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Autore: Eryca    11/09/2012    6 recensioni
Era colpevole di aver donato tutta la sua anima alla musica.
Non c’era persona più colpevole di lei.
Era colpevole anche in quel momento, mentre tutti sapevano ciò che stava per accadere, ma nessuno aveva il coraggio di dire nulla o muovere anche solo un muscolo.
C’era musica nell’aria, lei la sentiva.
Loro la sentivano.
Vita.

****
C'è Anne, con i suoi demoni del passato e la sua maschera perenne. Ha un sogno.
C'è Davide, con la sua purezza d'animo. Ha un sogno.
C'è Matteo, con la sua spavalderia e il suo disinteresse. Ha un sogno.
C'è Riccardo, con le sue dipendenze, le sue paure e le sue bugie. Ha un sogno.
Un sogno.
Hanno tutti lo stesso sogno.
La musica.
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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10.

Lacrime di verità

 

 

Has someone taken your faith?
Its real, the pain you feel
The life, the love
You die to heal
The hope that starts
The broken hearts
You trust, you must
Confess

Foo Fighters – “Best Of You”

 

 

 

 

 

Era sempre stato più facile, per Riccardo, mentire piuttosto che raccontare la verità.

Quando era solo un bambino, sua madre gli ordinava spesso di mettere in ordine la sua stanza e lui, piuttosto di non farlo, decideva di fare la faccia d’angelo e nascondere la polvere sotto il letto.

Non aveva mai provato sensi di colpa, nel dire bugie; aveva sempre pensato che oscurare la verità non avrebbe ferito nessuno, in fondo erano solo piccole trasgressioni.

Eppure, con il passare degli anni, mentire era divenuta una vera e propria mania per lui, che gli impediva di essere sincero con il mondo ma, soprattutto, con sé stesso.

E continuava a raccontarsi delle fandonie, pensando che stesse facendo del bene.

E invece si stava torturando.

Aveva sempre pensato che ci fosse un confine sottile tra realtà e finzione, le cose possono fondersi a formare una crema densa e succosa, a tal punto da impedirti di riconoscerle; ma non si era mai soffermato sul fatto che quel limite era maledettamente importante.

Impediva di perdere sé stessi.

E adesso, dove sei tu, perso nel nulla, Riccardo?

Se ne stava seduto sul piccolo letto singolo in cui aveva dormito tutte le notti della sua infanzia, dentro quella stanza un po’ troppo piccola e un po’ troppo grossa; la trapunta era di un blu intenso con macchine disegnate sopra, sempre la stessa, si ritrovò a pensare sorridente.

Si alzò e si diresse verso il piccolo armadio nel quale si nascondeva quando aveva paura di sé stesso. Riccardo contemplò la sua immagine nello specchio affisso alla parete: occhi vitrei, assenti, di chi ha imparato a mentire.

Mentire era respirare per lui.

Si ricordava vagamente dei momenti spensierati che aveva passato in quella casa, cucinando torte al cioccolato in compagnia di sua madre, giocando a prendersi con la sorellina, Caterina. Poi era subentrata l’adolescenza e con essa i dolori, il suo sentirsi costantemente inadeguato e fuori posto; al liceo era un ragazzino strano che se ne stava sempre per i fatti suoi, lo zainetto nero sulle spalle, l’album dei Ramones custodito nella tasca interna.

D’un tratto sentì una fitta lancinante al petto, come se il cuore dovesse implodere da un momento all’altro. Fu costretto ad accasciarsi al pavimento, abbracciandosi le ginocchia come a nascondersi dentro di sé, mentre si rendeva conto che la testa minacciava di spaccarsi in due, il dolore insopportabile.

Il cervello concentrato su una sola, malatissima cosa.

Cocaina.

«No, no, no, no, no...» si ritrovò a balbettare come un pazzo, il terrore impadronitosi del suo corpo, conscio solo della sua disperazione.

Doveva fare qualcosa, trovare una soluzione.

Il suo corpo non ammetteva scuse, voleva una sola cosa in quel momento e se non l’avesse ottenuta allora, probabilmente, si sarebbe rivoltato contro la mente.

Cocaina.

Doveva trovare della dannatissima cocaina o sarebbe andato completamente fuori di testa nel giro di pochi minuti. La consapevolezza di essere un tossicodipendente alle prese con una crisi d’astinenza non lo toccò: non era ancora il momento per la lucidità.

Ricca si prese le mani tra i capelli mentre, come un cane da caccia, prese a frugare nei cassetti della piccola scrivania, nella sua piccola borsa da viaggio, sperando di trovare le dosi che si era abbondantemente fatto la notte prima, quando sua madre lo pensava addormentato.

Cazzo, cazzo, ne ho bisogno. Ne ho bisogno.

Si rese conto di sembrare un ladro, di essere arrivato proprio al fondo, perché stava cercando la droga nella casa in cui era cresciuto, ma non gliene importò nulla.

Doveva avere della cocaina, altrimenti non sarebbe sopravvissuto. Sentì le viscere contorcersi, gli organi interni contrarsi e rimpicciolire... si ritrovò ad urlare.

Urlò come mai aveva fatto prima.

Urlò disperazione.

Urlò sofferenza.

Urlò stanchezza.

Urlò.

Urlò.

Urlò.

E pianse.

Si abbandonò al flusso scorrevole delle lacrime, rannicchiandosi sul pavimento come un verme e si sentì veramente come se fosse uno di quegli animaletti.

Lacrime di acqua piovana, bagnate, sporche, contaminate dalla droga in circolo nel suo corpo, ormai impadronitasi di ogni suo neurone. E Riccardo si sentì così viscido e squallido che non riuscì a smettere di piangere, neanche quando si rese conto della madre ferma sullo stipite della porta.

Pianse per la sua dipendenza dalla cocaina.

Pianse per la sua dipendenza dalle bugie.

Pianse per la sua dipendenza dall’autodistruzione.

Pianse per il sé stesso che era andato perduto.

Pianse perché sapeva che se avesse smesso sarebbero ricominciate le convulsioni e avrebbe rubato del denaro a sua madre, pur di avere la sua maledettissima cocaina.

Pianse perché se lo meritava, di piangere per sé stesso.

Sentì le braccia fragili di sua madre avvolgersi attorno al suo corpo scosso dai tremori e non si oppose, non ne aveva la forza, non ne aveva il coraggio.

Si costrinse ad aprire gli occhi per incrociare il suo riflesso nel piccolo specchio della parete.

Vide il fantasma distrutto di un ragazzo solare, giocoso, divertente e un po’ tonto, come gli avevano sempre detto tutti.

Vide sé stesso sgretolarsi, mentre le sue menzogne lo mangiavano.

Basta.

«Basta... » mormorò asciugandosi le labbra, incapace di controllare gli spasmi delle gambe.

Desiderava la cocaina, in quel momento. La voleva e sarebbe stato capace di uccidere pur di averla.

Guardò sua madre, guardò i suoi occhi e si rese conto che la stava uccidendo.

Basta.

Basta mentire.

«Mamma» sussurrò attirando lo sguardo addolorato della donna che lo aveva messo al mondo.

Cercò di fermare la mandibola, che continuava a battere.

Basta mentire.

«Sono un drogato.»

Basta mentire.

«Sono un drogato in crisi d’astinenza.»

Basta mentire.

«Sono un drogato in crisi d’astinenza e...»

Basta mentire.

«… e sono gay.»

 

 

 

****

 

 

 

 

 

Fu mentre sgranocchiava i deliziosi biscotti al cioccolato di Charlotte Melì, in compagnia di Anne e Davide, che il cellulare di Matteo prese a squillare insistente, spezzando le risate con la suoneria dei Guns N’ Roses.

«Pronto?»

Silenzio.

Forse qualcuno aveva sbagliato numero contattandolo, eppure sentiva un respiro affannato provenire dall’altro capo del telefono, come se qualcuno stesse cercando le parole.

«Chi parla?» Lanciò un’occhiata furtiva ai suoi due amici, che ricambiarono con uno sguardo interrogativo.

Si stava stancando di quel silenzio e di quel fiato corto, lo mettevano in soggezione, lo rendeva angosciato e preoccupato, cosa che non gli piaceva affatto.

«Matteo...»

Quella voce.

Sgranò gli occhi, il panico impossessatosi immediatamente della sua mente, lasciando poco spazio alla sensazione di serenità che stava provando pochi attimi prima di ricevere quella chiamata.

Era lui. Lui. Lui.

«Riccardo!» Non appena udirono quel nome, i compagni di gruppo misero in moto le orecchie; soprattutto Davide, amico da sempre dell’introspettivo batterista.

Di nuovo silenzio.

E un respiro.

Un singhiozzo.

Di colpo la paura prese il posto del panico, rendendolo conscio che, se lo chiamava mentre stava da sua madre, con una reazione così preoccupante, Ricca non doveva stare assolutamente bene; strinse il cellulare all’orecchio per udire meglio.

«Che cosa succede, Riccardo?» la voce preoccupata «Ci sei?»

Davide si avvicinò velocemente a Matteo, facendogli segno di passargli il telefono, evidentemente in ansia per la salute dell’amico; il chitarrista doveva volere un bene inimmaginabile a quel ragazzo testardo ed infantile che era Riccardo, altrimenti non avrebbe avuto quell’espressione ansiosa sul bel viso.

«Non c’è la faccio... Ho bisogno di cocaina... La voglio... Non ci riesco...»

Merda.

Fu come se gli avessero appena tirato un enorme pugno nello stomaco, anzi, il dolore fu più forte e il colpo inaspettato: come avevano potuto sottovalutare la dipendenza del loro amico dalla droga?
Aveva sempre sminuito l’uso che il batterista faceva di sostanze stupefacenti, più preoccupato di fargli ammettere di essere omosessuale; e invece aveva sbagliato tutto, era stato egoista.

E ora Riccardo stava soffrendo, a casa di sua madre.

«Dove sei, Ricca? Dimmi dove sei!»

Altri singhiozzi.

Dannazione.

«Davide lo sa... M-ma...» sembrava che stesse lottando contro i tremori «… Vieni da solo, ti prego»

Merda, merda, merda!

Lo poteva fare, lo doveva fare.

Prese un grosso respiro e si fece coraggio, per il suo amico, perché aveva il disperato bisogno di aiuto e voleva il suo. Glielo doveva, non lo avrebbe abbandonato.

«Arrivo, Riccardo. Arrivo.»

Chiuse la chiamata.

Guardò i suoi amici, improvvisamente avvolti da un silenzio tombale, gli occhi ansiosi di sapere ciò che stava succedendo.

«Davide, ho bisogno che tu mi dica dove vive la madre di Riccardo.»

Per te, Ricca.

Solo per te.

 

 

La proprietà non era fatiscente, maltenuta e con le foglie d’edera che si arrampicavano sulle pareti di pietra, come Matteo se l’era immaginata; si trattava, piuttosto, di una piccola casetta di campagna, poco fuori Torino, con un giardino curato e decorato da tanti fiori colorati.

Scese dalla macchina e si fece strada lungo il vialetto, fermandosi davanti alla porta in legno, che portava su di essa la scritta “Baldi – Sacco”.

Ci siamo.

Il campanello emise un piacevole rumore di campana quando Matteo lo pigiò, riportandogli alla mente che il suo piccolo alloggio non possedeva uno di quegli oggetti.

Se ne sarebbe procurato uno, ma ora non era quella la sua priorità.

Quando il bassista si ritrovò di fronte alla donna che gli aveva appena aperto la porta, dovette concentrarsi per rendere imperscrutabile la sua faccia; era una signora sulla cinquantina, con due grosse occhiaie nere sotto gli occhi gonfi, segno che doveva aver smesso da poco di piangere. Doveva essere stata una ragazza affascinante, da giovane, perché possedeva due labbra carnose e, dietro tutto a quel dolore, nei suoi occhi si intravedeva un azzurro tenue.

Dio, Ricca. Guarda come hai ridotto tua madre...

«Salve, signora. Sono Matteo, un amico di Ri...»

«Lo so. Mi ha chiesto di comporre il tuo numero di telefono.»

Oh.

«Entra.» disse senza curarsi troppo della sua presenza, in realtà.

Non aveva mai visto una donna tanto distrutta. Ma, in fondo, cosa voleva saperne lui di madri e figli? Come poteva anche solo provare ad immaginare cosa doveva significare per quella signora vedere il suo bambino in quello stato?

Sembrava che le avessero portato via un pezzo di sé stessa.

Gli fece strada dentro la casa e Matteo notò che anche l’interno aveva l’aria di un’abitazione modesta, ben tenuta e vissuta.

Ma c’era troppo silenzio.

«Ti avverto, non risponde delle sue azioni.» disse fermandosi davanti ad una porta, gli occhi fissi nei suoi, quasi ad implorarlo di riportargli indietro il suo piccolo. «Non... non è più lui.»

Non posso farcela a guardare negli occhi di questa madre.

La donna bussò leggermente alla porta, per poi aprire uno spiraglio che non gli lasciava intravedere molto; mise la testa dentro la camera e la vide trattenere un sussulto.

«Riccardo, c’è il tuo amico...» la voce dolce, premurosa, ma nello stesso impaurita.

Che strazio.

La madre gli fece cenno di entrare, per poi sorridergli amaramente e dirigersi verso qualche altra parte della villa, probabilmente a rintanarsi dentro ciò che rimaneva di lei.

Non si torna indietro.

«Ricca, sono io, Matteo.»

Nessuna risposta. Solo rantolii, gemiti, sussurri.

Matte dovette ricorrere a tutto il suo sangue freddo e alla capacità di mascherarsi, per non mettersi le mani nei capelli e scappare alla vista di quel ragazzo solare, raggomitolato in fondo ad un letto da bambino, le braccia intorno alle sue gambe.

Oh, dio, Riccardo...

Come poteva un uomo ridursi in quel modo con le sue stesse mani?

Ciò che Matteo provò fu solo un enorme senso di colpa per non essersi accorto che Ricca stava soffrendo, si stava annullando cercando conforto in una finzione che non lo avrebbe portato ad alcuna soluzione, se non quella di morire.

Oh, Dio. Come aveva potuto non rendersi conto di quanto il suo amico stesse soffrendo?

Proprio lui che di nascosto aveva passato interi pomeriggi a scrutarlo di sottecchi, nella sala prova, non aveva notato il cambiamento radicale nei suoi occhi.

Come diavolo aveva potuto essere così cieco?

All’improvviso, Riccardo alzò gli occhi su di lui e Matteo non poté fare a meno di sussultare.

Occhi sofferenti, rossi e vitrei come quelli di un morto; occhi feriti, sciupati, privati di qualsiasi emozione e lasciati marcire come se niente fosse.

Dove sei finito, Riccardo?

Occhi in lacrime.

Il batterista che si dava tante arie, che faceva finta di essere eterosessuale, che aveva sempre la battuta pronta, l’animo del gruppo... stava piangendo implorando pietà.

Fu in attimo che il bassista si ritrovò sul letto, le braccia intorno al corpo magro del ragazzo a stringerlo forte contro il suo petto, per fargli sentire che no, non era da solo in quel mondo infame, che c’era qualcuno a cui importava della sua vita, della sua anima.

Riccardo si aggrappò disperatamente alle spalle di Matteo, lasciandosi accarezzare i capelli della mani gentili dell’altro, facendosi cullare, sentendosi un po’ a casa.

E Matteo non poté fare a meno di piangere a sua volta, perché non voleva che Ricca morisse, voleva che tornasse il ragazzo svampito e simpatico con cui aveva riso quel giorno al bar, lo stesso ragazzo che lo aveva baciato appassionatamente per poi darsela a gambe levate.

«Ho detto... Gliel’ho detto... A mia mamma...» prese a farneticare il batterista tra un singhiozzo e l’altro, sforzandosi di mettere insieme un discorso.

«Che cosa gli hai detto, Ricca?»

Il ragazzo si nascose nel petto di Matteo, che non smise nemmeno per un attimo di massaggiargli la schiena, di farlo sentire al sicuro e protetto, sperando che potesse essergli di aiuto.

«Che sono un drogato... e...»

A quel punto, alzò gli occhi e li fissò su quelli di Matteo, privandolo di qualsiasi capacità discorsiva, seccandogli la bocca.

Tutto con un semplice, intenso sguardo.

«... Che sono gay.»

Oh, porca puttana.

Si era aspettato una qualche strana confessione, magari per aver rubato con l’intento di trovare i soldi per la cocaina o chissà quale altra cosa, ma... non quella confessione. Ormai aveva perso le speranze di sentire la verità sulle labbra di Riccardo, ma quel ragazzo non smetteva mai di stupirlo.

Lo abbracciò dolcemente, possessivamente, rendendosi conto che tante cose stavano cambiando e non era tutto negativo quello che stava succedendo: Ricca aveva deciso di dire la verità.

Avrebbe affrontato ciò che la vita aveva messo in serbo per lui.

Era omosessuale, era drogato.

Per la prima confessione ci sarebbe stato lui al suo fianco... e anche per la seconda.

«Va tutto bene, piccolo...» sussurrò baciando i capelli verdi «Ci sono io qui con te.»

Ed era vero.

Non lo avrebbe lasciato solo mai più, neanche per un secondo; avrebbe assistito alle visite mediche, alle discussione con la famiglia che sarebbe venute, alla confessione davanti ad Anne e Davide.

Sarebbe sempre stato al suo fianco.

 

 

****

 

 

 

Angolo Autrice

Lo so, è un capitolo straziante, è stata una vera e propria agonia scriverlo, lo giuro; ma questa era la svolta che avevo in mente fin dall’inizio per il nostro caro Riccardo e, in fondo, anche per Matteo.

Era necessario che Riccardo capisse veramente cosa era importante nella sua vita e cosa doveva fare di sé stesso: aveva bisogno di sbattere la testa contro il muro, come succede spesso anche nella vita reale. Quante volte è successo a me!

Una cosa importante: non so di preciso quali siano i sintomi dell’astinenza da cocaina, visto che non ne faccio uso (xD), ma ho trovato questo leggendo; se ci sono scemate vi prego di scusarmi.

Mi trovo nuovamente a chiedervi di recensire, perché, come potete vedere, i commenti sono scarsi e io non so se la storia è apprezzata oppure no, cosa vi piace e cosa vorreste che io migliorassi.

Quindi, per favore, lasciatemi un pensiero, io rispondo sempre.

 

Grazie ad aniasolary, Chiku, Kureiji, Miliko_Akiko chan, MoonLilith, Neal C_, oOo LaViSvampita oOo, postergirl84, RoxannePotter, Stella94, Zonami84 per aver inserito la storia nelle Seguite.

Grazie ad  a n t o  per aver inserito la storia tra i Preferiti.

E un grazie va anche a tutte le persone che hanno recensito: postergirl84, aniasolary, Miliko_Akiko chan, Roxanne Potter, cami_country dreamer, Neal C_,Yellow Daffodil, Zonami84.

 

Se avete voglia di chiacchierare, di parlare un po’ di questa storia, aggiungetemi su Facebook, cercando Eryca Efp

 

La vostra Eryca.

   
 
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