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Autore: innerain    08/09/2012    1 recensioni
".. Hey, Platypus, indovina un po' chi ti ha portato il Frappucc-"
Si bloccò di colpo.
Sul suo viso, incredulità.
L'incomprensione della realtà, la confusione, il terrore, lo stupore; il caos.
Dipinto su quegl'occhi color ambra, grandi e spalancati.
Seduti davanti a lei, i Green Day.
Uno davanti all'altro; Tré più verso di lei, che copriva parzialmente Mike, seduto al centro, e in fondo, quasi sul lato opposto della stanza, Billie. La mente si rifiutava di capire, il cuore di battere; erano Loro. Non una foto, non un video clandestino su YouTube, non un poster, non il booklet di un CD. Non un sogno.
Erano Loro.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Billie J. Armstrong, Mike Dirnt, Nuovo personaggio, Tré Cool, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Author's note: Al quasi-termine di queste strane vacanze estive, mi trovo di nuovo in camera, di nuovo con la voglia di scrivere, la mente piena di idee, ma le parole che si fanno pregare com'è loro solito.
Però mi sono fatta una promessa - anche se non so a quanti interesserà a questo punto.

Questa fan fiction ha per me un significato ed un'importanza affettiva ed emotiva che va ben oltre quella che si può avere verso la propria creazione o, come tanti si dilettano a chiamarla, la propria "bambina". Tra poco saranno tre anni da che l'ho cominciata - ed ho pensato che il ritmo della storia non è ciò che meriterebbe di essere. Credo che la storia abbia fin'ora progredito poco e ad un ritmo terribilmente lento, solo per colpa di una mia pretesa di tenere il livello di scrittura dei capitoli sempre ad un certo standard minimo - standard che molti mi hanno detto essere discretamente alto.
A questo punto mi rimane una cosa da fare - sia per rendere la storia più interessante ed "avvincente" (per quanto possibile) per voi lettori, sia per riaccendere in me la voglia di scrivere e di continuare questa fic: ho deciso che mi imporrò di scrivere più spesso, ad un livello che non sia necessariamente dei migliori, di non cestinare qualunque cosa tenti di scrivere a priori; cercherò anche di rendere il ritmo più narrativo e meno riflessivo, in modo da privilegiare uno sviluppo di eventi piuttosto che di introspezione.
Ovviamente il mio stile rimarrà sempre introspettivo, perché pur volendolo è come scrivo, quindi non posso semplicemente ignorare lo stile che ho sviluppato in anni di scrittura. Più semplicemente, farò uno sforzo di rendere i capitoli più snelli da quel punto di vista, pur cercando di mantenere un certo livello.

Questo è quindi l'ultimo capitolo ancora pienamente appartenente al "vecchio regime", al quale capitolo ne seguirà uno di transizione tra la prima parte della storia e la seconda, quella che inaugurerà il sopracitato ritmo "narrativo".
Detto ciò, vi lascio, ringraziando di nuovo tutti coloro che mi seguono, che leggono e che commentano, in particolare (e come poteva mancare?) la mia fidatissima e fedelissima Capa, la cui pazienza, fantasia ed entusiasmo mi hanno sostenuto, convinto e spronato nelle mie scelte, nell'ideare la storyline dei prossimi capitoli e soprattutto a non lasciarmi mai sola con la mia pigrizia creativa, la mia abituale mortificazione e conseguente (o precedente?) incapacità.


Fatevi sentire.

M.




Title:
Through this night (I might not make it).
Soundtrack: Hope For The Hopeless, A Fine Frenzy; Carry You Home, Nashville Skyline






You're wrong, you know? You do count. You've always counted and I've always trusted you.
But you were right... I'm not ok.

[The Reichenbach Fall, Sherlock]







Le luci che correvano rapidamente sul cofano della vecchia Ford Farlaine sembravano minacciare di accecarla ad ogni comparsa, e le sue mani tremanti si stringevano sul volante grossolanamente largo e ricoperto in una sorta di ecopelle, che non aiutava la situazione. La Interstate 580 correva lungo la scura e roboante chiazza di nero che era l’oceano, abbracciato dalle lunghe e presumibilmente solide strutture e ponteggi del porto di Berkeley; il lungo tratto rettilineo le permetteva di girarsi, di tanto in tanto, a lanciare un’occhiata al sedile posteriore, dove con un morbido, intimo cullare, Mike stringeva a sé Billie, che sembrava essersi fatto improvvisamente più piccolo, indifeso, nel sonno inquieto e sfinito che finalmente si era concesso tra le braccia del suo migliore amico.
Erin sospirò, cercando di concentrarsi sulla strada scura e deserta che scivolava sotto le ruote, distogliendo la sua mente dal suo continuo approdare ai momenti vissuti nelle ultime ore, rivivendoli con un’intensità forse distorta dagli stessi fantasmi che bruciavano da dentro, impietosi.

Non riusciva a fermare le sue gambe dal correre, instancabili, verso una meta che conosceva solo per istinto, per pura convinzione del cuore. Sentiva il cuore pulsarle nelle orecchie, un battito irregolare, frenetico. Aveva paura.
Non che non conoscesse la sensazione, non che non ne avesse mai provata. Non aveva neanche motivo di esserlo. Sapeva esserlo al sicuro, sapeva di non avere nulla a che fare con lui. Sapeva essere tutto un errore.
Non sarebbe mai dovuto succedere nulla di tutto questo.
Sarebbe forse tutto rimasto come prima? Un’esistenza mai uguale a se stessa, eppure volta alle stesse dinamiche, con le stesse persone, le stesse guerre quotidiane da combattere come se la vita ne dipendesse.. Forse le cose sarebbero ancora come prima? Forse nulla del suo piccolo, insignificante mondo sarebbe crollato come in preda ad una feroce mareggiata, e lei avrebbe ancora avuto quella fidata spalla su cui...
Scosse la testa, sentendo il cuore, la gola stringersi in quella ormai tristemente familiare morsa di calore e dolore, che nulla anticipavano, se non amare lacrime. Respirò a fondo, e prese a correre con rinnovata energia, intravedendo finalmente in lontananza due figure in controluce.

Erin scosse la testa, in un obbligato richiamo istintivo al ricordo, mentre ritornava con chi occhi fermamente sulla strada davanti a lei.
“Mike..” Chiamò, la voce bassa, eppure non ridotta ad un sussurro, né ad un mormorio. Non aveva desiderio di nascondere nulla, o di far sembrare come se lo stesse facendo. Sentiva come di tradire qualcuno, in qualche modo.
Il biondo fece scattare gli occhi nello specchietto retrovisore, facendo scomparire ogni traccia di malinconia e tristezza di cui lo sguardo era gravato, mentre, fino a pochi secondi prima, guardava con aria assente fuori dal finestrino; forse il suo stesso riflesso, e con esso quello del piccolo uomo che abbracciava a sé.
Erin sospirò ancora. Abbassò di nuovo lo sguardo sulla strada, umettandosi il labbro inferiore, per poi morderlo appena. Aveva paura, anche adesso.
“.. What went wrong?” Chiese, la sua voce adesso incrinata appena, impercettibilmente, di timore del non ritorno. Come se stesse lei stessa pronunciando una condanna. Come se dirlo ad alta voce lo facesse sembrare più vero, ed improvvisamente incurabile.
Mike distolse lo sguardo, ritornando al suo vuoto osservare di ciò che li circondava. La tonante e scura distesa dell’oceano ormai alle loro spalle lasciava il passo agli imponenti cavalcavia della Freeway, e ad ogni secondo si avvicinavano al centro di Oakland, e ad ogni secondo il suo cuore si faceva più pesante.
Il bassista fece fuggire lo sguardo verso la ragazza un’ultima volta.
“I don’t know”.

Non sapeva minimamente come li avrebbe trovati, eppure eccoli lì, entrambi. Come due saltimbanchi fuggiti dal circo per la follia di uno e per l’affetto e il protettivismo dell’altro, alla ricerca di un’alternativa che non sapevano neanche loro di volere, o di che natura potesse essere.
Vedeva l’ombra di Billie in controluce danzare allegramente, quasi a ritmo con una canzone che sentiva solo lui, nella sua mente in quel momento compromessa, distorta.

Trattenne il fiato, cercò mentalmente di fermare il cuore in corsa. Qualcosa le urlava di girare le spalle, di non farsi vedere, sentire. Non era quello il suo posto, non era lei a dover essere presente, non pensava di essere abbastanza forte per se stessa, figurarsi per entrambi. Avrebbe fatto lo stesso, appena qualche giorno fa, quando ancora la sua piccola bolla di vita non era scoppiata, quando ancora tutto il suo mondo girava intorno al prossimo articolo, alla prossima serata passata con Alice a dar fondo a vasche di gelato e ad intere stagioni di sitcom televisive? Avrebbe risposto ugualmente senza esitazioni alla surreale richiesta di aiuto di quella stessa persona che con il suo di aiuto l'aveva tenuta in vita?

“Credo che la cosa migliore sarebbe portarlo a casa. Io.. Non credo di sapere cosa fare altrimenti. Non so, forse altrimenti potremmo-”
“No, casa va bene.” Interruppe Mike, il viso teso in una consapevole determinazione, lo sguardo che tentava di perdersi nell'asfalto scuro che scorreva fuori dal finestrino, come se cercasse di scovare nella propria espressione la preoccupazione che aveva tentato di nascondere; se non più da se stesso, almeno dal suo migliore amico. “Casa va benissimo.” Ripeté, per convincere anche se stesso che fosse la scelta migliore, la migliore soluzione in quel momento.
Erin annuì, la sua attenzione solo parzialmente concentrata sulle indicazioni fornite dal bassista, mentre quell'apprensione e ansia pulsanti che le bruciavano con costanza in ogni respiro conducevano la sua mente lontano, nuovamente.

L'ombra si fermò, improvvisamente. Curva, accartocciata in avanti, piccola la statura che emanava squilibrio, impazienza, si girò verso di lei, le braccia ritirate appena verso il petto, le piccole dita, fino a poco prima frementi, improvvisamente immobili.
Anche la ragazza, come se fermata da una trazione improvvisa, si bloccò. I suoi occhi puntati negli altri; grandi, verdi, spalancati. Riflettenti una luce innaturale, impropria, che nulla rifletteva o risplendeva di quella scintilla abituale, instancabile, brillante, volendo anche con una vena di follia.
Improvvisamente l'ombra si mise a correre verso di lei, tendendo le braccia. E fu solo quando si rese conto di averle strette attorno al proprio corpo in una morsa disperata e piena di bisogno, solo allora osò riconoscere la materialità dell'ombra. Fu un sussurro a farle stringere le braccia nello stesso modo, fu un sussurro a suggerirle di chiudere gli occhi, fu un sussurro a ordinare al suo cuore di pulsare con improvviso dolore, a rubarle un respiro, improvvisamente troppo pesante e troppo da sopportare per il suo corpo.

“Tell me that I won't feel a thing..”

Fu un sussurro a farle dimenticare se stessa in quell'abbraccio.
   
 
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