Capitolo
3
Il
soffitto della mia nuova camera era diventato, da un’ora a quella parte,
veramente interessante per la sottoscritta; le prime luci dell’alba lo
rendevano di uno strano colore indefinito, un incrocio di lilla e blu, invece
del solito bianco sporco.
Distolsi
lo sguardo di nuovo, e lo puntai – di nuovo - sulla sveglia: segnava le sei e
cinquantacinque del mattino… ed io ero sveglia da più di un’ora.
Il
nervosismo per il mio primo giorno di lavoro doveva avermi tolto il sonno… e a
quanto sembrava, l’aver puntato la sveglia per le sette non serviva neanche,
vista l’alzataccia che avevo avuto da sola.
Mi
voltai su un fianco, e poggiai la testa sul mio braccio mentre guardavo verso la
finestra; uno spiraglio di luce filtrava dalle persiane chiuse, e da quello che
potevo capire sembrava che fuori fosse una bella giornata. Quella piccola
osservazione non mi aiutò a far passare la punta di nervosismo ed ansia che
provavo, anzi la peggiorò, se possibile.
Sobbalzai
non appena sentii il ‘bip bip’ della
sveglia - ero più nervosa e all’erta di quanto pensassi. La spensi subito, e
non persi tempo nel restare ancora per qualche altro minuto a letto; mi alzai in
tutta fretta e mi diressi in bagno.
Mezz’ora
dopo, ero già lavata e vestita e stavo mettendo insieme qualcosa per la
colazione, mia e di Allyson; stavo finendo di cuocere i pancake a forma di
cuore – mia figlia li adorava, in quella forma - mentre avevo già portato in
tavola il succo di frutta, del latte ed una confezione di cereali. Non appena
finii di cuocere la colazione di mia figlia, portai anche quella in tavola
insieme alla confezione di sciroppo alla fragola, il suo preferito, e poi andai
a svegliarla.
Aprii
piano la porta della sua cameretta per evitare di fare troppo rumore – era un
controsenso bello e buono, quello, visto che dovevo svegliarla! -, e la
osservai per qualche istante da lì: dormiva ancora beatamente, con il suo povero
Stitch in bilico sull’orlo del materasso. Sorrisi, avvicinandomi subito a lei ed
accovacciandomi accanto al suo viso.
- Ehi,
dormigliona! –, dissi ad alta voce, scostandole piano i riccioli dal viso, -
Amore, è l’ora della sveglia…
Allie
mugolò piano, e dopo qualche secondo aprì gli occhietti azzurri, ancora pieni
di sonno; se li strofinò con i pugnetti chiusi mentre sbadigliava.
-
Buongiorno principessa! –, le dedicai la famosa battuta del film di Roberto
Benigni, che era diventata un po’ il mio ‘motto del buongiono’ tutto per lei.
-
Buoggiorno… -, borbottò lei, invece, e chiuse gli occhi mentre allungava le
braccia verso di me e mi toccava le spalle.
- Hai
sonno, piccola? Non puoi avere ancora sonno, è pronta la colazione! –, la presi
tra le mie braccia, e le baciai le guance paffute e rosee mentre sbadigliava di
nuovo. – Dai, sciacquiamo il visino e poi andiamo a mangiare… non possiamo fare
tardi, sai che giorno è oggi?
- È il
mio primo giorno di scuola. –, disse, con voce un po’ più vivace rispetto a prima:
stava già perdendo gli ultimi residui di sonno. – E tu vai a fare l’infermeria,
oggi, vero?
- L’infermiera, esatto! Non possiamo
proprio fare tardi oggi, no no! –, mi alzai, con lei stretta tra le braccia, e
mentre continuavo a baciarle il visino uscii dalla sua cameretta.
Una ventina
di minuti dopo eravamo entrambe fuori di casa, pronte per affrontare le belle novità
che ci riservava quella giornata: io il nuovo lavoro, e mia figlia la scuola. Allie
era tutta contenta, e aveva sulle spalle uno zainetto rosa nuovo di zecca di
Hello Kitty, un regalo da parte di Alice che già cominciava a viziarla e che
lei aveva voluto mettere subito.
Se io
ero ancora tesa e nervosa per quello che mi aspettava, Allie era entusiasta e
trepidante, e non vedeva l’ora di arrivare a destinazione.
-
Mamma, mamma, sbrigati! Facciamo tardi! –, urlava ogni cinque minuti dalla sua
postazione, e incitandomi così a guidare più velocemente.
Lei
mica lo sapeva, però, che se facevo un uso spropositato dell’acceleratore poi
mi beccavo una bella multa da pagare… e nonno Charlie allora sì, che sarebbe
stato fiero di me!
Altro
che il giorno della mia laurea.
Le
paure di mia figlia sul fatto di arrivare tardi scomparirono del tutto non
appena fermai l’auto a una decina di metri dalla scuola, alle otto e quindici
del mattino; eravamo in largo anticipo, anche se qualcuno sembrava essere
arrivato ancora prima di noi.
Lasciai
la borsa in macchina – le uniche cose che presi furono le chiavi e il cellulare
-, e recuperata Allie che cercava di correre via da me, in direzione
dell’edificio, ci avviammo insieme verso il piccolo gruppetto di persone che
era riunito già davanti al cancello rosso.
Notai
che c’erano pochi bambini, e solo uno sembrava avere l’età di mia figlia; gli
altri erano tutti un po’ più grandicelli. Però, visto anche l’orario abbastanza
mattiniero, dovevano sicuramente arrivarne altri.
- Va
bene, eccoci qui… -, rimisi con i piedi per terra Allie, sicura che ormai non
sarebbe scappata più via, e sfilai dalla tasca dei jeans il mio cellulare. –
Che ne dici, amore, te la fai fare una bella foto?
Mentre
lo dicevo, una piccola parte di me venne sommersa dall’emozione, come se avessi
metabolizzato solo in quell’istante cosa stesse accadendo; quello era pur
sempre il primo giorno di scuola della mia bambina, un evento che andava
immortalato come si deve. Le mani cominciarono a tremarmi, e per cercare di
fermare quel movimento strinsi con più forza il telefono.
- Sì,
sì! Mami, fammi una foto! –, esclamò lei, contenta.
Gli piaceva
un sacco farsi scattare le foto…
Mi
inginocchiai alla sua altezza, e con un sorriso emozionato sul volto scattai la
prima fotografia; ne scattai altre, dove la mia piccola birbantella si era
divertita a fare le smorfie più buffe e disparate… ma quella che mi colpì senza
dubbio di più fu quella dove sorrideva tranquillamente, e dove si notavano
benissimo i suoi bellissimi occhi celesti.
Ero
sicura che sarebbe diventata il mio nuovo sfondo del cellulare, e mi premurai
anche di mandarla a mia madre per e-mail – lei voleva essere sempre informata
su quello che accadeva alla sua unica, unica per ora, nipotina.
- Vieni
qua, adesso! Devo dirti un paio di cosette… -, la presi per le manine e la feci
avvicinare a me, e lei prese subito posto fra le mie gambe, guardandomi
curiosa.
- Cosa,
mamma, cosa? –, batté più volte le mani sulle mie cosce, senza però farmi male.
- Mi
devi promettere che farai la brava bambina… -, cominciai, e le passai le dita
tra i riccioli come per cercare di pettinarli, - e che ti comporterai bene con
tutti gli altri bambini. Non devi dire neanche le brutte parole, ok?
-
Perché non posso dire le brutte parole?
Mi
venne quasi da ridere. – Perché sono brutte, amore! E i bambini non le devono
sapere, certe cose.
Cercai
di riordinare un po’ le idee per vedere se c’era qualcos’altro che potevo dirle
– la sera prima la lista era diventata qualcosa di esageratamente chilometrico
-, e nel mentre sentii qualcuno che singhiozzava alle mie spalle.
Mi
girai, e vidi che a produrre quel rumore era stata una bimbetta dalle lunghe
treccine corvine; se ne stava aggrappata al ginocchio della sua mamma, in
lacrime, e sembrava non volerlo lasciar andare per nessuna ragione al mondo.
Mi fece
tenerezza, e da una parte – una piccola parte – ringraziai il fatto che Allyson
avesse accettato con gioia di andare all’asilo.
- Dai, Jenny,
non fare così! –, esclamò esasperata la madre, una moretta con gli occhiali,
che sembrava non sapere più che pesci prendere.
-
Perché piange quella bambina? –, chiese Allie, che come me stava osservando la
scena.
- Mi sa
che non vuole andare a scuola… -, dissi, e non feci in tempo ad aggiungere
altro che Allie era già partita in quarta, e correndo raggiunse madre e figlia.
-
Allie! –, esclamai, rimettendomi in piedi per raggiungerla.
Mia
figlia, nel frattempo, stava già facendo ‘amicizia’ con la bambina; la guardava
attentamente, con le manine intrecciate dietro la schiena, e si dondolava con i
piedini… era davvero molto tenera, dovevo ammetterlo! Alla fine, le sorrise e
le fece ‘ciao’ con la manina.
- Ciao!
Io mi chiamo Allyson… perché piangi? –, chiese subito.
-
Allie, insomma! –, dissi, anche se ero più divertita che arrabbiata, e anche
l’altra giovane madre che avevo di fronte sembrava della mia stessa idea. – Mi
scusi…
- Oh,
non si preoccupi! È davvero una bambina dolce. –, mi disse quest’ultima,
sorridendomi.
- Non
voio addare a ccuola… -, sentii mugugnare l’altra bambina, Jenny, mentre si
strofinava gli occhi con una manina.
-
Perché no? Io ci vado! –, Allie le prese la mano, e non sapevo davvero come
faceva, alcune volte, ad essere così spigliata; c’erano dei giorni in cui era
già tanto se non si nascondeva a forza dietro le mie gambe. – Vieni con me? La
mia mamma ha detto che la scuola è bella e divertente!
Osservai
mia figlia, senza parole; ricordava più o meno quello che le avevo detto
qualche giorno prima, quando la stavo convincendo sulla scuola e sui suoi tanti
aspetti. Era un po’ strano vedere che stava usando lo stesso discorso per
convincere quella bimba.
- Se io
veggo, tu retti con me? –, domandò Jenny, che nel frattempo aveva smesso di
piangere.
Allie
annuì, e due secondi dopo le due bambine si trovavano a due metri di distanza
da me e dalla madre di Jenny, che era rimasta completamente sbalordita da
quello che mia figlia aveva appena fatto.
- Ha
fatto una magia! –, esclamò, portandosi una mano tra i capelli. – Come ha
fatto? In due minuti ha fatto quello che non sono riuscita a fare io in due
ore!
Scossi
la testa. – Non ne ho la più pallida idea…
- Ah!
Che stupida che sono stata, non mi sono neanche presentata… -, mi porse una
mano, cercando di riparare alla cosa, anche se non ce n’era affatto bisogno. –
Sono Angela, e lei è Jennifer… Jenny.
-
Bella, e lei è Allyson… Allie. –, ricambiai la sua stretta, usando più o meno
il suo stesso modo di presentarmi.
- Hai
una bimba davvero dolce, Bella! Mi sa che ha stretto amicizia con la mia… -, mi
fece notare, indicandomi con un dito le nostre figlie.
Seguii
il suo sguardo, e le vidi che stavano girando in tondo con le mani strette tra
di loro, e che ridevano come se non ci fosse stata cosa più divertente di
quella.
Sorrisi,
deliziata da quella visione. – Mi sa proprio di sì…
-
Salutata
Allie, non appena fu entrata a scuola insieme alla sua nuova amichetta, e
salutata anche Angela, tornai di gran fretta alla macchina e non appena misi in
moto partii, diretta all’ospedale.
Il
navigatore mi diceva che avrei impiegato una quindicina di minuti per arrivare
a destinazione, però dentro di me pregavo che non ci fosse il traffico di mezzo
a rallentarmi… oltre alla mia innata tendenza a perdermi nonostante le
indicazioni.
Fortunatamente,
non trovai traffico e non mi persi, e ben presto fermai la macchina nel grande
parcheggio al di fuori del Good Samaritan; guardai l’edificio bianco con un
senso di panico e di soggezione, con il mento poggiato sul volante e con il
cuore che batteva a mille.
Stavo
per compiere un passo davvero importante per la mia vita: stavo per entrare
nella struttura che, da quel giorno in avanti, sarebbe stato il mio posto di
lavoro. Stavo finalmente per cominciare a lavorare come infermiera, dopo
quattro anni di studi di infermieristica.
In
realtà sarebbero dovuti essere tre, gli anni di università, ma per un motivo di
vitale importanza di nome ‘Allyson’, avevo dovuto abbandonare gli studi per un
anno prima di riprenderli… ma non me ne ero affatto pentita.
Come
ripetevo sempre, mia figlia veniva sempre prima di tutto il resto.
Presi
un piccolo respiro, per schiarirmi le idee e per cercare di calmarmi, raccattai
la borsa dal sedile del passeggero ed uscii dalla macchina, avviandomi poi
verso l’entrata dell’ospedale.
Non
restai molto colpita da quello che vidi, visto che era comunque un ospedale ed
era risaputo che si somigliavano un po’ tutti, a parte le cliniche private per
ricconi… però mi piacque lo stesso, e con quel pensiero per la testa puntai
dritta verso il banco delle informazioni.
-
Buongiorno. –, dissi subito, annunciandomi all’infermiera biondo platino che si
trovava dietro di esso. – Sono Isabella Swan, avrei un appuntamento con il
dottor Cullen…
La
bionda mi osservò con un cipiglio arcigno e sospettoso sul volto, e senza dirmi
nulla – che maleducata! - cominciò a cercare qualcosa sul pc, mentre masticava
un chewing-gum rosa shocking a bocca aperta. Restai appoggiata con i gomiti al
bancone, mentre aspettavo che quella specie di ‘essere’ si degnasse di una
risposta. Mi sembrava anche un pochino rifatta, per via delle labbra abbastanza
gonfie…
Smettila Bella, lei è una tua collega, se
non te ne sei dimenticata!
Storsi
il naso, leggermente schifata a quell’idea, nello stesso momento in cui quella
sottospecie di Barbie siliconata mi diede le informazioni che mi servivano.
- Sesto
piano, poi lì qualcuno ti indicherà la direzione giusta. –, disse con voce
nasale e civettuola.
-
Grazie mille. –, le diedi un’altra breve occhiata e poi me ne andai, diretta
verso gli ascensori… però prima dovevo trovarli, gli ascensori!
Non
appena arrivai al sesto piano cominciai a pregare tra me e me di trovare almeno
una persona gentile che mi sapesse dare una mano, e non un’altra come la
tipa/Barbie. Per fortuna un gentile medico di carnagione scura, che si presentò
come ‘il dottor Black’, mi indicò il corridoio giusto in cui si trovava l’ufficio
del mio nuovo capo, e dopo neanche due minuti stavo già bussando alla sua
porta.
-
Avanti. – una voce tranquilla e ferma mi diede il permesso di entrare, e mi
affrettai ad aprire la porta.
Restai
un po’ spaesata quando mi ritrovai davanti Carlisle Cullen. Mi ero da sempre
immaginata un signore brizzolato con gli occhiali e con la barba, la copia di
Babbo Natale però un po’ più giovane di qualche anno… o di diversi anni,
insomma.
Il
dottor Cullen invece era incredibilmente giovane!
Capelli
biondi tirati all’indietro, pelle chiara ma non troppo, e occhi di un
bell’azzurro brillante… però, come nella mia immaginazione, aveva gli occhiali.
Avrà avuto più o meno una cinquantina d’anni, molti meno di quanto immaginassi.
Mi sorrise calorosamente e in maniera gentile, non appena notò il mio
smarrimento.
-
Buongiorno, cara. Sei… -, abbassò gli occhi su di un foglio per qualche
secondo, - Isabella Swan, o mi sto sbagliando?
Mi
ripresi da quel mio piccolo momento di black-out e annuii, sorridendo e
arrossendo allo stesso tempo. – Sì, sono io…
Il
dottor Cullen ricambiò il mio sorriso. – Benissimo. Vieni, accomodati! Non
restare sulla porta…
Feci
come mi aveva detto e mi affrettai a sedermi su una sedia imbottita, di fronte
alla scrivania del dottore. Poggiai la borsa sulla sedia a fianco, poi portai
lo sguardo sul dottor Cullen, che stava scribacchiando qualcosa su una
cartellina, e sull’ufficio di quest’ultimo.
Mi
sentivo ancora un po’ nervosa, però sapevo che era solo il momento a farmi
provare quello stato d’animo: il dottor Cullen a prima vista sembrava una persona
a modo e abbastanza alla mano, gentile, quindi non dovevo preoccuparmi molto…
-
Allora, Isabella! –, esclamò il dottore, battendo le mani tra di loro e
ridacchiando. – Sono davvero molto contento di conoscerti, e di averti come
collega di lavoro… spero che ti troverai bene qui.
- Lo
spero anche io… -, mormorai, e per scacciare la tensione che ancora sentivo,
cominciai ad arricciare una ciocca di capelli intorno alle mie dita.
- Ho
letto il fascicolo che mi hai mandato per fax. Questa è la tua prima esperienza
lavorativa, ho visto, ma non fa niente e non devi affatto preoccuparti: quando
posso do una mano ai giovani, specialmente in questo periodo un po’ difficile
dove il lavoro scarseggia un po’. –, sorrise di nuovo, e appoggiò la schiena
sullo schienale della sua poltrona. – Adesso ti spiego il tuo orario
lavorativo, poi ti accompagno nel tour dell’ospedale.
- Va
bene. –, dissi, e cercai di concentrarmi per non perdere nulla di importante.
- Il
turno in genere varia a seconda del reparto in cui si lavora, ma per adesso ho deciso
di lasciartelo uguale per una settimana, dalle otto del mattino fino alle
quattro del pomeriggio… poi, non appena avrai preso un po’ più di confidenza
con il lavoro, te ne farò avere uno nuovo.
Annuii,
mordendomi un labbro mentre riflettevo su un piccolo particolare. Se dovevo
cominciare a lavorare alle otto del mattino per tutta la settimana, voleva dire
che dovevo uscire prima di casa e che, di conseguenza, non potevo occuparmi di
mia figlia per portarla all’asilo. Mi sa che dovevo chiedere una mano ad Alice…
- C’è
qualcosa che non va, Isabella? –, mi chiese il dottor Cullen, guardandomi
preoccupato.
Scossi
la testa in fretta. – No no, tutto a posto, non si preoccupi! Davvero…
Lui mi
guardò ancora per un paio di secondi, soppesandomi, e alla fine sorrise. –
Benissimo allora. Andiamo a fare il tour?
- Va
bene!
Mi
alzai in fretta, e non appena ripresi la borsa mi sbrigai a seguire il dottor
Cullen, che mi aspettava già fuori dalla porta del suo ufficio, con un sorriso
sulle labbra.
-
Il
‘tour dell’ospedale’, come si divertiva a chiamarlo il dottor Cullen, ci portò
via un’ora buona. Da una parte era stato divertente, però, e avevo potuto
vedere in maniera più approfondita come era suddiviso l’ospedale.
Avevo
potuto conoscere meglio anche il dottor Cullen, o Carlisle, come mi aveva chiesto
di chiamarlo quasi subito; era davvero una brava persona e sembrava andare
d’accordo con la maggior parte dei suoi colleghi. Avevo anche scoperto che,
nonostante la sua carica di direttore, si occupava anche di qualche paziente.
Mi aveva
presentato qualche medico che avevamo incontrato di passaggio e qualche
infermiera, affidandomi successivamente alla capo infermiera, Brenda, una
donnina dai capelli rossi e dal sorriso simpatico che mi aveva preso subito
sotto la sua ala protettrice… peccato che, dopo avermi fatto indossare la
divisa bianca da infermiera e descritto un po’ in che cosa consisteva il mio
lavoro, mi incaricò di seguire in tutto e per tutto il lavoro della tipa bionda
di prima, che scoprii chiamarsi Lauren.
Ecco,
con Lauren capii sin da subito che tra di noi non ci sarebbe mai stato un buon
rapporto di lavoro. Si vedeva sin da subito che era una persona competente e
che svolgeva in maniera impeccabile le sue mansioni, ma era anche una persona
molto civetta e superficiale. L’avevo vista più di una volta parlare al
cellulare mentre controllava o cambiava la flebo ad un paziente…
Ed io
che credevo di sbagliare presentandomi a lavoro con le unghie dipinte di giallo!
E, continuando a parlare di unghie… Lauren le aveva ricostruite, lunghe come
artigli e per di più dipinte di un rosso baldracca. Mi sembrava tanto una cosa
poco igienica quella…
Comunque,
non cercai di farglielo notare e non provai neanche a chiedergli qualcosa; me
se stavo tranquilla per conto mio ed osservavo tutto quello che c’era da
osservare, in modo da imparare meglio quello che sarebbe stato il mio lavoro
per il resto della carriera.
Ero
impegnata a prelevare del campioni di sangue a una vecchietta dall’aria
arzilla, come Lauren mi aveva chiesto di fare, quando sentii il ‘bip bip’ del cellulare; non era il mio,
visto che conoscevo a memoria la mia suoneria dei messaggi, e alzando lo
sguardo da quello che stavo facendo notai che a suonare era stato, tanto per
cambiare, il cellulare di Lauren.
Mentre
scorreva quello che doveva essere un sms, un sorriso prese forma sulle sue
labbra oscenamente rifatte; dopo un paio di secondi, lo riposò nella tasca del
suo camice e puntò i suoi occhi nei miei, guardandomi in maniera a dir poco
glaciale.
- Mi
assento per una decina di minuti. Pensaci tu a portarli in laboratorio, non
appena hai finito. –, mi disse, e senza dirmi nient’altro se ne andò via, fuori
dalla stanza in cui ci trovavamo.
- E
dov’è il laboratorio? –, dissi ad alta voce, completamente dimentica di quando
il dottor Cullen me lo aveva mostrato durante il nostro ‘ Hospital tour’.
Per
fortuna me ne ricordai in tempo, e consegnai i campioni da analizzare della
signora Roberts a chi era di competenza. Impiegai più di una decina di minuti a
fare tutto quello, e in quell’arco di tempo non vidi Lauren da nessuna parte,
sembrava fosse completamente svanita nel nulla.
Stavo percorrendo
l’ennesimo corridoio per tornare al pronto soccorso quando sentii qualcosa che
non avrei dovuto sentire per nessuna ragione al mondo: un gemito. Un gemito
femminile e anche abbastanza forte, che poteva significare una cosa sola…
Qualcuno
stava facendo sesso a pochissimi metri di distanza da dove mi trovavo io.
Mi
sentii improvvisamente a disagio, tanto che le mie guance arrossirono quasi
subito. Camminai ancora per un po’, desiderando andare via da quel corridoio il
più in fretta possibile, quando ne sentii un altro, più forte del precedente, e
sembrava provenire da una porta alla mia sinistra, con la parola ‘sgabuzzino’
scritta a lettere cubitali in nero sulla superficie.
Era
proprio vero allora, i medici dentro gli sgabuzzini si divertivano davvero
parecchio!
Altro che
‘Grey’s Anatomy’!
La
porta era socchiusa, naturalmente, e per evitare che altre persone oltre a me
sentissero cosa stesse succedendo all’interno di quella stanza la chiusi,
cercando di non fare rumore… anche se dubitavo che chiunque fosse in quello
sgabuzzino si accorgesse di quello che avevo appena fatto.
Stavo
per andare via e per lasciarmi alle spalle quella scena – alla quale non avevo
nessuna intenzione di assistere! -, quando vidi un’altra infermiera venire
verso di me; mi sorrise, e si fermò al mio fianco, allungando una mano verso la
porta che avevo appena chiuso.
- Non
lo fare! –, esclamai in fretta, avvertendola.
L’infermiera,
una ragazza dai capelli scuri e dagli occhi altrettanto scuri, fermò la sua
mano e mi squadrò con un sopracciglio inarcato dalla confusione. – Perché non
dovrei farlo, scusa? –, domandò, e potei sentire nella sua voce un forte
accento spagnolo.
-
Perché… -, deglutii, sentendomi decisamente a disagio. – Perché lì dentro
stanno facendo… quel genere di cose…
-, mi fermai, non sapendo come continuare.
Vidi la
ragazza alzare gli occhi al cielo, come se fosse seccata dalla cosa, e poi
guardare l’orologio che aveva al polso. – Bene, quindi si sono riuniti qui per
la loro scopata del mattino! –, esclamò. – Ma io non ho intenzione di fare
l’intero giro dell’ospedale per prendere quello che mi serve, quindi…
Ad
occhi sgranati, la guardai aprire con uno scatto la porta ed entrare nello
sgabuzzino, con una mano a coprire un poco la sua visuale. – Continuate pure,
non guardo mica!
Beh,
lei non guardava… ma io sì.
Avevo
davanti agli occhi una completa visuale di quello che stava accadendo lì dentro fino a
pochi secondi prima: un uomo alto e dai capelli ramati mi dava le spalle, e
aveva un paio di gambe a cingergli la vita come una cintura… inutile dire che
aveva anche i calzoni calati fino alle caviglie, e che solo il camice bianco
che gli arrivava alle ginocchia lo salvava dal mostrare le chiappe a tutti.
Scostai
subito lo sguardo, improvvisamente pudica.
-
Carmen, brutta stronza! –, riconobbi la voce di Lauren, che urlava a pieni
polmoni all’interno dello stanzino. – Potevi andare da un'altra parte!
- Pff,
no grazie, faccio prima qui. –, disse quella che capii essere Carmen. Uscì dopo
un po’, carica di flebo e di kit per le analisi. – Continuate pure… ah, salve
dottor Cullen! Non l’avevo mica vista, sa?
- Ciao,
Carmen. –, una voce divertita e seccata allo stesso tempo ricambiò il saluto
dell’infermiera.
Carmen
chiuse la porta, ridendo tra sé e sé, prima di tornare a rivolgermi la parola.
– Non farci troppo caso… ah, io sono Carmen.
Strinsi
la mano che mi porgeva, ricambiando. – Io sono Bella, piacere di conoscerti.
-
Piacere mio… sei nuova per caso? Non ti ho mai visto prima!
- Ho
cominciato stamattina…
-
Davvero? Ecco perché eri rimasta così scocciata da questo! –, e dicendo così,
indicò la porta chiusa dello sgabuzzino.
Annuii,
ridacchiando. – Non è una cosa da tutti i giorni…
- Qui
da noi sì, e se siamo fortunate accade due volte al giorno! –, esclamò, alzando
di nuovo gli occhi al cielo. – Comunque, devo portare subito queste cose al
dottor Black o va a finire che non conclude niente! Vieni con me, così dopo ti
offro un caffè…
Annuii,
sorridendole. – Certo, volentieri.
-
- Hai
una figlia? Sul serio? –, Carmen sembrò davvero sorpresa quando le rivelai quel
‘piccolo’ particolare della mia vita.
Annuii,
prendendo un altro sorso del mio cappuccino. – Sì, ho una figlia. Ha tre anni.
Ci
trovavamo nella piccola caffetteria dell’ospedale, sedute a uno dei vari
tavolini che la riempivano; oltre a noi due e a qualche altro medico di
passaggio, c’erano anche alcuni pazienti e altre persone, presumibilmente
parenti, che erano venute a trovarli.
Carmen
aveva cominciato a parlarmi di sé, e avevo così scoperto che la sua famiglia
era di origini spagnole, come avevo capito per via del suo accento, ma che
viveva a Los Angeles da tutta la vita; aveva cominciato, poi, a pormi delle
domande per conoscermi meglio, e quando aveva saputo che mi ero trasferita da
pochi giorni insieme a mia figlia era rimasta davvero senza parole.
- Dio,
non immaginavo… ma sei giovanissima! –, esclamò, sgranando gli occhi, e alzando
le mani per indicarmi. – Non avrai più di ventiquattro anni!
-
Ventitré, a dire la verità… -, ammisi, sorridendo imbarazzata. – Ho avuto la
bambina quando ero ancora al primo anno di università.
-
Davvero? E hai continuato a studiare nonostante questo? –. Annuii di nuovo. –
Sai in quante avrebbero fatto la stessa cosa al tuo posto? Pochissime! Ti
ammiro moltissimo, Bella.
- Beh…
ci tenevo a terminare gli studi, per me era importante. –. Scrollai le spalle,
mentre le parlavo. – E volevo anche praticare la professione per cui stavo
studiando, voglio dire… non mi andava di stare con le mani in mano dopo aver
terminato l’università.
- Già,
ti do ragione. –. Carmen bevve un po’ del suo caffè prima di tornare a
rivolgermi la parola. – E com’è tua figlia? Ti somiglia?
Sorrisi.
– Dimmelo tu…
Presi
dalla tasca del camice il mio cellulare, e cercai nella galleria una delle
tante foto che avevo scattato alla mia piccolina; ingrandii una delle tante che
le avevo scattate quella mattina, davanti alla scuola.
– Ecco…
-, glielo porsi, e restai ad osservare il suo viso che si apriva in un’espressione
di divertimento e di tenerezza allo stesso tempo.
-
Oddio, è meravigliosa! –, esclamò, portandosi una mano alla guancia. –
Adorabile! Però, scusa se te lo dico, ma non è che ti assomiglia poi così
tanto…
Annuii,
ridacchiando. – Lo so, assomiglia più a suo padre che a me… però il carattere è
quasi identico al mio, anche se è un pochino… vivace.
- Un
giorno me la devi far conoscere! –. Carmen mi restituì il telefonino, annuendo.
– Come si chiama?
-
Allyson…
- Chi è
Allyson? –, una voce maschile, che avevo sentito precedentemente ma non
ricordai con precisione quando, interruppe la nostra piccola conversazione.
Alzai lo
sguardo per capire chi era il ‘disturbatore di turno’, ed incontrai quello di
un giovane uomo… e bello.
Aveva i
capelli scombinati e ramati – avevo visto anche quel bizzarro colore di capelli
-, il viso dai lineamenti mascolini e marcati, e gli occhi di un verde intenso
semi nascosti da un paio di occhiali dalla montatura fine e semplice, simili a
degli occhiali da lettura. Non aveva un filo di barba.
Chissà
come mai, restai un po’ spaesata mentre lo osservavo e lo studiavo; aveva un
che di familiare, ma non riuscii a capire per quale motivo avevo quella
sensazione… mah. Avrei dovuto pensarci su, o non pensarci per niente.
-
Nessuno! –, si affrettò a dire Carmen, rivolta all’uomo. - Dottor Cullen… si è
ripreso da prima? –, lo salutò subito dopo, e allora capii chi era l’uomo che
si trovava accanto a noi.
Oltre ad
avere una certa somiglianza con Carlisle, era la stessa persona che avevo visto
dentro lo sgabuzzino, anche se di spalle, chiaramente intento in una
‘piacevole’ attività. Smisi subito di osservarlo quando lo capii, intimorita e
imbarazzata.
Però,
non avevo nessun motivo per sentirmi in quel modo: non ero stata mica io,
quella ad essere beccata mentre si stava scambiando delle effusioni un po’
troppo spinte con qualcuno.
Certe
volte non mi capivo proprio.
Il
dottor Cullen sorrise, alla piccola battuta che aveva fatto Carmen. – Sempre
simpatica, Carmen, a quanto vedo.
Lei
sorrise soddisfatta. Si voltò verso di me, poi, ed allungò una mano davanti a
sé per indicarmi. – Vi siete già conosciuti, voi due? –, chiese.
Io
scossi la testa, mentre sentii il dottor Cullen dire: - No, non ho ancora avuto
questo piacere…
- Oh,
bene allora! Bella, lui è il dottor Edward Cullen, chirurgo ortopedico… -,
disse, rivolta a me, - e invece lei è Isabella Swan, la nuova infermiera!
Preferisce essere chiamata Bella, però.
-
Benissimo! –. Edward Cullen, la persona di cui Alice e Jasper mi avevano
parlato quella sera a casa loro, mi rivolse un enorme sorriso tutto denti e mi
porse una mano, che afferrai con un po’ di titubanza. – Piacere di conoscerti,
Bella. Sono sicuro che ti troverai bene qui… hai già visto l’ospedale, vero?
Annuii.
– Certo, dottor Cullen. Ci ha pensato… vostro padre… –, dissi, azzardandomi a
fornirgli quell’informazione.
- Il
vecchio ha già fatto tutto, quindi! –, disse, divertito. – Però, Bella,
chiamami Edward, per favore.
Annuii
di nuovo. – Va bene… Edward.
Mi resi
conto che stringevo ancora la sua mano, e mi affrettai a lasciarla andare,
riportando la mia sul tavolino accanto al bicchierone del cappuccino.
- Bene,
vi lascio al vostro caffè! –, disse Edward, portando entrambe le mani nelle
tasche del camice bianco. – Bella, è stato un vero piacere conoscerti… Carmen.
E andò
via subito dopo, silenziosamente, così come era arrivato.
- Mmm…
-, sentii mugugnare Carmen, al che mi voltai per osservarla in viso; aveva una
ruga di sospetto sulla fronte, e si mordeva le labbra. – Mi sa che devi stare
attenta, Bella.
Fu il
mio turno di aggrottare la fronte, dopo aver sentito la sua frase. – Perché
dici questo?
- Mah,
ho un piccolo sospetto, tutto qui. –. Scrollò le spalle, e prese tra le mani il
suo bicchiere di caffè. – In genere, Edward
ti chiede di chiamarlo per nome quando… quando vuole provarci. Sai cosa
intendo, vero?
Oh sì,
lo sapevo benissimo!
- Ah. –,
dissi, arrossendo, e per cercare di mascherare la cosa ripresi a bere il
cappuccino; sperai che Carmen non lo notasse.
Edward
Cullen neanche mi conosceva e già ci provava con me? Assurdo! Però era un po’
quello che mi aveva detto anche Alice (Se la tira un sacco, solo perché è un bel
vedere e piace a molte donne!), e se lo diceva anche Carmen…
allora doveva essere proprio vero.
- Ci
prova sempre con le infermiere carine, Bella, e tu lo sei… sei carina, e sei un
infermiera! –, disse, sporgendosi sul tavolo verso di me. – Non ce ne sono
molte in questo ospedale, e Lauren è la sua preferita. La chiama spesso, ma più
che altro perché è sempre disponibile,
e non perché è bella… si è rovinata, con tutto quel botox.
- Ci ha
provato anche con te? –, chiesi, quando finii di bere e dovetti per forza posare
il bicchiere sul tavolo. – Non sei brutta, Carmen…
Lei
rise. – Eccome se ci ha provato! Però, vedi… -, mi indicò il suo anulare
sinistro, su cui spiccava un anello con diamante che prima non avevo affatto
notato, - non ci prova con le donne impegnate!
-
Capisco… -. Annuii, abbassando lo sguardo.
- Sul
serio, Bella, vedi di stare attenta con lui! –, continuò a mettermi in guardia
Carmen. – Non vorrei che tu fossi la nuova ‘vittima’ del dottor Cullen. Mi sei
simpatica, dopotutto…
Scossi
la testa e rialzai il viso, convinta di quello che stavo per dirle. – Non lo
sarò mai. Non è quello che cerco al momento…
Era la
pura verità. Uscivo da poco da un matrimonio riparatore, e avevo avuto
abbastanza problemi da affrontare nell’ultimo periodo… non mi serviva affatto
un’avventura di sesso dentro le mura di quell’ospedale, specie se con Edward
Cullen.
-
Ciao ragazze!
Spero di non avervi annoiato troppo oggi ^-^’
In questo
capitolo ci sono delle ‘new entry’, come avete potuto leggere, ma la più
importante alla fine diciamo che è solo una… Edward.
Che ne
pensate di lui? ‘Se la tira’ proprio come dice Alice oppure è peggio di come l’ha
descritto? A me sta simpatico, a dire la verità XD
Ok, non
ho nient’altro da dire. Ci sentiamo al prossimo capitolo, che forse arriverà un
pochino in ritardo… sto scrivendo l’altra storia, che ho trascurato per
scrivere questa, quindi per adesso quella ha tutta la priorità :D
P.S: non ho la più pallida idea di come funzionino i turni lavorativi in un ospedale, quindi ho dovuto fare tutto di sana pianta :)