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Autore: Eirien    11/09/2012    5 recensioni
La notte degli inganni ha avuto ufficialmente tre vittime: il Gran Sacerdote Shion, Aioros di Sagitter, la sanità mentale di Saga di Gemini.
Questo, perché non tutti sanno che due giorni dopo Mitsumasa Kido è andato in cerca di un Cavaliere d'Oro. E che si può vivere due volte lo stesso destino, anche se una volta sarebbe già troppo.
Genere: Azione, Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Aquarius Camus, Chameleon June, Nuovo Personaggio, Phoenix Ikki, Un po' tutti
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Track 11 - Losing My Religion TRACK # 11

LOSING MY RELIGION

Life is bigger
It's bigger than you
And you are not me
The lengths that I will go to
The distance in your eyes
Oh no, I've said too much
I set it up
That's me in the corner
That's me in the spotlight
Losing my religion
Trying to keep up with you
And I don't know if I can do it
Oh no, I've said too much
I haven't said enough
I thought that I heard you laughing
I thought that I heard you sing
I think I thought I saw you try

(R.E.M.)

Erano trascorsi tre giorni, dal pomeriggio in cui Camus aveva accennato al miracoloso Settimo Senso. Kelly spalancò la porta della baita con un gemito strozzato, senza curarsi di chiudersela alle spalle. Mosse appena qualche passo all'interno, stramazzando sul tappeto di pelliccia. Se c’era qualche speranza di salvarsi dall’assideramento, il camino era l’unica possibilità. — Lo sapevo. Tu stai cercando di uccidermi... — esalò, con un tono degno della migliore attrice drammatica.

 — Vado a cercarti una graticola? Ti potrebbe servire, se decidessi di risparmiare tempo e sederti sulla fiamma viva. — La risposta era stata fulminea. E sin troppo divertita per i suoi gusti già per metà surgelati.

 — Spudorato… e senza… cuore… — cominciò a inveire, rotolando sulla schiena per restare poi immobile in posizione supina.

 — Se hai fiato per blaterare vuol dire che la morte è ancora lontana, ragazzina — tagliò corto Camus, chiudendo il pesante volume che stava leggendo con un rumore secco. La sedia scricchiolò rumorosamente mentre si alzava per richiudere la porta.
Passò in rassegna le condizioni della sua allieva con una rapida occhiata. Qualche escoriazione, probabilmente dei lividi sotto la malridotta tuta di felpa che indossava. Nulla di più. "Perfetto." Quella mattina l’aveva spedita ad allenarsi da sola sulla vetta, prima di scendere al villaggio più vicino per rimediare qualcosa da mangiare. Aveva bisogno di starle alla larga. Era sempre più difficile ricordare che quella giovane donna era la stessa bimbetta che un giorno lontano di sei anni prima gli era comparsa davanti al tramonto, con il visetto già nascosto dalla maschera rituale e una sacca da viaggio troppo grande per lei. Soprattutto la mattina, quando la vedeva spuntare dalla sua stanzetta con i capelli arruffati e gli occhi pesti. Sapeva che non riusciva a prender sonno. E in quelle tre lunghe notti trascorse lì era sicuro di averla sentita piangere almeno un paio di volte.

 — Ero sul punto di dimenticare che razza di aguzzino insensibile fossi, grazie… — biascicò lei senza aprire gli occhi.

Camus l’osservava, e provava una pena infinita. Era quasi peggio che rivivere i giorni della morte di Aioros. Perché si sentiva ancora più impotente. Stare a guardarla mentre cercava di sostenere quella commedia della normalità faceva male. Aveva perfino ricominciato a prenderlo in giro con la solita dedizione, anche se era evidente per entrambi che lui non si lasciava ingannare. Eppure in quei giorni pareva appena più tranquilla, più disposta a scendere a patti con il suo dolore. E magari la fatica fisica le faceva bene. Anzi, senz’altro le faceva bene. Forse le ricordava che era ancora viva. Anche quella sensazione era ben viva nei suoi ricordi, come se gli ultimi tredici anni non fossero mai passati. — Se hai esaurito i complimenti, potremmo anche cenare, che ne dici? —

 — Davvero? Allora puoi rilassarti… penso che per stasera i complimenti siano terminati — motteggiò lei, senza muovere un solo muscolo.

Lui incrociò le braccia, divertito suo malgrado. — Basta così poco a renderti felice? — indagò, incauto.

Kelly aprì un occhio solo. — Tutt’altro. Ma se hai cucinato tu non credo che arriverò a domattina — sentenziò con voce lugubre.

"Dovevo aspettarmelo." — Petite sorcière… — borbottò, dandole le spalle per nascondere un sorrisetto.

 — Camus… — lo richiamò indietro lei. — Non te l’ho mai chiesto prima… Ma come te la cavi con il Santuario? —

 — I Cavalieri d'Oro non sono tenuti a restare in pianta stabile al Tempio, Kelly, solo a rispondere al richiamo del Gran Sacerdote. Neppure quella parodia di Primo Ministro può avere da ridire — le rispose, forse in modo troppo sostenuto. — A meno che Arles non proclami lo stato d'assedio. —

Lei strinse gli occhi, dubbiosa. "Orgoglio o no, tu ti stai cacciando in un vicolo cieco." — Possibile che a nessuno interessi come passi il tuo tempo? — insisté, ignorando l’occhiata risentita del suo maestro.

Camus s’irrigidì visibilmente. Milo l’aveva guardato come si guarda una zanzara fastidiosa, quando gli aveva annunciato che sarebbe stato via per qualche giorno. Infine aveva commentato con noncuranza che i suoi spostamenti non lo riguardavano. E lui ancora non riusciva a spiegarsi perché quella sovrana indifferenza, invece che sollevarlo, l’avesse in qualche modo indispettito. — Non credo siano affari tuoi, ragazzina — scandì, irritato.

Kelly si sollevò a sedere, scuotendo la testa, rassegnata. — Sempre il solito… — replicò, tra il serio e il faceto.

Camus s’innervosì ancora di più. "Già, sempre il solito. Perenne preda dei dubbi e divorato dalla preoccupazione. Per te, signorina. Per la tua salvezza e per quella di quegli altri cinque esaltati che non riescono a restare lontani dai guai. Dopotutto, mi sembra di aver fatto abbastanza. Hai la tua investitura, potresti cavartela da sola. Invece io, imbecille, mi sto trasformando nel tuo cicisbeo."
— Che vorresti insinuare? — s’informò freddamente. "È ora che ti rimetta al tuo posto. Non sono il tuo fantoccio."

La ragazzina non rispose subito. Sembrava essersi intristita di colpo. "Affezionato pubblico, torna in scena per voi il Maestro Tutto D'Un Pezzo" — Possibile che tu non riesca a capirlo? — mormorò senza guardarlo.

 — Cos’è che dovrei capire? — brontolò lui, affettando disinteresse.

 — Ti avevo soltanto chiesto di essere sincero, maledizione… — replicò la ragazza, con una voce così fievole che lui poteva udirla a stento. Ma si riprese in fretta. Prese a fissarlo in un modo che lui era convinto di aver dimenticato. — Credevo ci fosse un patto tra noi — disse seccamente. — Invece tu continui a trattarmi come una stupida. E ci sono momenti come questo, in cui mi pare sia evidente che non ci poniamo sullo stesso piano. —

"Aspetta un momento…" — Kelly… — bisbigliò Camus, toccato suo malgrado. "Come sempre, del resto… Accidenti a te, ragazzina." — Ma che razza di discorsi fai? — proseguì, inginocchiandosi vicino a lei.

 — Io?! — Quei dannati occhi cangianti non si scollavano dai suoi, e nella modesta luce di quella stanza, con il riverbero del fuoco ad investirli, apparivano molto più scuri, incredibilmente lucenti eppure cupi. Camus era convinto che avrebbe potuto passarci giornate intere, ma non ne avrebbe mai colto tutte le sfumature. — E se per una volta lasciassi da parte quella tua dannata tutina d’oro massiccio e parlassimo da pari a pari? — aggiunse lei, con una punta di amarezza.

 — E di cosa vorresti parlare, di grazia? — replicò, con un tono condiscendente che non avrebbe usato neppure quando lei aveva dieci anni.

Kelly scosse la testa, fissandolo con tristezza. Camus si sentì assurdamente in colpa, senza riuscire a coglierne il motivo. — Lascia stare. Davvero, tu non cambierai mai. —

La porta della stanzetta si aprì e si richiuse, e soltanto dopo parecchi minuti lui si riprese dalla sorpresa. L’unico suono che riusciva a percepire, era il silenzio di tomba che gli rimbombava nelle orecchie.

~.~

 — Come va? —

Una sedia da ufficio roteò in silenzio. La ragazza che l’occupava sollevò lentamente lo sguardo sulla persona che le aveva posto quella domanda tanto furba. Incontrò un paio d’attenti occhi verdi, circondati da un alone scuro, proprio come i suoi. Una cicatrice sottile divideva in due il sopracciglio sinistro. Un’unica, lunga ciocca di capelli chiari gli ricadeva su uno zigomo. "Neppure la tua ragazza ha potuto fare qualcosa, con quell’orrendo look anni Ottanta…"

 — Come l’ultima volta che me l’hai chiesto, Max — sillabò con voce stanca. Si voltò, i gomiti sul piano della scrivania, e riprese a fissare il monitor del computer come se da quel gesto dipendesse la sua vita.

Il crucco si portò dietro di lei senza ribattere. Prese a massaggiarle lentamente le spalle. Sì, essere amici da tanti anni prevedeva anche quello. Sapere esattamente cosa fare quando il mondo intero sembra remarti contro. — Non hai ancora finito di esaminare le scartoffie che hai trovato nel tuo armadietto? —
 
 — No — ammise Katie in un soffio. — Sembra soltanto un scherzo idiota. Eppure… è lo scherzo di qualcuno che sa esattamente cosa stiamo cercando. Non possiamo lasciar perdere. —

Max si accigliò. — A proposito di scherzi… ho esaminato in tutti i modi il tuo armadietto. È incredibile, ma… —

 — Nessun segno di effrazione, neanche a pagarlo — completò per lui un ragazzo alto e abbronzato, i capelli e gli occhi neri come il carbone.

 — Esatto — il crucco annuì, mentre Alex entrava nel ridotto ufficio situato nei piani sotterranei della base, in cui conducevano le loro piccole indagini private all’oscuro del Grande Capo. "Beccati questa, stronzo vestito a festa…"
Sorrise, e depose una breve carezza sulla spalla della sua amica.

Katie si passò una mano tra i capelli. Quel mistero pareva senza soluzione. Un rapimento, durante una banale vacanza in Europa, un caso che non avrebbe mai avuto interesse per loro, se non li avesse toccati da vicino. Perché erano i loro migliori amici ad essere scomparsi nel nulla, sette giovani spie addestrate per le situazioni peggiori. Il fiore all'occhiello di quel Dipartimento di sociopatici altamente specializzati… come avevano fatto a sorprenderli? Quattro mesi di ricerche infruttuose, un improvviso incarico sul campo per Martin, e poi quel misterioso regalo. Davvero troppo tempestivo, e da parte di qualcuno che doveva conoscerli un po' troppo bene.
"Conosce i codici dei nostri armadietti. Ci sorveglia a distanza. E forse vuole indurci a seguire una falsa pista."
Ma chi? E soprattutto, cosa sapeva? Katie aveva soltanto una certezza. Prima o poi avrebbe scoperto come tirare fuori i suoi amici da quel guaio. E anche cos’era capitato al suo ragazzo. "E se… non avessi più qualcuno da aspettare?"
Non doveva pensarci.
Non voleva pensarci.
…non riusciva a smettere di pensarci.

"Ma come… come??" Le mani sulle sue spalle si fermarono all’improvviso. Con un’ultima carezza sulla guancia, Max tornò a sedere di fronte alla sua scrivania. — So che è difficile, Kat — provò a blandirla, con quella cadenza da barzelletta che era soltanto sua. Dieci anni di distanza dalla madrepatria non erano riusciti ad intaccare quel tremendo accento. — Ma struggerti nell’attesa e non riposare non servirà a niente. —
Una fitta di nostalgia. Christine, che rideva a crepapelle ogni volta che il suo ragazzo seviziava la lingua di Shakespeare. Lei, che a volte provava a fare la russa soltanto per mitigare la nostalgia di sua madre, e leggeva indigesti tomi dell'Ottocento soltanto per non dimenticare quella voce commossa e sonora che l'accompagnava nel suo sonno di bambina. Katie torno a guardare il suo amico, stringendosi nelle spalle.

 — Anche tu muori dalla voglia di sapere almeno se lei sta bene — gli fece notare, senza asprezza.

Sentì una mano posarsi sul dorso della sua. Alex la guardò con un affetto dal quale, per una volta, non traspariva alcun secondo fine. Doveva essere una delle tre donne al mondo che avesse mai guardato così, con una tenerezza che non aveva nulla a che vedere con il desiderio di toglier loro le mutande. Le altre, probabilmente, erano state sua madre e sua nonna. — Non tormentarti, è inutile. Dopotutto, una traccia l’abbiamo trovata. I pochi indizi che abbiamo ci portano tutti nella stessa direzione… —

Katie annuì, pensierosa. Troppo facile. E troppo complicato insieme. Perché si trattava di rinnegare tutte le loro più radicate convinzioni. Di accettare che in quel plico potesse celarsi la soluzione di quel rebus che li beffava da mesi.
"Oppure, stiamo lasciando che le le nostre vite vengano manipolate, una volta di più."
Scacciò quel pensiero come una mosca fastidiosa. "Non siamo tanto sprovveduti… E allora perché siamo ancora al punto di partenza?" Ci doveva essere un modo per venirne a capo, lo sapevano. Ma non potevano accettare che la salvezza dei loro amici dipendesse da quel pacco di fesserie esoteriche, che riguardavano tutte uno dei segreti meglio custoditi dal Basso Medioevo in poi. La chiave, per concludere in bellezza, sembrava un uomo la cui esistenza non era neppure un dato certo.

 — Christian Rosenkreutz. —

~.~

Toc toc…
Kelly si mosse leggermente, senza riuscire a capire se quel lieve rumore fosse reale o se l’avesse semplicemente sognato. "Mi sono addormentata…" Niente di strano, dopotutto. La fatica e la tensione nervosa le avevano giocato un tiro mancino. "Bella serata davvero…"
La porta si aprì con un lungo cigolio. "E ora che vuoi?" pensò, irritata. "Sei venuto a farmi una paternale sul rispetto che bisogna portare ai superiori?"
Rimase immobile sul suo letto, continuando imperterrita a mostrargli la schiena. Lo sentì entrare con il suo passo leggero, e sedere sul bordo. E prima che Kelly decidesse se e in che modo protestare una mano circospetta le aveva già sfiorato i capelli.

 — Sei sveglia, allora… — esordì Camus, all’improvviso.

 — Come puoi vedere — replicò lei stancamente. — Se non fosse stato per te, starei dormendo ancora. — Non lo faceva apposta, no. Soltanto, non riusciva a non avercela con lui. Ed era troppo faticoso spiegarsene le ragioni. Per colmo di sfortuna, il suo stomaco decise di farsi vivo proprio allora, interrompendo un silenzio che minacciava di diventare troppo difficile da gestire.

 — Non mangi da stamattina — considerò il suo maestro, come se fosse stato necessario.

"Vattene." — Sopravvivrò — sibilò, asciutta. "E toglimi quella mano di dosso, prima che te la spezzi."

 — Kelly… di cosa volevi parlare? — incalzò lui.

 — Niente d’importante. Puoi andare a letto tranquillo. — "E crepare, magari."

Aquarius ritirò la mano. "No che non posso. Non so spiegarmelo, ma non tollero che tu ce l’abbia con me. Non più." — Dovresti guardare in faccia chi ti sta parlando, per lo meno — la rimbeccò a sua volta, con più animosità di quanta avrebbe desiderato.

"Comandi, Padron Camus…" — Farà una gran differenza, al buio… — Kelly si sollevò a sedere. Riusciva a malapena a scorgere la sua sagoma, e soltanto grazie alla lampada che era rimasta accesa nella stanza principale. Lui non doveva distinguere molto di più. Ciononostante, la seccava sapersi ancora una volta sotto l’attenta valutazione di quello sguardo indagatore.

 — Cosa c’è che non va, ragazzina? — si sentì chiedere, più gentilmente di quanto si sarebbe aspettata. Ma quel tono alle sue orecchie suonava come un insulto.

"Mi hai stufato, paparino. È la mia pelle, quella con cui stai ti stai trastullando. Ma suppongo che ai fini della tua partita a Risiko con Arles non abbia molta importanza." — Hai anche il coraggio di chiedermelo? Mi stai trattando come un giocattolo. Vieni qui, corri là, raggiungi lo zero assoluto, allenati sulla vetta, così magari crepi per la scarsità di ossigeno — lo scimmiottò amaramente.

Camus incrociò le braccia con un vago sorrisetto — Tu… pensi che voglia farti la pelle? — le chiese, incredulo.

 — Ma no — ribatté la ragazza in tono acido. — Ti servo viva per vendicarti di Arles. Conta solo questo per te, vero? La tua vendetta… è per questo che hai promesso di aiutarmi. —

 — Dovresti sapere che non lo faccio per vendetta… — replicò lui a bassa voce. — La Dea… — "Se solo sapessi quanto ti è vicina…"

 — No. — Lei lo fissò con uno strano, inquietante sorriso. — Non è la sera adatta per le favole. Quali che siano le tue ragioni, non avrò mai il bene di conoscerle… —

 — Kelly… —

 — …e in me tu non vedrai mai nient’altro che una scimmietta da ammaestrare — concluse con amarezza. Si alzò, badando bene a non sfiorarlo neanche.

L’uomo si irrigidì, senza mostrare quanto quelle parole l'avessero colpito. — Dove pensi di andare, ora? —

La risposta fu raggelante. — Lasciami stare ora, Camus. Torna a baloccarti con il Piccolo Stratega — sibilò lei, a denti stretti. — Trovati un altro soldatino di piombo, però. Io me ne vado. —

 — Cosa?! — Kelly sapeva di averlo ferito nell'unico modo possibile. E non aveva la minima importanza. Anzi, questo le faceva venir voglia di rincarare la dose.

 — Puoi fermarmi con la forza, se vuoi, ma io ho deciso — incalzò, furibonda e triste in egual misura. — Me ne torno a Tokyo, a tentare di fare qualcosa di utile per i miei amici e mio fratello. Comincio a credere che persino Saori sia una compagnia migliore di questa. Almeno, lei sa di aver bisogno di qualcuno, a parte se stessa.

~.~

Le disgrazie non vengono mai sole. Ne era sempre stata convinta. Avrebbe soltanto desiderato che qualcuno la smentisse, per una volta. E che, sempre per una volta in vita sua, non si dovesse pentire di una decisione presa nell’impulso del momento. O sull’onda della furia che soltanto Camus di Aquarius era capace di suscitare in lei.
Kelly era rimasta a lungo a guardarsi le unghie, mentre l’energumeno tuttofare dei Kido le rovesciava addosso con dovizia di particolari l’ampio repertorio di insulti che conservava in uno speciale cassetto mentale per i piccoli parassiti ingrati che quel sant’uomo del suo defunto padrone si era preso in casa. Era passata a fissarsi le punte delle scarpe, attendendo con pazienza, e inutilmente, il momento in cui il gorilla avrebbe finalmente tirato il fiato e permesso anche a lei di prendere parte alla conversazione.
"Fantastico. Suppongo che quando riuscirò a estorcerti qualcosa di utile sarà già arrivato l’Armageddon."
Colpa sua e del suo sgradevole vizio di andare e venire come le pareva. Saori sembrava essersi ormai rassegnata ai bigliettini frettolosi o ai messaggi in segreteria che le lasciava ogni volta che si allontanava dalla città, ma di sicuro non li apprezzava. E se aveva colto l’occasione per renderle la pariglia, scomparendo senza quasi lasciar traccia, neppure riusciva a biasimarla.
Nel frattempo, però, eccola a mendicare un indirizzo nello sconfinato atrio di Villa Kido, indecisa se convenisse più strangolare o surgelare un Tatsumi ancora più collerico e sputacchiante del solito.

 — Adesso puoi anche chiudere il becco — soffiò, al colmo della sopportazione, accompagnando le parole con un ampio gesto della mano. Zuccapelata ammutolì di colpo, gli insulti soffocati in gola, e si limitò ad occhieggiarla con terrore.

Kelly si sentì di colpo più serena. Per sua fortuna, non sapeva di aver ereditato certi comportamenti proprio dal suo tanto vituperato maestro. Si avvicinò all’uomo con un sorriso beffardo, che sotto la maschera andò del tutto sprecato. — Se vuoi che ti scongeli la ciabatta, ti conviene darti una calmata. Non sono più la mocciosa che pestavi come una mandorla tostata non appena il vecchio voltava le spalle. —

Tatsumi aveva una gran voglia di farle ingoiare la sua villania, ma preferì saggiamente annuire. Pochi attimi dopo, era di nuovo in grado di muovere le mascelle. Non aveva il coraggio, e forse neanche la possibilità, di proferire verbo. Ma con lo sguardo le stava augurando uno scontro frontale.

 — Per la sensibilità dovrai aspettare ancora un po’. Spero non ti dispiaccia — rincarò la ragazza in tono mondano. — Nel frattempo, che ne dici di indicarmi su una graziosa piantina l’esatta ubicazione dello residenza di campagna dei Kido? O meglio ancora, di trovarmi un mezzo per raggiungerlo? — "Perché rendersi rintracciabili bruciando il cosmo, quando c’è un’intera flotta di velivoli del Benefattore, tutti smaniosi di prendermi a bordo?"

Dopo averla fatta accomodare in un piccolo studio, il maggiordomo scomparve in tutta fretta, di certo a caccia di un lanciafiamme. Mentre l’attendeva, Kelly si lasciò cadere pesantemente su un divanetto dal design ultramoderno. Accarezzò con piacere il morbido, raffinato rivestimento d’alcantara, ma le sfuggì comunque un sospiro rattristato. Inutile mentire a se stessa. I suoi pensieri erano rimasti tutti dentro una baita d’alta montagna. A far compagnia a due occhi troppo blu e troppo seri che ricordava tanto amareggiati soltanto il giorno della sua investitura.
"Camus…"
La ragazza sospirò. "Non riesco proprio ad essere paziente con te…"
Chiuse gli occhi. "Non devo pensarci adesso. Certo che anche lui potrebbe facilitarmi le cose, ogni tanto… "
Accadde in quel momento, senza preavviso. Kelly si piegò in due, con un movimento del tutto indipendente dalla sua volontà. Scivolò a terra senza emettere alcun suono. Per istante non vide più nulla. Nausea. Dolore intenso alla bocca dello stomaco. E un freddo spietato, che ghiacciava i nervi e le ossa. "Respira, accidenti, respira…"
A malapena riuscì a sollevarsi fino al divano. Il dolore era scomparso, rapido com’era arrivato, eppure non si sentiva meglio. Sapeva chi lo stava provando davvero, a migliaia di chilometri di distanza.

 — Steve… — mormorò. Suo fratello. L’altra metà di sé. Che in quel momento…

Ogni altro pensiero svanì dalla sua mente, mentre cercava di riannodare quel debole contatto. Non aveva senso. Steve era andato a Kobotek, il minuscolo villaggio siberiano nei cui dintorni era stato addestrato. Lo stesso in cui ancora abitava il Crystal Saint, il suo maestro. L’altro allievo di Camus, cui voleva chiedere un consiglio.
"Con chi stai combattendo? E perché?"
Uno scintilliò simile al cristallo, e il lembo di un mantello candido… Kelly sapeva a chi apparteneva quell’armatura. Gliela aveva descritta Camus, una volta, con un impercettibile sorriso d'orgoglio appena celato.
"Dio, no. Non questo."
Non perse tempo in altre congetture. Aprì la finestra e saltò di sotto, semplicemente, nello stesso istante in cui un allibito Tatsumi faceva capolino dalla porta, per annunciarle che l’elicottero era pronto.

~.~

Il Santuario in quei giorni aveva un aspetto magnifico. Milo percorreva lentamente il sentiero polveroso che conduceva ai vecchi campi d’addestramento maschili, godendosi lo spettacolo offerto dalle foglie rosse e dorate che danzavano al vento, regalo di quell’autunno mite. Avrebbe potuto percorrere quella strada ad occhi chiusi. Lì, tanti anni prima, Sion aveva curato la parte finale del suo addestramento, come degli altri futuri Guerrieri d'Oro. Lì per primi aveva incontrati Saga, il misterioso scomparso. Aioros, il futuro Gran Ricercato. E Camus, il fratello di una vita.
Scosse il capo. Quasi quindici anni da quel giorno. Aioros e Camus. Il cocco del Sacerdote e il suo amico dallo strano accento erano di nuovo davanti ai suoi occhi. Nessuno avrebbe sospettato che metà dei tiri mancini giocati a Shion dai suoi allievi fossero opera loro. Né che quei due incoscienti avessero festeggiato l’investitura di Camus con una solenne bevuta al Pireo, la prima della loro vita. Li aveva osservati a debita distanza, e aveva invidiato la loro complicità, quando ancora era convinto che non avrebbe mai avuto amici così.
Faceva uno strano effetto pensare a loro in quel modo. Chissà se qualcun altro ricordava il ragazzino pestifero che era stato il Signore dei Ghiacci prima della fuga di Aioros.
Aioros.
Il tutore della piccola Athena. Il Cavaliere del Sagittario… Prima che il disonore calasse su di lui, non era altro che uno di loro, un giovanissimo guerriero dalle capacità straordinarie, con un forte senso dell’onore e un fratellino biondo perennemente avvinghiato alle gambe.

Ora, quell’ampio piazzale ad anfiteatro era vuoto. Da almeno dieci anni gli allenamenti dei novizi si svolgevano a valle, fuori dalla vera e propria cinta del Santuario. L'ubicazione del Sacro Tempio e delle Dodici Case era divenuta un mistero per la maggior parte dei Santi delle cerchie inferiori, ormai sbandati e alla mercé di emissari privi di autorità. Come quei ragazzini di Tokyo, attirati come falene dall’inganno di una celebrità di celluloide.
Milo non si era mai sentito granché misericordioso verso i traditori del Santuario. Quei piccoli stupidi avevano messo in ridicolo le fondamenta stesse della loro fede, e litigato come cani rabbiosi attorno ad una reliquia sacra, alla quale non erano neppure degni di avvicinarsi. Eppure la condanna a morte che Arles aveva emesso senza neppure tentare un richiamo all’ordine gli risultava difficile da comprendere. L'aveva trovata troppo frettolosa, e per questo, forse ingiusta.
Era giunto a destinazione. Per un attimo la luce, non più schermata dal fogliame, lo accecò, poi lo vide. Non ci voleva un genio ad immaginare quanto poco la stesse prendendo bene, lui che in qualche modo indiretto era responsabile di uno dei traditori. O forse il legame era molto più profondo, e lo coinvolgeva in un modo fin troppo personale. Forse era quello il motivo per cui sempre più spesso lo trovava in quel posto abbandonato, sotto la grande quercia che li aveva visti crescere.

 — Camus — lo chiamò sottovoce.

L’amico non alzò neppure lo sguardo. — Ti avevo sentito arrivare — gli rispose, con voce incolore.

Milo lo esaminò con attenzione, prima di lasciarsi cadere al suo fianco sul terreno erboso. — Che brutta cera — considerò, battendogli una mano sul braccio. L’altro si limitò a scrollare le spalle. — Una guardia mi ha detto di averti visto venire qui. Non credevo che saresti tornato così presto — proseguì, scrutandolo attentamente.

Capì di aver conficcato il dito diritto nella piaga. Gli occhi di Camus saettarono su di lui, furiosi, ma durò poco. Si sistemò meglio contro il tronco e riacquistò il suo solito atteggiamento. — Non lo prevedevo neanch’io — confermò, rigido.

Milo alzò discretamente gli occhi al cielo. "Lite coniugale, dunque. E io che speravo che se la sbattesse e basta." Aveva una battuta appropriata già sulla punta della lingua; riuscì a mordersela appena in tempo. Non era il momento adatto agli scherzi, non con le notizie che portava. — Camus, devo parlarti. Si tratta di Crystal Saint.

~.~

Bicchiere, zucchero, cucchiaino. Brodaglia liofilizzata che, sapientemente mescolata ad acqua bollente, compiva la sua magica metamorfosi e trasfigurava nella ributtante pozione in grado di tenerlo in piedi per una notte intera. "In termini scientifici, il caffè peggiore che abbia mai bevuto."
Quella sera sarebbe toccato a lui restare sveglio, rifletteva Alessandro Barzini, sorseggiando la sua bevanda, e scottandosi la lingua con noncuranza. "Meglio non sentirlo, il sapore…"
Era stanco, come tutti loro. E preoccupato. Anche se la debolezza non gli avrebbe certo impedito di svolgere il suo ‘turno di notte’. Le chiamavano così, quelle serate clandestine a passeggio nei database più segreti del mondo, alla ricerca di un indizio qualsiasi che indicasse la strada per raggiungere i loro amici scomparsi.

Gli mancavano. Gli mancavano tutti, terribilmente. Le freddure in francese di Mark quando riusciva a mettere le mani sullo champagne di Wood, le risate cristalline e rasserenanti di Michael. Le occhiate di riprovazione di Jason ogni volta che lo beccava a destreggiarsi tra quattro ragazze diverse. I mezzi sorrisi di David, gli unici che conoscesse più eloquenti di mille discorsi. Le litigate feroci di Kelly e Steve, quasi quotidiane, e la casa invasa di cuscini sventrati quando decidevano di pestarsi di prima mattina. E le urla di Christine, che tentava di ristabilire l’ordine.
Quelli erano i suoi amici, la famiglia che non aveva avuto, e non poteva cancellarli dalla memoria con un colpo di spugna, fingere che non avessero diviso quasi tutti i momenti importanti, che non fossero stati tutti vittime della stessa truffa.
"Non volete imparare questo nuovo gioco? Vedrete, vi divertirete un mondo tutti quanti…"
Bersaglio, occhiali per le schegge e paraorecchi per non spaccarsi i timpani. E in mano una Smith&Wesson dal poderoso rinculo, che li aveva mandati tutti gambe all’aria almeno una volta. Un nuovo gioco, come no. Già allora sapevano, senza comprendere davvero, che un giorno sarebbe stato vero. Unica regola, chi perde muore…
"Quanti anni avevo? Non più di otto…"
Su quante menzogne aveva poggiato la loro vita? Quante balle avevano ascoltato, a quante avevano creduto? Piccoli stupidi, certo. Ma quanto era stata colpa loro? Mai nessuno si era preso la briga di mostrare loro cosa fosse una vita diversa.
Tentò di distendere i muscoli del collo e delle spalle, irrigiditi dalla fatica e dalla tensione di quella giornata. Per lui e Katie era ancora più difficile tenere dietro alle ricerche e proseguire il loro addestramento di recupero senza dare troppo nell’occhio, ma non avrebbero mai e poi mai rinunciato a fare la loro parte.
"Katie…" dietro quell’apparenza dimessa, si nascondeva un carattere che non si piegava. Aveva già affrontato le furie del caro Generale, e a cambiare era stata soltanto la qualità del suo sorriso, sempre più affilato e pericoloso. Era preziosa per lui e per Max, ora che loro tre erano gli unici del gruppo ad essere rimasti alla base, privi della loro guida.
"Sei un bastardo fortunato, Dave"
E ritornava la sensazione di essere osservati dall’ombra. Un fottutissimo Dungeon Master che giocava con loro come in una partita a D&D.
Alex detestava i giochi di ruolo dal profondo del cuore, lui non era fatto per la strategia e non era mai stato granché paziente. Preferiva lo scontro diretto, l’adrenalina che scorreva nelle vene, i muscoli che si rilassavano una volta scampato il pericolo. Per colmo di raffinatezza, eccolo costretto dietro una scrivania, senza possibilità di affrontare il suo nemico a viso aperto.
"Odio sentirmi tanto impotente…"

Passi veloci nel corridoio, mormorii divertiti. Alex tese le orecchie, ma non riuscì a distinguere che poche parole sconnesse. Fissò il bicchierino che aveva in mano, chiedendosi se, freddo, quell’intruglio avrebbe fatto ancora più schifo.
La porta della saletta si aprì all’improvviso. Uno spilungone allampanato e molto afro irruppe nella sala, fermandosi di colpo. Non si aspettava di trovare qualcuno lì, ne era certo. — Alex… — mormorò, infatti. La mano corse rapida alla tasca anteriore della giacca, come per un riflesso condizionato.

"Neanche avessi incontrato Martin e il suo gatto antidroga." — Ned — ricambiò lui con voce asciutta; lo conosceva appena, soprattutto per la fama di bello che le poche ragazze della base gli avevano cucito addosso. E qualcosa di interessante doveva averlo, fosse la pettinatura da Bob Marley, la pelle color zucchero bruciato, il fisico prestante o gli occhioni verdi, retaggio di qualche antenato arabo nel suo albero genealogico di senegalese. Lui, come tutti i maschi eterosessuali, si trovava a subirne la costante concorrenza, più che il fascino esotico, e lo apprezzava soltanto per lo stupefacente talento di coltivare marijuana idroponica di prima qualità all'interno del suo armadio da recluta. In più, non aveva voglia per nulla voglia di chiacchierare, quella sera. Sperò che il suo collega afferrasse subito il concetto e pensasse ai suoi dubbi affari. "Certo che, se non dovessi restare lucido, una cannetta l’accetterei volentieri."
Doveva avere quel pensiero scritto in faccia, perché il collega si lasciò cadere sul divano, immensamente sollevato. E prima che potesse dire una sola parola, aveva introdotto una mano nella tasca famosa, e ne aveva tratto…

 — Un set di dadi? — "Cos’è, mi legge nel pensiero?"

 — Sì… stasera c’è la sessione di Cthulhu* con i ragazzi del dipartimento informatico. La giochiamo sempre qui, non lo sapevi? — s’infervorò Rastaman, traendo dei fogli da una cartelletta. Poco ma sicuro, si trattava della scheda del suo personaggio. Come facesse quel ridicolo nerd a rimorchiare più di lui sarebbe sempre rimasto un mistero.

"E così, sfumano tutti i miei bei progetti sui paradisi artificiali…"

 — I membri di tutte le divisioni sono convocati immediatamente in sala conferenze per una riunione straordinaria. Ripeto, i membri di tutte le divisioni sono convocati immediatamente in sala conferenze per una riunione straordinaria. —

La voce dell’uomo più adorato della base rimbombò nell’altoparlante collegato direttamente all’interfono del suo ufficio. "E adesso che diavolo vuole?" Wood adorava abbattersi in quel modo sulla giornata dei suoi sottoposti, con la stessa grazia di un biplano della Grande Guerra. Gratificava il suo ego, già piuttosto sviluppato. Tuttavia, quel giorno c'era qualcosa di strano, nel tono di voce, come se quella riunione improvvisa seccasse anche lui. Alex fissò il compagno con aria interrogativa. — Ne sai nulla? —

 — Lo sapremo fra poco. Hai sentito? Dobbiamo andare tutti. —

Il ragazzo lanciò nel cestino quel che restava del suo caffè, mancando l’obiettivo per un pelo. — Io non sono in servizio stasera, penso di potermi risparmiare un altro delirio di Wood. Mi farò aggiornare. — "E se non mi vede ho ancora speranze di sgusciare inosservato al mio posto di lavoro notturno."

Ned contemplò per qualche secondo la piccola pozzanghera nera che s’era allargata sotto il bicchiere rovesciato, quindi si voltò con un sorriso da cospiratore. — Poco fa ho incrociato Wood nel corridoio del piano di sopra e se fossi in te verrei, Alex. Il vecchiaccio aveva la faccia di uno che si è accorto della bomba nel cesso solo dopo aver calato le braghe. Secondo me, è la volta buona che gli prende un colpo. —

~.~

Seiya non aveva mai amato il freddo intenso. Perfino da bambino, quando giocare con la neve era un passatempo che lo entusiasmava giusto per dieci minuti. Che si potesse vivere in luoghi come quelli, ricoperti da una coltre ghiacciata per dodici mesi l’anno, e chiamarli casa, era un concetto che sfuggiva alla sua comprensione. Tutto gli sarebbe potuto capitare, aveva sempre pensato, tranne che una gita attorno al circolo polare artico. Se era corso in quello sperduto angolo di mondo, era stato soltanto per portare soccorso ad un compagno d’armi. Ma il viaggio si era rivelato inutile, Hyoga non aveva avuto bisogno del suo aiuto. Era riuscito a sconfiggere il suo avversario, ma come accadeva spesso a tutti loro, nel farlo aveva perso un altro brandello d'innocenza.

La porta della casetta di legno si aprì. Ne emerse una figura familiare. Altair della Gru, la sorella di Hyoga, la sua vecchia amica. I suoi pensieri erano un'incognita perenne, tanto quanto il suo volto, nascosto come voleva la regola. Il suo contegno troppo riservato, le sue improvvise sparizioni, il modo in cui spesso lo colpiva la sensazione che gli nascondesse qualcosa… tutto questo lo incuriosiva e lo pungolava, e allo stesso modo lo teneva a distanza. Ma ci si poteva nascondere solo fino ad un certo punto, come Marin gli aveva insegnato a suo tempo, a suon di manrovesci, spronandolo a distinguere nella postura e nei gesti le intenzioni dell’avversario. La maschera non era un problema, non più. Buffo come quell’affare di metallo obbligasse a diventare perfetti interpreti del linguaggio del corpo: lui, dopo sei anni di convivenza con una Sacerdotessa ben poco tollerante, poteva definirsi un vero esperto.
Era fin troppo banale notare quanto Altair fosse triste, e preoccupata. Suo fratello aveva combattuto contro il proprio maestro, e salvarsi la vita gli aveva richiesto un prezzo troppo duro da pagare.

 — Come sta? — chiese, offrendo il volto al vento gelido.

Altair gli porse un mantello di pelliccia. — Dorme, ora — fu la laconica risposta.

Dopo la rapida sepoltura aveva ricondotto il fratello alla sua vecchia abitazione e aveva tentato di improvvisare qualcosa di caldo per tutti. Ma Hyoga non aveva toccato cibo, eclissandosi nella sua stanzetta di un tempo senza una parola. Loro due erano rimasti in silenzio, e Seiya aveva cercato disperatamente qualcosa da dirle. Aveva fissato la sua maschera, confuso e imbarazzato, finché lei si era alzata e aveva seguito il fratello nella sua tana. Dopo due ore, eccola ricomparire con le spalle curve. "Hai preso su di te metà del suo male, vero?"

 — E tu? — continuò, premuroso. "Che domanda stupida. Non ha certo l’aria allegra."
La ragazza tremò violentemente. Per un attimo Seiya pensò che volesse colpirlo. Ma poi si limitò a scrollare le spalle, come di fronte ad una battuta di dubbio gusto. — Andrà tutto per il meglio — continuò, sfiorandole un polso. — Hyoga si riprenderà, e riuscirà a dimenticare. —

Lei rise, un suono freddo e metallico. E scostò la sua mano. — Pensa se si trattasse della tua Marin — gli ricordò, pungente, come se desiderasse punirlo per qualcosa. — E poi chiediti quanto ti ci vorrebbe per dimenticare. —

Lui rimase in silenzio, soppesando le sue parole a occhi bassi. Si sentiva in colpa nei confronti di quella ragazza, senza sapere perché. Era come se, in qualche modo, sentisse di doverle più che quelle parole vuote. Non capiva da quale parte di sé provenisse quell’emozione, ma quel giorno era più forte di lui.
Kelly scrutò a lungo quel profilo tanto familiare, cercando di ravvisare in lui ciò che era rimasto del ragazzo che era certa di aver amato. "Dovrei desiderare un tuo abbraccio più di ogni altra cosa. Ma quel tempo… non lo ricordo quasi più."

 — Ascoltami, Seiya — riprese, con molta più gentilezza. "Non è colpa sua, cerca di ricordartene." — Se hanno provato a fare del male a Hyoga, vuol dire che il Santuario sta cercando di colpire mentre siamo separati. Neanche Saori e Shun sono al sicuro al cottage. Appena mio fratello si riprenderà dovrete dargli man forte. —

Lui la fissò dubbioso — Dovrete? — ripeté.

Lei toccò le sue mani, questa volta con intenzione, provando il tremendo desiderio di mostrargli un vero sorriso. — Io verrò con voi, ma non posso restare a lungo. C’è un posto in cui devo andare. —

"E qualcuno cui devo quanto meno delle scuse."

~.~



* Famoso gioco di ruolo da tavolo, The Call of Cthulhu








Angolo della vergogna™

Camus mi sta fissando, gente. E lo sta facendo molto, molto peggio del solito. Dopo tutti questi anni, finalmente si rende conto della fesseria che ha fatto venendo ad abitare nel mio armadio. sta alzando le braccia, che spero abbia opportunamente deodorato. Che dire, quindi, nei miei presumibilmente ultimi istanti di vita? Beh, intanto, chiedete a Philos di vendicarmi -_^

Sagitta, sono felice di averti conosciuto prima della mia dipartita. Quel gelato al cioccolato fondente e quelle chiacchiere su quella panchina non hanno prezzo. Voglio bene a te, ai tuoi parenti e alla tua piccola Alyssa. Che, ai miei occhi, d'ora in poi avrà il grande difetto di stare col mio assassino, ecco. Ti dedico tutte le parti in cui il francese di carta fa la figura dell figo. E anche quelle in cui non la fa, se no non ti lascerei quasi niente.

Sara, Saretta mia, muoio felice: sei tornata a scrivere di questo fandom, mi ha dato in pasto alcune tra le più belle pagine che abbia letto su questi personaggi, e soprattutto, dopo anni di (mia) latitanza da msn, sei sempre l'amica che eri. È un piacere ritrovarti e spero di mangiare altri McChicken in tua compagnia. A te le parti con le spie, che so non ti dispiacciono. E già che ci sei, ti regalo Ned che l'è un bel topone.

_Camus_, che sarebbe certo una gioia incontrare ( ma da come si mettono le cose, ne dubito), colgo l'occasione per ribadirti il piacere di ricevere i tuoi commenti interessati e pieni di note intelligenti. Meglio dire certe cose prima che sia troppo tardi, qui la temperatura incomincia già a calare. A te lascio Kelly, che se vuoi potrai strozzare. Sono come i faraoni dell'antichità: morta io, morti tutti.

Insomma, se dovessi sopravvivere all'Aurora Execution (sì, Camus, insomma, è un colpo un po' pacco, ammettilo, se non sei riuscito ad accoppare neppure un misero bronze… urca che freddo!), mi ritroverete presto su questi schermi. Altrimenti…

… arghhh!

   
 
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