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Autore: JulietAndRomeo    14/09/2012    1 recensioni
Io rimasi un attimo interdetta: Nick? Quel Nick? Il figlio di Jeremy? Il tipo che avevo odiato a prescindere?
Come se ci fossimo letti nel pensieroci girammo l'uno verso l'altra: «Cosa?»
«Sta zitto!», «Sta zitta!» urlammo all'unisono e continuammo: «Io?»
«Tu!»
«No!»
«No?»
«Si!»
«Smettila!» concludemmo.
questa è la prima storia che scrivo e l'ho fatto per un concorso letterario a scuola quindi non so neanche come è venuta: la pubblico perché mi piacerebbe avere un vostro parere, non so ancora quanto sarà lunga perché il concorso sarà a settembre quindi devo ancora finirla. E' un giallo/commedia perché non piacciono neanche a me le cose troppo pesanti da leggere quindi l'ho 'alleggerita'. Non vi chiederò un commento, quello deve essere a vostro buon cuore. Adesso vi lascio, buona lettura
Genere: Commedia, Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 18: Preferisco morire che aiutarti

 

Mi precipitai come una furia all’ascensore e freneticamente, cominciai a schiacciare il pulsante.

«Andiamo, andiamo, andiamo!» sussurravo agitata.

Dopo quelle che a me sembrarono ore, l’ascensore arrivò e mi ci fiondai dentro.

«Deve premere il…» la voce di Lewis si perse appena entrai in ascensore.

Le porte si stavano chiudendo e io spinsi un pulsante a caso, con la speranza di averlo indovinato.

Arrivai al piano -2, le porte si aprirono e riconobbi all’istante il corridoio che avevamo percorso con Lewis più di una volta per andare dal medico legale.

Silenziosamente, mi avvicinai alle porte di metallo dell’obitorio e cercai di sbirciare tutto quello che succedeva all’interno.

Per mia fortuna, lo spiraglio da cui stavo guardando era abbastanza grande da permettermi di vedere buona parte della sala autopsie.

In questo modo, potetti scorgere Meadbowe in piedi tra l’ultimo tavolo di metallo e il piano illuminato per le lastre.

Puntava una specie di pistola contro i tre sfigati seduti, legati ed imbavagliati a terra in un angolo e nel frattempo parlava con il dottore, il cui naso perdeva sangue e che era riverso a terra, con le spalle nella mia direzione.

«Dimmi dov’è la sala conferenze, non voglio ripetermi» stava intimando al dottore.

«Io non lo so! Io non esco mai di qui, tranne quando mi chiamano sul posto» disse il medico sputtacchiando un po’ di sangue.

«Ascoltami bene: dimmi dov’è questa maledetta sala, perché faccio saltare la testa a qualcuno dei tuoi giovani assistenti».

A quel punto si inginocchiò vicino al dottore e si abbassò per sussurrargli qualcosa all’orecchio.

Sperando che la mia idea della morfina fosse efficace, mi affrettai a raggiungerlo alle spalle.

I tre sfigati si accorsero della mia presenza, e per la prima volta, ringraziai un criminale per averli imbavagliati.

Quasi quasi mi dispiaceva stendere l’uomo che era riuscito a zittire quegli idioti.

Cominciai a camminare silenziosamente nella direzione dell’uomo ancora accovacciato per terra, mentre lentamente uscivo una delle siringhe di morfina.

‘Speriamo funzioni!’ disse una vocina nella mia testa.

Con sommo terrore, mi accorsi che Meadbowe stava per rialzarsi, quindi mandai al diavolo ogni precauzione e mi misi a correre, con la siringa puntata nella sua direzione.

Quando si accorse di me, era troppo tardi: grazie al fatto che non si aspettasse il mio arrivo, riuscii a beccare proprio il collo e a somministrargli la morfina in fretta.

Quando la siringa fu vuota, lui mi respinse, con una forza sovrumana e io finii lunga distesa per terra. Cominciò ad avanzare verso di me con aria minacciosa e un sorriso da iena ridens stampato sulla faccia.

«Pensavi forse di potermi sopraffare con una forza da scricciolo come…» non continuò mai la frase, perché svenne e cadde sopra il dottore, già messo male.

«Idiota, non si è accorto che gli ho infilato una siringa nel collo» dissi mentre andavo a slegare il dottore e gli idioti.

Appena tolsi il bavaglio ai tre deficienti, cominciarono a parlare tutti insieme, come se gli avessero dato l’imput.

«Hey!» urlai con quanto fiato avevo in gola: «Io ho avuto una giornata stressante, hanno tentato di sciogliermi nella soda caustica, di farmi saltare in aria e hanno attentato alla perfezione del mio naso ben due volte! Quindi chiudete le fogne che avete sotto il naso, date una mano al dottore e non provare a salire ai piani superiori, neanche dovesse cadere il cielo o se uno dei vostri cadaveri dovesse risorgere! Sono stata sufficientemente chiara?».

Loro annuirono, quasi spaventati, ma appena finii di parlare, si precipitarono dal medico legale e lo aiutarono a riprendersi.

Io invece cominciai ad incamminarmi per risalire. Sempre facendo attenzione e nascondendomi al minimo accenno di rumori, arrivai alle porte dell’ascensore. Prima che potessi mettervi piede dentro, la voce di Lewis mi fece sobbalzare.

«No, non lo faccia!».

«E perché mai?».

«Di sopra è appena arrivata la ragazza con i capelli rossi, sta aspettando vicino l’ascensore, potrebbe riconoscerla».

«E allora come vuole che salga?».

«Con le scale».

«Con le scale? Ci sono delle scale?».

«Questione di sicurezza, durante gli incendi gli ascensori sono inaccessibili».

«Capisco, dove sono queste scale?» domandai rassegnata all’idea di farmi tre piani di scale a piedi.

«Sulla sinistra, poco più indietro c’è un corridoio: lo percorra tutto e in fondo, troverà una porta».

Seguendo le istruzioni di Lewis, imboccai un corridoio largo, ma molto buio. Misi le mani sul muro, per cercare di orientarmi, quando, ad un certo punto, sentii la voce di Lewis nell’orecchio: «Cullen, sta per caso brancolando nel buio?».

«Tralasciando il fatto che dopo questa storia dovrò farmi ricoverare d’urgenza in ospedale, causa i diversi infarti che mi state facendo venire, si: sto brancolando nel buio. Non avete mai pensato di mettere qualche lampadina qui sotto? È troppo buio anche per un pipistrello!».

«Ogni poliziotto ha una torcia in dotazione, potrebbe usare quella, non crede?».

«E questo per curiosità, quando pensava di dirmelo?».

«Gliel’ho detto ora, non la faccia troppo lunga».

Cominciai a frugarmi dappertutto, alla ricerca di quella maledetta torcia, e alla fine, dopo cinque minuti di ricerca, la trovai appesa alla cintura dei pantaloni.

‘Maledette divise da poliziotto!’ pensai mentre l’accendevo.

La luce della torcia, non andò lontano, perché investì quasi immediatamente la porta che portava alla tromba delle scale: era a meno di 30 centimetri dal mio naso.

«Qui c’è qualcuno che si diverte a prendermi in giro» borbottai.

Nessuno all’auricolare rispose alla mia affermazione, ma udii delle risatine di fondo che non fecero altro che aumentare il mio nervosismo.

Spinsi il maniglione della porta e sempre facendo luce con la torcia, cominciai a salire le scale, contando i piani, per non sbagliarmi.

«Eccomi finalmente!» sussurrai appena fui davanti alla porta di metallo che riportava il numero 0.

«Mi raccomando, Cullen, non si faccia notare, la porta delle scale si trova vicino all’infermeria».

«Bene… Ho una domanda».

«Cioè?».

«Beh, ecco… è armata?».

«Armata? Beh, non sembra, ma perché vuol saperlo? Che intenzioni ha?».

«Le peggiori» risposi asciutta prima di uscire nel corridoio vicino l’infermeria.

Percorsi velocemente la distanza che mi separava dalla stanza centrale del dipartimento e quando arrivai cercai di individuare la rossa psicopatica.

Non fu difficile, quell’improbabile colore di capelli si vedeva da chilometri e chilometri di distanza.

Mi avvicinai a lei lentamente, e quando fui abbastanza vicina, mi tolsi il cappello e le permisi di riconoscermi.

Lei mi guardò con gli occhi sbarrati, come se temesse di avere un’allucinazione e io mi voltai e mi incamminai verso gli spogliatoi femminili.

Intuendo probabilmente le mie intenzioni, lei mi seguì e una volta arrivate agli spogliatoi si richiuse la porta alle spalle.

«Chi non muore si rivede! Mi piace la tua tenacia, sei testarda e anche in gamba se sei riuscita ad arrivare fin qui. Certo, dovrò dare una lezione a Derek, che vi ha lasciato fuggire indisturbarti… glielo avevo detto io di uccidervi subito, ma a lui piace giocare».

«Grazie, ma purtroppo per te non posso dire le stesse cose: sei davvero psicopatica se credi di poter uscire illesa di qui. In ogni caso il tuo scimmione ci ha provato, non è colpa sua se quando Dio divideva i cervelli lui era altrove».

Lei rise, di una risata amara e sgradevole e poi mi guardò proprio per come si guarda una bistecca al sangue: «Già, hai ragione, ma la pazza sei tu se speri di poterlo raccontare a qualcuno credi davvero che ti lascerei andare via per disinnescare la bomba? Sai la mia è la più grande di tutte, ed è posizionata nel posto meno accessibile e più strategico di tutto l’edificio. Adesso che lo sai però, ho un motivo in più per farti fuori» disse prima di avventarsi su di me.

Mi afferrò il braccio sinistro e me lo torse dietro la schiena, cosicché la mano sinistra era all’altezza della spalla destra.

«Puoi ancora salvarti, devi solo unirti a me, devi solo aiutarmi a far saltare in aria questo posto» disse, portandosi dietro di me, al mio orecchio, con quello che di sicuro riteneva essere un tono seducente.

Repressi a stento una smorfia e un gemito di dolore: «Peccato per te che io preferisca morire che aiutarti a spedire al creatore una cinquantina di padri di famiglia» dissi dandole una testata sulla faccia.

Lei mi lasciò andare il braccio e si portò le mani al viso, imprecando in modo sin troppo teatrale per risultare vero. Quando mostrò il volto, il suo naso sanguinava copiosamente, probabilmente glielo avevo rotto e una smorfia di dolore le deformava i lineamenti.

«Come hai osato?!» urlò fuori di se dalla rabbia.

«Sai, devo ammettere che ti dona di più così che come prima».

Lei ringhiò di rabbia come un cane rabbioso e mi si buttò a dosso, facendomi finire lunga distesa per terra. Cominciò a darmi pugni, quasi tutti prontamente parati, fin quando qualcosa non rischiò di perforarmi la schiena.

Mi ricordai della torcia che avevo rimesso nella cintura e, con non poca fatica, la uscii e gliela puntai negli occhi. Rimase accecata per qualche attimo, che mi permise di caricare un bel colpo con la stessa torcia e di assestarglielo in testa. Lei svenne, accasciandosi a terra con un tonfo.

«La prossima volta, prenditela con qualcuna della tua taglia, spilungona! Mi sa tanto che tu e tua madre dovrete farvi fare una plastica facciale» dissi mentre tentavo di metterla in posizione eretta contro uno degli armadietti.

«Dove la nascondo adesso? Di sicuro non posso lasciarla qui» dissi rivolgendomi a Lewis.

«Dove siete?».

«Non ci avete visto?».

«In alcuni posti non ci sono telecamere, quindi ripeto: dove siete?».

«Spogliatoi femminili. Allora: dove la metto?».

«Di lato alla porta, c’è un armadietto: lo apra, Cullen, dentro c’è una chiave, o forse un mazzo di chiavi, non ne sono sicuro, che apre o aprono tutti gli armadietti, una specie di passepartout. Poi deve solamente trovare un armadietto abbastanza grande da contenerla e chiudercela dentro».

«La fa facile lei, ispettore, questa tipa è alta uno e ottanta e io ho circa venti centimetri meno».

«Ma se qualcuno ti aiutasse, credi di poterci riuscire?».

La voce, proveniente dalle mie spalle, mi fece gelare il sangue nelle vene e lentamente mi voltai.

«Cosa. Cazzo. Ci. Fai. Tu. Qui. Spiegamelo» dissi con una calma che nascondeva tutta la mia agitazione.

«Ti serviva aiuto e io sono qui per aiutarti, questa volta non mi mollerai in mezzo ad una strada. Intendo letteralmente» disse Nick sorridendo furbo.

«Sai che ti dico? Eviterò di sprecare fiato dicendoti che sei un coglione, credo che tu lo sappia già».

«Non puoi proteggermi per sempre… tra l’altro sono più grande di te, quindi chiudi il becco e dimmi che cosa devo fare».

Gli rivolsi l’occhiata più truce che mi riuscì e, sbuffando sonoramente, gli dissi quello che doveva fare: «Ci sono delle chiavi in quell’armadietto lì» dissi indicando un punto vicino la porta: «Aprilo, e prendile, ci servono per aprire un armadietto abbastanza grande da contenerla».

Lui annuì e si incamminò. Poi si fermò, come paralizzato: «Come esattamente dovrei aprire l’armadietto?».

«Avevi detto che volevi aiutarmi, no? Trova un modo per aprirlo!».

Lui sospirò e scosse la testa ridacchiando.

«Che hai da ridere?» chiesi.

«Non cambi mai» rispose come fosse ovvio.

Maschi: chi li capisce è brava!

Mentre Nick si occupava di trovare un modo per aprire l’armadietto, io tentavo di non crollare sotto il peso della rossa.

«Oh, accidenti!» esclamai, dopo averla distesa più o meno delicatamente su una delle panche di legno.

«Che c’è? Che succede?» disse Nick, girandosi di scatto verso di me, allarmato.

«Questa stronza mi ha macchiato la camicia di sangue! Quando si sveglia dovrà pagarmi la camicia per nuova» dissi oltraggiata.

«Tu mi hai fatto venire un colpo per un po’ di sangue? Quella divisa non è neanche tua!» disse lui di rimando.

Io mi fermai un secondo a riflettere: «Hai ragione. Ero convinta fosse mia. Comunque, Nick, mi sembri un po’ nervosetto, non è così?».

«Sta zitta e non farmi prendere un altro colpo, potrei rimanerci stecchito» disse tornando a dedicarsi all’armadietto.

Ad un certo punto, trovò quella che sembrava una scopa e cominciò a colpire ripetutamente la serratura in metallo dell’armadietto.

Io lo guardai stranita, ma lo lasciai fare. Ci provò per diciassette volte e alla fine mi stufai.

Aveva cominciato ad avventarsi con più forza e anche con più rabbia sul metallo e il fracasso era assurdo: «Fermo, fermo, fermo, così mi caverai un occhio se non di peggio» dissi trattenendo la scopa all’ennesimo colpo: «Facciamo le cose con classe: siamo in uno spogliatoio femminile».

«E che importa dove siamo? Tanto non c’è nessuno».

«Intendo dire che possiamo scassinarlo, senza dover fare accorrere tutti gli agenti per il gran baccano che stai facendo»  dissi abbassandomi per guardare sotto le panche.

«E come vorresti fare?».

«Con questa!» risposi trionfante, alzandomi.

«Con quella? È roba che si vede nei film, Macy, non funziona nella realtà» disse scettico indicando la forcina che tenevo tra le dita.

«Beh, cos’hai da perdere? Provaci!» dissi passandogli la forcina.

Mi guardò un secondo negli occhi, probabilmente per accertarsi che non stessi scherzando e poi, con uno sbuffo degno di una locomotiva a carbone, prese la forcina e se la rigirò tra le mani con scetticismo: «Non funzionerà mai».

«Lo hai già detto, adesso provaci».

Si avvicinò lentamente all’armadietto e infilò la forcina nella serratura e cominciò a girare.

Questa storia andò avanti per un po’ e quando avevamo perso le speranze, uno scatto e il cigolio dei cardini dello sportello di metallo, ci fecero spuntare un gran sorriso in faccia.

Trovammo all’interno una chiave: era molto piccola e dall’espressione di Nick, avevo intuito che anche lui come me, trovava improbabile il fatto che quella piccola chiavetta fosse un passepartout.

«Tu sei sicura che l’ispettore abbia detto proprio qui dentro, vero?» chiese lui dubbioso.

«Certo che ne sono sicura, non vi avrei perso tempo se così non fosse stato, non credi?» risposi scocciata dal suo scetticismo.

«Ok, allora adesso dobbiamo trovare un armadietto abbastanza grande da non farla soffocare» disse lui.

«Nonostante il soffocamento non sia una brutta idea, ne ho già trovato uno abbastanza grande da contenerla, mentre tu ti avventavi con la scopa sul metallo dell’armadietto».

«Grande!».

Presi la chiave che Nick mi porgeva e aprii l’armadietto, che si rivelò essere quello delle scope e degli stracci per pulire, che avevo individuato poc’anzi e insieme riuscimmo a chiuderla dentro.

«E adesso che si fa?» chiese lui.

«Adesso si va al locale caldaia della centrale, posizionato esattamente sotto i nostri piedi» risposi calma: «Lì troveremo la bomba».

   
 
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