.
Ad Annie piaceva ancora
collezionare conchiglie. Le adagiava sulla pancia scoperta con
delicatezza
attendendo una risposta dal suo interno.
Perché tra due conchiglie, anche
se rotte, in mezzo c’è comunque il rumore del mare.
Uno scalpiccio, un guizzo – e già al
loro bambino piaceva tanto il mare.
8. Onde
Acqua.
Tanta acqua intorno a lei.
Era questo ciò che Annie ricordava
della Settantesima edizione degli Hunger Games.
Il sangue, i morti, i feriti, i
nemici, tutti risucchiati dall’acqua.
Affondava lentamente, bolla dopo
bolla l’aria veniva spremuta a forza dai suoi polmoni.
Le braccia si dibattevano, le
gambe cozzavano tra di loro, il collo diveniva lungo, sempre
più lungo nella
speranza della superficie, di uno spiraglio di ossigeno.
Il sangue, il ribrezzo, l’orrore,
tutto era stato disinfettato dall’acqua densa e opaca.
E lei era sola, e lei era l’unica.
Unica sopravvissuta.
Il rumore dell’acqua era troppo
insistente e le otturava le orecchie tanto da non sentire il rimbombo
del
cannone, il rumore assordante di una flebile vita giunta al termine.
Acqua. Tanta acqua davanti a lei.
Annie la scrutava con un cipiglio
inatteso mentre le onde sembravano sfrigolare al contatto con gli
scintillanti
raggi di sole.
La chiamavano mare. La chiamavano vita.
Annie si lasciò trasportare dalla
corrente, dai flutti invitanti che la inducevano a proseguire,
accarezzò
l’acqua oceanica dai riflessi cangianti.
Si avvicinò così, in punta di
piedi, quasi timorosa di interrompere il rumore assordante dello
strascico
delle onde contro il bagnasciuga.
Fece scorrere i nastri di acqua
tra le sue dita, avvolse quel manto blu intorno alla sua fiera collina,
coprì
di un’armatura trasparente le sue scapole sporgenti,
lavò le sue memorie dal
fango dell’orrore.
Acqua. Tanta acqua sopra di lei,
ma questa volta Annie non aveva paura.
C’era calma sotto le onde, così
come c’era il suo bambino sotto gli involucri sgualciti e le
cicatrici che
erano rimaste nel suo corpo martoriato.
Così era giusto affondare. Ed era bello.
Ed era tutto per loro.
Sangue. Troppo sangue su di lei
quando Annie riemerse dall’acqua.
C’era la tempesta sopra il mare. E
il suo bambino era troppo silenzioso.
9. Amaca
Dondolava, dondolava.
La caviglia destra penzolante e il
braccio sinistro docilmente abbandonato al vuoto che si estendeva al si
sotto
di lui.
Finnick amava quell’amaca, l’aveva
tessuta lui stesso con corde di lino e iuta. L’aveva ricamata
con la spuma del
mare, i deboli sorrisi di Annie, i granelli di sabbia, la speranza di
giorni
migliori.
«Non sarà un po’ troppo
debole?»
aveva chiesto una Annie bambina in un giorno lontano, con il naso
arricciato e
i piedini scalzi.
Finn aveva roteato gli occhi,
aveva slacciato le mani da sotto la nuca e aveva portato le ginocchia
contro il
petto nudo.
«Se vuoi salire non c’è bisogno
che tu me lo chieda» e aveva alzato le sopracciglia e stretto
le labbra in un
sorriso.
Annie si era alzata in punta di
piedi, aveva pungolato con i gomiti e con uno slancio si era ritrovata
tra
quelle vele bianche e ruvide che odoravano di mare – che
odoravano di Finn.
«Hai visto-» aveva esultato
Finnick con un sorriso ancora fanciullesco
«-quest’amaca è fatta per essere per
due»
La caviglia destra penzolante e il
braccio sinistro dolcemente abbandonato sulla pancia prominente,
bloccandole
metà della visuale.
Dondolava, Annie.
Le labbra contratte a pigolare una
melodia sottile, cullata da quel dondolio continuo.
Era contenta, era esausta.
Ma dondolava, continuava a
dondolare facendo passare il sottile filo tra le conchiglie bianche e
rosa,
mormorando quella ninna nanna a mezz’aria.
Tintinnavano quelle conchiglie
come tante sonagliere.
E l’amaca reggeva il peso: dei
ricordi, delle morti, delle bombe, delle guerre.
Una fitta acuta proveniente dal
basso ventre e il mormorio di Annie si gelò
all’istante sulle labbra fresche
incitandole un sospiro mentre gli occhi increduli e divorati dalla
paura
ispezionavano il piccolo continente adagiato su di lei.
I loro cuori, lo sentiva,
battevano all’impazzata.
Perché in fondo il loro bambino non avrebbe potuto scegliere
posto più bello dove nascere, in quell'amaca che in fondo
era stata costruita per essere per tre.
. . .
“E’ maschio”
E poi, la vita continua.
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Riferimenti alla canzone This woman's work di Kate Bush.
* La barca allude al ricordo del matrimonio di Finnick e Annie, quando si paragonava la loro unione a un viaggio in mare.
Ebbene si,
sono sbarcata - è proprio doveroso dirlo - anche in questo
fandom. Già è da un po' di tempo che conosco THG,
solo a Giugno mi sono decisa a leggere tutti e tre i libri ed
è inutile dire che me ne sono innamorata. Avevo voglia di
esordire con qualcosa di diverso, non le solite storie di Peeta e
Katniss (che io adoro) ma mi sono conentrata su questi due personaggi e
non sulla loro storia d'amore ma cosa è successo dopo,
ovvero la gravidanza di Annie, i nove lunghi e interminabili mesi. Non
so se ho reso l'idea alla fine, mentre Annie partorisce, il
parallelismo con la morte di Finnick e come la Collins lo ha narrato in
Mockinjay e il fatto che per Annie invece la vita continua, in lei e
nel loro bambino. Vi prego di essere clementi e anche se non sono ben
conosciuti nel fandom di riservagli pochissimi minuti per un vostro
commento, in memoria di Finnick Odair (♥).
Grazie mille per la vostra lettura.
Sil