Painful
Triumph (Forgive me)
«Eleno…
Eleno, andiamo fuori a
cercare le lucciole?».
Il bambino tirò su il capo
ciondolante e la guardò con occhi acquosi,
dopodiché sbadigliò e si portò
entrambe le manine sotto una guancia, accoccolandosi accanto alle gambe
della
sorella gemella.
«Perché invece non ci facciamo un
pisolino, Cassandra?».
Un momento dopo la bimba sentì il
suo respiro farsi più pesante, già dolce
prigioniero di Morfeo, il quale
l’aveva trascinato lontano da quel santuario dedicato ad
Apollo e dalla festa
che sua madre Ecuba e tutti i migliori amici di suo padre Priamo, re di
Troia,
avevano organizzato in onore del suo regale compleanno.
Posò lo sguardo sulla lunga
tavola che solo qualche ora prima era stata colma delle prelibatezze
più
desiderabili e costose di tutta la Grecia, ancora teatro di
festeggiamenti
sfrenati e di risate fin troppo allegre e squillanti a causa del vino
che
scorreva a fiumi come il nettare ai banchetti olimpici.
Guardò di nuovo suo fratello e
non riuscì proprio a capire come riuscisse a dormire con
quel baccano, ma non
appena si fu sdraiata al suo fianco la stanchezza le impedì
di tenere le
palpebre sollevate e cadde nel mondo dei sogni.
***
Alzò gli occhi verso il suo
stesso tempio e capì subito che doveva essere successo
qualcosa lì dentro,
quella notte. Quindi posò una mano sulla porta socchiusa ed
abbassò le
palpebre, mentre le mura stesse gli rivelavano ogni cosa del loro
passato.
Il potente re di Troia aveva
osato festeggiare il suo compleanno nel suo tempio, infrangendone la
sacralità,
senza nemmeno versare un degno sacrificio sul suo altare!
Il mio
santuario profanato, reso alla pari di una squallida osteria!
Il suo viso divino si contrasse
in una smorfia di disgusto e i suoi occhi scintillarono di collera,
certo che
prima o poi Troia intera avrebbe pagato per l’insolenza del
suo prolifico re.
La sua ira aumentò a dismisura
quando entrò nel tempio, abbandonato la sera prima ancora
sporco e maleodorante
a causa dei resti della lauta cena e del vino rimasto in certi
bicchieri.
A quella vista trattenne un urlo
furioso e il suo corpo emanò una luce abbagliante, dalla
potenza così
devastante da poter uccidere intere schiere di soldati in armature di
bronzo,
che rischiarò il tempio e lo riportò alla sua
bellezza originaria.
Un rumore improvviso però lo
interruppe, facendogli voltare di scatto il viso.
«Chi va là?», domandò e la
sua
voce da ragazzino echeggiò in modo quasi sinistro in quel
silenzio rotto solo
da un respiro lieve e al contempo affannoso.
«Non ti vuoi mostrare? E va bene…
verremo noi da te».
Si chinò e con un sibilo richiamò
all’interno del santuario due serpenti, animali a lui sacri e
abbastanza
scaltri da poter andare in avanscoperta e far sì che colui
che si nascondeva ai
suoi occhi si mostrasse alla luce del sole.
Il dio seguì con attenzione i
movimenti sinuosi e silenziosi dei due serpenti fino a quando non
furono
inghiottiti dalle tenebre di quel cantuccio. Li sentì
sibilare e in quel
momento giunsero alle sue orecchie dei gemiti soffocati.
La persona che si nascondeva ai
suoi occhi capaci di vedere persino il futuro era terrorizzata, poteva
sentire
l’odore della sua paura, ma era ostinata a rimanere nascosta
nell’ombra, anche
a costo di farsi mordere dagli animali velenosi.
Apollo, stanco di quel gioco, si
avvicinò con poche decise falcate ed immerse un braccio
sottile nell’oscurità,
dove la sua mano si posò con sorpresa sopra un tessuto
simile a seta pregiata,
lievemente ondulata.
«Per la barba di Zeus, sei tu
forse…?», esclamò pieno di stupore,
prima di farsi coraggio e di sollevare il
gracile corpicino di una bambina.
Con le lunghe braccia stese e le
mani sotto le sue ascelle, la volse senza alcuna difficoltà
verso la luce
dell’alba che entrava dalle porte aperte del tempio. La
osservò attentamente e
si rese conto del suo errore madornale: non era solo una bambina, era
una
bambina la cui bellezza superava ogni legge della natura, nei cui occhi
lucidi
come specchi brillava la fiamma di un futuro già scritto in
tutta la sua
magnificenza.
«Qual è il tuo nome, piccola?»,
le chiese, ancora un po’ rapito dalla sua innocente e quasi divina
bellezza, al pari di Afrodite.
(Oh, che guai se l’avesse sentito!)
«Cassandra».
«Figlia di Priamo e Ecuba, dico
bene?».
La bambina annuì con un gesto del
capo, facendosi cadere sul viso alcune ciocche dei suoi capelli setosi,
rossi
come il sole incandescente del tramonto, la cui sfumatura era
così ben conosciuta
dal dio, dato che ogni sera si occupava personalmente della sua caduta
negli
abissi.
Apollo le rivolse un sorriso
affettuoso, che gli illuminò gli occhi dorati e lo rese
molto più umano.
«Il tuo nome è sinonimo di
trionfo e non ci sono dubbi che un giorno tu…».
Un inaspettato scalpitare di
zoccoli equini lo costrinse ad interrompersi e a lasciare la bambina di
nuovo
con i piedi per terra. Solo ora che la guardava dall’alto si
rendeva conto
della sua reale età, che doveva aggirarsi per forza intorno
ai sei anni. Era
così piccina!
La guardò negli occhi un’ultima
volta e le sorrise brevemente, dicendo: «Ci rivedremo,
Cassandra». Quindi uscì
in fretta dal santuario e con agili balzi si sedette su uno dei rami
più alti
dell’albero accanto al ripido sentiero che in passato i
brav’uomini e le loro
povere mogli, piegati dal timore reverenziale che riservavano agli
Dèi
dell’Olimpo, solcavano per pregare e lasciare le loro
offerte.
Da quella privilegiata posizione,
nascosto tra le fronde rigogliose, poté vedere i due
purosangue dai lucidi
mantelli trascinare di fronte al tempio il carro reale, da cui scese in
tutta
fretta la regina Ecuba.
Quella sciocca, come il suo reale
marito e tutti gli invitati alla festa, a causa del vino si era
dimenticata i
suoi stessi figli, i quali erano stati costretti a dormire rannicchiati
sul
pavimento freddo e sporco. Non proprio il meglio per due principi.
«Oh, tesori miei!», esclamò la
donna portandosi una mano al petto quando vide la piccola Cassandra e
il suo
gemello Eleno comparire sulla soglia, con un braccio a proteggere gli
occhi
ancora abituati al buio.
«Andiamo a casa. Andiamo a casa e
dimentichiamo questo spiacevole incidente. Dobbiamo solo ringraziare
gli Dèi
che non vi sia accaduto qualcosa di male!».
Apollo roteò gli occhi al cielo,
infastidito, e le fece il verso. Poi si sporse un po’ di
più sul ramo per poter
osservare meglio quel piccolo prodigio che d’ora in avanti
avrebbe riempito le
sue notti senza sonno.
I due bambini salirono sul carro
prima della madre e quando il conducente frustò i cavalli
per farli tornare
sulla via di casa si alzò un gran polverone che giunse fino
al dio. Trattenendo
un’imprecazione saltò giù dal ramo su
cui si era appollaiato e si portò nel bel
mezzo del sentiero, dove rimase ad osservare il carro mentre si
allontanava
sempre più, andando incontro alle abitazioni,
così piccole da quell’altezza!, e
alla reggia.
Ad un tratto però scorse una
massa color vermiglio sporgersi verso l’esterno del carro e
sentì come se… come
se il suo cuore immortale avesse perso un battito, sì,
quando realizzò che si
trattava ancora una volta dei capelli di Cassandra, la quale si era
voltata per
cercarlo con lo sguardo.
Apollo alzò una mano, come manovrato
dal canto di una sirena, e pensò che mai nessuna donna,
anche se quella era
ancora una bambina, avesse avuto lo spirito conforme a guardarlo negli
occhi con tanta fierezza e determinazione. Due caratteristiche che in
capo a
qualche anno avrebbero portato Cassandra alla rovina.
***
«Odio fare la
guastafeste, ma
temo di dovervi chiedere di andarvene».
Le Muse smisero di danzare sulla
superficie piatta del lago, su cui si rifletteva in maniera
sorprendente la
luna appesa nel cielo scuro punteggiato di stelle, e si voltarono verso
la voce
di Artemide, dea della caccia e dei boschi, nonché sorella
gemella di Apollo,
dio della medicina, della profezia, del sole e delle arti, tra cui la
musica e
la poesia.
Calliope, la maggiore e la più
saggia tra le Muse, fece un passo avanti con sicurezza. «Se
il nostro signore…».
Apollo si stiracchiò sul tronco
cavo su cui si era seduto ed ordinò, annoiato:
«Andate, svelte».
Le Muse allora si inchinarono e
si allontanarono fino a scomparire tra i fitti alberi ombrosi
aldilà del lago.
Apollo strimpellò ancora qualche
nota con la sua lira, poi percorse dal basso verso l’alto la
fine figura della
sorella: gli occhi argentei brillavano tanto da eclissare persino la
luna, i
lunghi capelli biondi come i suoi erano legati in una treccia, adornati
da
piccoli fiori azzurri; indossava un succinto vestito fatto di foglie,
ma il suo
intento non era quello di sedurre – lei stessa aveva pregato Zeus, suo padre,
perché restasse sempre vergine – bensì
quello di mimetizzarsi nella vegetazione
per sorprendere le prede con le sue frecce mortali.
«Qual buon vento, sorella?»,
domandò alla fine, siccome la dea lo fissava imbronciata e
con le braccia
incrociate sul petto.
«Dimmi che mi sono sbagliata.
Dimmi che non hai davvero intenzione di fare quello che
penso».
Apollo scrollò le spalle, sollevando
le mani. «Non so di cosa parli».
«Per tutti gli Dèi, fratello, è
solo una bambina!».
A quelle parole il dio si alzò di
scatto, lanciando a terra la sua preziosa lira, e si parò di
fronte alla
gemella con gli occhi fiammeggianti.
«Lei non
è una bambina
qualunque! Diventerà la più grande profetessa che
la Terra abbia mai visto, te lo assicuro!».
«Se fosse solo questo ciò che ti
interessa, farla diventare una tua sacerdotessa, non avrei nulla da
ridire, ma
si dà il caso che tu voglia –!».
Le posò un dito sulle labbra e
Artemide notò il suo sguardo spegnersi lentamente,
tormentato dal desiderio.
Dopo qualche istante Apollo si
scostò e si lasciò cadere di nuovo sul tronco
cavo, i gomiti puntati sulle
ginocchia e le mani a sorreggere il suo viso da eterno adolescente.
«Oh, fratello…». La dea si
portò
alle sue spalle e gli fece posare la testa contro il suo ventre, in
modo tale
da poterlo guardare negli occhi mentre gli accarezzava i capelli.
«Io l’ho
sempre detto che l’amore è una cosa per umani, ma
nessuno mi ha mai dato ascolto.
È troppo… rischioso
per noi Dèi,
perché è l’unica cosa che raramente
siamo in grado di controllare, sia nel bene
che nel male».
«Ma lei è così bella! I suoi
capelli, i suoi occhi…».
Artemide sospirò. «Te ne sei
innamorato davvero, dunque».
«Sì, sorella, io… aspetterò
che
diventi donna e poi sarà mia».
«E se non dovesse ricambiare il
tuo amore?».
Apollo la fissò con aria
sperduta. Non aveva neanche preso in considerazione
quell’ipotesi, era
impossibile che una donna mortale rifiutasse l’amore di un
dio!
«Lo farà», dichiarò con voce
sicura, anche se in realtà il tarlo del dubbio aveva
già raggiunto il suo cuore.
***
Quella sera, come
sempre, dopo il
bagno fu accompagnata nella sua stanza da un’ancella di sua
madre. Fu messa a letto
e le venne persino cantata una ninna nanna, ma Cassandra fece solo
finta di
addormentarsi, riuscendo così a rimanere sola.
Erano già passati diversi giorni
dal suo incontro con il dio Apollo e non ne aveva fatto parola con
nessuno,
nemmeno con il suo gemello Eleno: era il suo segreto e desiderava
custodirlo
gelosamente.
Da quando il dio le aveva detto
che si sarebbero rivisti aveva sempre fatto in modo di tenere una
finestrella
aperta, anche se sapeva benissimo che gli Dèi non avevano di
certo bisogno di
simili trucchi per entrare furtivamente in qualsiasi palazzo della
Grecia.
Per ore, prima di abbandonarsi al
sonno, restava appoggiata al davanzale ad osservare il cielo, la luna e
le costellazioni,
e il mare in lontananza, oltre le mura di Troia. E non dubitava che
prima o poi
Apollo sarebbe davvero giunto da lei.
Accadde proprio quella notte,
molte ore dopo che si fosse coricata. Fu il dio in persona a
svegliarla,
accarezzandole i capelli sparsi sul cuscino come rivoli di sangue
fresco.
«Scusa, non volevo svegliarti»,
bisbigliò non appena si accorse dei suoi occhi aperti
nell’oscurità. Cassandra
però fu in grado di scorgere il sorriso colmo di tenerezza
dipinto sul suo
viso, una tenerezza che suo padre Priamo le riservava in rarissimi casi.
La bambina si tirò su a sedere e
rimase in silenzio di fronte a lui, a guardarlo negli occhi per un
tempo che le
parve infinito, col sole che non poteva spuntare oltre la linea
dell’orizzonte.
Ad un tratto Cassandra prese la
sua decisione più irrevocabile e forse sciagurata. Prese la
mano del dio tra le
sue piccine e vi posò le labbra sulle nocche.
«Voglio pronunciare i tuoi
oracoli, mio signore. Voglio che tutti sappiano che tu sei il migliore
tra gli
–».
«Shhh, Cassandra». Apollo
ridacchiò e le accarezzò le labbra con il
pollice. «Sono onorato di ricevere le
tue lodi, ma non è carino parlare in questo modo degli
Dèi: è vero quando i
saggi dicono che siamo tutti molto suscettibili, lassù
sull’Olimpo».
La bambina ricambiò il sorriso e
lasciò che il dio le posasse entrambe le mani ai lati del
viso, avvicinandosi
sempre di più.
«Cassandra…», mormorò,
posandole
le labbra sulla fronte e poi sulle palpebre abbassate. «Tu
diventerai la
migliore profetessa mai vissuta sulla Terra».
«Ti ringrazio, mio –».
«Io mantengo sempre la parola
data, ma vorrei che anche tu mi faccia una promessa».
«Qualsiasi cosa, mio signore».
Apollo passò a baciarle le
orecchie, prima la sinistra e poi la destra, e respirando il profumo
agli
agrumi dei suoi capelli sussurrò le sue ultime parole prima
di correre a far
sorgere il sole, con il cappuccio del lungo mantello nero a coprirgli
il capo: «Devi
promettermi che mi amerai».
***
Una volta ottenuto il
permesso
corse all’interno della camera da letto della madre, dove la
trovò ancora
prostrata di fatica, la pelle imperlata di sudore e i capelli
impiastricciati
contro i lati del viso. Al suo fianco stavano diverse ancelle e la
levatrice,
la quale aveva appena posato il neonato, accuratamente avvolto in un
panno, tra
le braccia del re Priamo.
«Padre, madre! È una sofferenza
per me dire questo del mio stesso fratello, ma ne varrà la
pena se verrà
salvata la nostra potente città…».
La regina Ecuba gemette e divenne
di un pallore mortale, tanto che uno stuolo di ancelle si precipitarono
ad
inumidirle la fronte e le labbra. Ma il re non vi badò ed
esclamò, con la
fronte aggrottata in quel modo che dava ancora più
importanza alle sue folte ed
ispide sopracciglia bianche: «Che cosa stai dicendo,
Cassandra?».
«Sto dicendo che quel neonato ci
porterà alla rovina! Troia verrà distrutta a
causa sua! L’ho
visto!».
«Smettila subito, Cassandra. Non
voglio mai più sentire una cosa del genere uscire dalla tua
bocca, hai capito?».
Il suo sguardo severo la
costrinse ad annuire, nonostante fremesse per urlare ancora il
terribile futuro
che attendeva la loro bella città – una guerra che
sarebbe stata narrata per
l’eternità, impossibile da dimenticare come le
invalicabili mura distrutte, le
morti innocenti, gli stupri, le fiamme, le
fiamme! – nel caso in
cui quel bambino avesse continuato a vivere.
«Hai sentito quello che ho detto?»,
ringhiò ancora suo padre, estrapolandola dai suoi stessi
sciagurati quanto
esatti pensieri. «Fuori!».
Cassandra scacciò con uno
schiaffo la mano dell’ancella che le era andata vicino per
accompagnarla fuori
dalla stanza e quando fu di spalle alla porta socchiusa, in piedi nel
breve
fascio di luce calda proveniente dall’interno, udì
il nome che aveva già visto
nelle sue visioni.
«Paride. Mio figlio si chiamerà
Paride».
«Lascia che i tormenti ti
scivolino addosso, mia piccola prediletta», le
sussurrò all’orecchio, dopo
averle scostato dolcemente i capelli.
«Tu dici sempre che sono la
migliore, eppure mio padre Priamo non mi ha creduta».
«Tu sei senza dubbio la migliore,
Cassandra, tanto da sembrare incomprensibile a normali occhi umani.
Quante cose
gli uomini come tuo padre non sanno sugli Dèi, su i loro
desideri più profondi
o sulle motivazioni delle loro azioni? Sono ciechi e non riuscirebbero
a capire
comunque, nemmeno se i loro occhi fossero aperti».
La bambina sospirò e posò la
guancia contro la spalla del dio, gli occhi rivolti verso le luci della
città
circondata delle alte mura.
«Che senso ha essere i migliori,
o Dèi, se non si viene capiti dalle persone che si amano? Se
il tentativo di
proteggerli viene interpretato come una specie di insulto?».
Apollo le posò una mano sulla
nuca ed accennò un sorriso, chiedendosi perché
ancora si sorprendesse di fronte
ad un prodigio del genere. Ed era ancora una bambina! Una bambina in
grado di
far domande sconvenienti ad un dio, perfettamente a suo agio tra le sue
braccia, sul bordo di un cornicione a vari metri d’altezza.
«Non ne ho la minima idea,
Cassandra».
Quella volta fu lui a sorprendere
lei, dato che si scostò un poco per poterlo guardare dritto
negli occhi, senza
alcun sotterfugio, con una profondità tale da costringerlo
suo malgrado a
deviare il suo sguardo e a saltare giù dal parapetto con lei
ancora stretta tra
le braccia. La condusse nella sua camera e la posò
delicatamente sul suo letto,
inginocchiandosi di fronte a lei già con il cappuccio nero
sulla testa, a
coprirgli i capelli scompigliati e dai mille riflessi dorati.
«Desideri forse che punisca tuo
padre per averti mortificata in questo modo?», le chiese in
un sussurro, un
sorriso furbo dipinto sulle labbra.
Cassandra però gli posò le manine
sulle guance, lasciandolo a bocca aperta, e fissò i suoi
intensi occhi castani
in quelli dorati del dio.
«La vendetta è cibo assai amaro,
mio signore. Lo so per certo, come lo sai tu. Tutti, sia gli uomini
quanto gli
Dèi, commettono degli errori. Più
l’errore è grande più è
doloroso, ma mai
quanto quello commesso a nostro discapito da una persona a noi cara. La
vendetta sorge quando non si ama abbastanza da saper perdonare e io, lo
giuro,
amo mio padre e non desidero altro che la sua
felicità».
Apollo si alzò in piedi e le
rivolse uno sguardo circospetto, sulla difensiva. Gli erano tornate
alla mente
le parole di sua sorella Artemide e solo ora riusciva a credere che gli
uomini
potessero e sapessero amare molto meglio di loro, Dèi
dell’Olimpo. Amare tanto
da non ricorrere alla vendetta, tanto da porgere l’altra
guancia. E Cassandra…
lei era molto più che una semplice umana, quindi molto
più sapeva della vita e
dell’amore stesso.
Questa consapevolezza riportò a
galla quel dubbio che col passare dei giorni si era assopito nel suo
animo
divino e per la prima ed unica volta in vita sua, seppur per un attimo
fugace,
ebbe paura.
«Come desideri», rispose quando
si riprese, avvolgendosi nel proprio mantello e dirigendosi verso il
balcone.
Saltò sul parapetto e prima di
lanciarsi le rivolse un’ultima occhiata, grazie alla quale
poté vedere il
sorriso velato di compassione che gli rivolgeva, i suoi occhi fulgidi
ora un
po’ più spenti. Ma forse era solo una sua
impressione.
«Fai bei sogni, mia profetessa»,
sussurrò quando ormai era troppo lontano per essere udito,
sostenuto dal vento
marino.
Gli anni trascorsero
velocemente
e nonostante Cassandra non avesse perso la sua innocenza, col tempo era
riuscita ad intendere perfettamente ciò che il suo dio aveva
voluto dire quando
le aveva conferito il dono della preveggenza.
La giovinezza le aveva impedito
di capire il significato nascosto dietro quella promessa, ma ora ogni
volta che
vedeva Apollo, quando magari le era troppo difficile proferire da sola
un
oracolo oppure quando la passava a trovare di sua spontanea
volontà, temeva che
fosse arrivato il fatidico momento, quello che l’avrebbe
annientata.
La sera del suo quindicesimo
compleanno si ritirò nella sua stanza molto presto, a causa
di una visione
improvvisa che l’aveva lasciata senza fiato e pallida come un
cencio proprio
mentre stava danzando con suo padre.
Lasciò accese alcune candele sul
pavimento e si inginocchiò di fronte al piccolo tempio che
si era fatta
costruire per pronunciare i suoi oracoli. Non ebbe però la
forza per pregare il
suo dio e le lacrime solcarono il suo viso candido senza che lei
potesse fare
qualcosa per impedirlo.
Fu così che la trovò Apollo, con
la fronte posata sul marmo freddo e le mani tra i capelli rossi.
Preoccupato, corse all’interno
della stanza e le posò teneramente le mani sulle spalle.
«Che cos’è accaduto,
mia Cassandra?».
«Nulla, mio signore», rispose,
asciugandosi le guance umide con rapidi gesti delle dita.
«E allora per quale motivo
piangi?».
Cassandra scosse lievemente il
capo e si alzò, rivolgendogli un mezzo sorriso. Apollo
però non si arrese e la
cullò, attirandola contro il suo petto e cingendole la vita
con le braccia. La
giovane profetessa esitò, ma alla fine, aggrappandosi alla
folle speranza che
la sua previsione fosse errata, posò le mani sul suo petto
muscoloso e si
rilassò, traendo un profondo respiro.
«Da quando hai dei segreti tanto
oscuri da non poterti confidare col tuo dio?», le chiese
ancora e le posò due
dita sotto al mento per poter immergere gli occhi nei suoi.
«Mia Cassandra, sei
così bella questa sera, nonostante le lacrime abbiano
sfregiato il tuo volto…».
Le accarezzò una guancia vellutata con il dorso delle dita e
le fiamme delle
candele sul pavimento si ridussero un poco, immergendo la stanza nella
penombra.
«Rammenti la promessa che mi feci
anni fa, quando ti conferii il dono della preveggenza?»,
sussurrò suadente, le
labbra vicine al suo orecchio.
Cassandra trasalì e il suo cuore
rallentò tanto da farle pensare che avrebbe raggiunto il
regno di Ade da un
momento all’altro.
«La rammento benissimo, mio
signore», rispose con un filo di voce, iniziando a tremare
tra le sue braccia
forti e sottili.
«Molto bene, Cassandra; è giunto
il momento di mantenerla».
Apollo le scostò i capelli dalle
spalline del lungo vestito da cerimonia che indossava e
lasciò che questo le
scivolasse sulla pelle e cadesse sul pavimento con un fruscio a
malapena
udibile.
Cassandra lo guardò con occhi
grandi, lucidi ed imploranti, ma il dio non vi badò, troppo
impegnato ad
ammirare il suo corpo nudo ancora acerbo, ma già bellissimo.
La prese per le ginocchia e la
stese sul letto, senza mai liberarla dalla stretta delle sue braccia.
In un
attimo che fece tremolare le fiammelle delle candele anche il dio fu
nudo e
pronto a toglierle la verginità, con dolcezza e decisione,
rendendola
finalmente sua. Ma la ragazza, con gli occhi chiusi e le gocce delle
lacrime
sulle tempie, scosse il capo con vigore e gemette: «Ti prego,
mio signore, non
farmi questo».
«C-Cosa?». Con orrore, Apollo levò
il capo. «Stai rifiutando il mio amore, Cassandra?».
La profetessa negò ancora. «Mai,
mai, mio signore. Cerca di capirmi: io ti amo più della mia
stessa vita, ma il
mio amore è come quello che lega una figlia al proprio
padre».
«Ma tu hai promesso, tu…».
«Mi dispiace. Mi dispiace…».
Apollo si alzò e le scoccò
un’occhiata truce, tanto che le candele sul pavimento si
sciolsero in un
istante, sotto un fuoco dirompente.
«Io ti ho resa la più grande
profetessa mai vissuta sulla Terra, Cassandra, e tu mi ripaghi in
questo modo?».
La ragazza si tirò su a sedere,
coprendosi il seno con un braccio, e gli mostrò gli occhi
colmi di lacrime e di
dolore straziante.
«Come dovrei comportarmi, ora?»,
le chiese in un sussurro, con un’espressione adirata e allo
stesso tempo
vagamente confusa.
«Rammenti, mio signore, quando mi
posavi sulle tue ginocchia oppure quando mi accarezzavi i capelli?
Anche quello
era amore, glielo posso assicurare, e io lo ricambierò
sempre. Perdonami, se
ciò non ti basta più».
Apollo tornò a guardarla
severamente, gli occhi ombreggiati di una sofferenza inconcepibile per
un dio e
perciò intollerabile.
Noi
Dèi non siamo come voi umani, Cassandra. Noi Dèi
non sappiamo amare
come voi e le offese, ciò che tu diverse lune fa chiamasti
“errori”, sono
raramente degne di perdono. Forse perché noi Dèi
non dimentichiamo, non
dimentichiamo mai.
«Sta bene, Cassandra», esclamò
all’improvviso, tornando persino a sorriderle dolcemente,
come solo lui sapeva
fare.
La profetessa però non riuscì a
tranquillizzarsi: aveva capito, e senza l’ausilio della
Vista, che il dio non
ci sarebbe passato sopra così facilmente.
Apollo tornò vestito e a causa
del fruscio provocato dal suo lungo mantello nero le candele ormai fuse
si
spensero, lasciando la stanza completamente al buio, con Cassandra
ancora nuda
sul letto.
«Mio signore…», mormorò
quest’ultima, con voce tremante.
Apollo però le fece segno di
stare in silenzio, posandosi un dito sulle labbra rosee, e i suoi occhi
dorati
furono attraversati da un lampo di malizia a lei sconosciuta.
«Hai preso la tua decisione, mia
prediletta. Tu sai che le decisioni hanno un prezzo,
nevvero?».
Cassandra annuì e le lacrime
tornarono a scorrerle sul viso, mentre il suo corpo veniva scosso da
forti
brividi, ora di nuovo steso sul letto.
«Uccidimi pure, mio signore».
Apollo schioccò la lingua contro
il palato e si inginocchiò ai piedi del letto.
«Mia cara, non intendo privarmi
della tua visione. Quello che ti chiedo, per alleviare un poco la mia
delusione, è di concedermi un solo ed unico bacio».
Cassandra allora si rialzò a
sedere e, seppure confusa ed incerta, si avvicinò al dio.
Reclinò il capo e con
l’ultimo briciolo di coraggio rimastole posò le
labbra sulle sue, trovandole
calde e morbide. Percepì perfettamente il dio sorridere
mentre le portava una
mano sulla nuca e le strattonava un poco i capelli.
«Ti maledico, Cassandra. Che le
tue profezie rimangano per sempre inascoltate e che la loro sciagura
faccia
patire tutti coloro a cui tieni».
Aveva pronunciato quelle parole
con un filo di voce, ma con una cattiveria tale da farle sfuggire dalle
labbra
un singhiozzo tanto forte da farla sobbalzare. Ma il dio le tenne la
testa
ferma, senza darle alcuna possibilità di divincolarsi, e le
leccò le labbra per
sigillare ulteriormente la sua tremenda maledizione. Quindi si
alzò e senza più
rivolgerle uno sguardo si diresse verso il balcone.
«Perché?!», urlò Cassandra,
disperata. «Perché, mio signore?!».
«Lo sai benissimo il perché»,
rispose duramente. Ma alla fine cedette, con voce lugubre e stanca:
«Non hai
deciso di mentire ad un dio: hai deciso di mentire a me».
Detto ciò, Apollo saltò sul
parapetto e poi giù, dove il vento lo sorresse e lo
trascinò lontano dai
singhiozzi e dai gemiti della bella Cassandra, la sua prediletta.
D’ora in
avanti, l’inascoltata.
Un improvviso dolore all’altezza
del petto gli fece stringere un pugno sul punto esatto, oltre che
comprendere
le parole che la stessa Cassandra gli aveva rivolto quando era ancora
una
bambina: «Più
l’errore è grande più è
doloroso, ma mai quanto quello commesso a nostro discapito da una
persona a noi
cara».
***
Le fiamme. Non le aveva
dimenticate, nonostante la visione che aveva avuto prima della nascita
di suo
fratello Paride risalisse ormai a tempi lontani.
Quelle stesse fiamme erano
tornate a tormentare i suoi sogni da quando suo fratello, alla nascita
esiliato
ed affidato alle cure di un pastore fidato sul monte Ida, era tornato
in città
per partecipare ai giochi olimpici ed era stato riconosciuto. Aveva
provato ad
avvertire i suoi genitori, aveva persino pianto con i capelli sui piedi
di suo
padre, supplicandolo affinché lo uccidesse per allontanare
la catastrofe che
sarebbe piombata sulla loro ricca città, ma nulla: le sue
urla erano rimaste
inascoltate, proprio come aveva predetto il dio del sole, e qualcuno
aveva
persino iniziato a dire che era diventata pazza.
Paride, un ragazzo giovane e
bello, era stato toccato dalla sciagura ancor prima che nascesse,
poiché la
regina Ecuba, sua madre, aveva avuto un sogno premonitore ed infausto
prima di
partorirlo: anche lei aveva visto le fiamme, ma quella volta le
uscivano dal
ventre assieme ad una catasta di serpenti velenosi e sibilanti. Fu
grazie a
quel sogno che suo padre alla fine cedette ed ordinò di
allontanare il figlio
sciagurato da Troia, ma Cassandra credeva profondamente che in qualche
modo la sfortuna
di Paride fosse rimasta tra quelle mura e lei per prima e
più di tutti ne fosse
stata toccata.
Paride era cresciuto quindi come
un pastore, allevando mandrie di tori, e proprio in occasione di una
gara tra
contadini fu scelto per giudicare quale fosse il toro più
bello. Fu allora che
gli Dèi, in particolare Zeus, sovrano degli Dèi e
padrone delle folgori, ed
Ermes, il messaggero degli Dèi e il re degli inganni, gli
comparvero innanzi
per la prima volta, considerandolo tanto onesto da poter essere il
giudice in
un’altra gara, ben più importante e…
tragica.
Paride infatti fu costretto a
scegliere quale fosse la dea più bella tra Afrodite, dea
della bellezza e
dell’amore; Atena, vergine dea della battaglia e
dell’intelligenza; ed Era,
sposa di Zeus e dea della fedeltà coniugale. Ognuna delle
tre, smaniose di
vincere il pomo d’oro forgiato da Eris, dea della discordia,
gli fecero delle
promesse, ma per la mente di Paride nessuna fu tanto intrigante quanto
quella
di Afrodite, la quale gli promise che avrebbe ottenuto
l’amore della donna la
cui bellezza sfiorava persino la sua: Elena, regina di Sparta e sposa
di
Menelao. Paride consegnò il pomo d’oro ad Afrodite
e questa sua scelta fu la
causa scatenante della terribile sciagura che cadde su Troia, una
guerra per
tempo prevista da Cassandra, ma ignorata.
Ora le fiamme la stavano
inseguendo, fiamme mille volte più dolorose di quelle delle
sue visioni, che
bruciavano la sua città, distruggevano il suo palazzo ed
uccidevano la sua
gente, tra cui la sua famiglia.
Entrò nella sala del trono e una
vampata d’aria ustionante la investì, insieme al
fumo che la fece tossire
furiosamente.
«Padre! Padre mio, ti supplico…».
Il re Priamo, accasciato sul suo
trono, aprì gli occhi vacui e fissò la figlia
rivolgendole un sorriso mesto
mentre le accarezzava i capelli con una mano debole.
«Cassandra, figlia mia… avevi
ragione, vedi? Avevi ragione…».
«Lo so, padre, lo so», rispose in
lacrime. «Ma non c’è bisogno che tu
muoia. Sono sicura che puoi salvarti, tu…».
Re Priamo le rivolse uno sguardo
truce e la spinse via con le sue ultime forze. La maledizione di Apollo
era
tornata a colpire.
«Vattene, strega! Lasciami morire
con la mia città!».
Cassandra si tirò su da terra
appena in tempo per evitare che una trave incandescente le cadesse
addosso.
Volse le spalle al padre e, sgomenta e con i polmoni doloranti, corse
fuori dal
palazzo. Senza sapere come riuscì a prendere una giumenta e
al galoppo
attraversò la sua città distrutta e saccheggiata
dai barbari achei, fino a
giungere sull’altura in cui si trovavano il santuario
dedicato ad Apollo e
quello dedicato a Pallade Atena. Con cuore stretto in una morsa
entrò in
quest’ultimo, a cercare un rifugio e la protezione della dea
vergine.
Si prostrò di fronte all’altare,
pregando ad alta voce, singhiozzando e strappandosi i capelli, ma venne
bruscamente interrotta quando le pesanti porte alle sue spalle
sbatterono
contro le pareti nell’aprirsi. Tremante, si voltò
e con orrore capì che quella
volta non era stata ascoltata nemmeno dagli Dèi, tutti
– o quasi – troppo
impegnati ad assistere all’indimenticabile caduta di Troia.
Chissà, forse sarebbe davvero
riuscito a perdonarla e a salvarla dal suo infelice destino, se solo
fosse
entrata nel suo santuario, laddove tutto era iniziato anni orsono. Ma
non
l’aveva fatto, non aveva creduto in lui. Aveva forse smesso
di amarlo? O
pensava semplicemente che fosse ancora troppo arrabbiato con lei per
poterla
soccorrere?
Chissà. Da molto tempo ormai si
era disinteressato delle menti e dei cuori umani, dopo la delusione che
quella
donna gli aveva provocato.
Nascosto dietro l’imponente
statua di Pallade Atena, posata sopra l’altare,
osservò Cassandra pregare
furiosamente e piangere ed ascoltò i suoi gemiti e i suoi
singhiozzi.
Ad un certo punto arrivò Aiace di
Locride, un guerriero impetuoso ed insolente, il quale decise che lei
sarebbe
stato il suo tesoro da portare via da Troia.
Apollo rimase immobile persino
alle urla strazianti della sua Cassandra, stuprata lì su
quei gradini di marmo
freddo, a pochi passi da lui, ma non ebbe la forza di guardare, proprio
come
quando non riusciva a fronteggiare il suo sguardo fiero e sicuro, da
dea
bambina.
Quando Aiace terminò, soddisfatto
della sua conquista, Cassandra mormorò qualcosa di
incomprensibile a lui come
al dio.
«Come dici, principessa?»,
domandò il guerriero, con aria bellicosa.
Cassandra lo fissò con quei suoi
occhi incredibili, fiammeggianti come torce, ed urlò
rabbiosamente: «Come osi
tu, mortale, contrapporti all’immenso dio Apollo, colui a cui
appartiene tutto
il mio essere?! Che tu sia maledetto, che tu
sia…!».
Aiace la azzittì con un pugno
sulla bocca, che le spaccò un labbro. Apollo, rinvigorito
dalle parole d’eterno
amore – seppur a modo suo – di Cassandra, non
poté tollerare quell’affronto e
decise che Aiace avrebbe pagato con la sua stessa vita.
Infatti, entrò nella sua mente e
lo spinse a gettare a terra la statua di Pallade Atena senza
un’apparente
ragione. Questa si infranse in mille pezzi e il rumore fu talmente
forte da
celare la breve risata compiaciuta di Apollo. Di sicuro la dea avrebbe
provveduto a vendicarsi anche per conto suo.
Ma il suo piano si rivelò
impreciso, poiché commise il piccolo quanto fondamentale
errore di togliersi la
protezione che la statua della dea gli aveva offerto fino a quel
momento.
Quando Aiace si caricò l’ormai
sottomessa Cassandra sulla spalla e si diresse verso la porta, la
profetessa
aprì gli occhi e lo vide, lì dietro
l’altare.
I loro sguardi si incontrarono e
Apollo aprì la bocca per parlare, ma non un suono
uscì dalla sua gola. Ciononostante
Cassandra gli rivolse un tenero sorriso, imitando quelli che lui era
solito
donarle quand’era bambina.
Apollo sbatté le palpebre e in
quella frazione di secondo Aiace e Cassandra scomparvero oltre le porte
del
tempio, come risucchiati dalla notte buia rischiarata dalle fiamme che
incendiavano Troia.
Ancora una volta si portò un
pugno sul petto, lì dove aveva sentito
un’improvvisa fitta di dolore. Poi si
fissò le mani, quelle stesse mani che avevano sollevato
Cassandra nel suo santuario,
quelle che le avevano accarezzato i capelli da bambina, quelle che non
avevano
preso arco e freccia per uccidere alle spalle il suo aggressore. Quelle
mani
non l’avevano protetta, ma sapeva benissimo, grazie a quel
suo ultimo sorriso,
che se solo avesse potuto Cassandra le avrebbe strette e baciate ancora
una
volta, come faceva da piccola, con innocenza e devozione.
L’aveva già perdonato.
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Era da tempo che volevo
scrivere
qualcosa riguardante gli Dèi dell’Olimpo, ma non
avevo mai avuto né l’argomento
né l’ispirazione adatta. L’altro giorno
è arrivato tutto insieme e ho buttato
giù questa one-shot.
Mettendo da parte che Apollo è in
assoluto il mio dio preferito, mi piace moltissimo anche Cassandra, la
trovo un
personaggio dalle mille sfaccettature e spero di essere riuscita a
dipingerla
al meglio.
Ovviamente la storia è una mia
reinterpretazione e persino i caratteri dei personaggi sono stati da me
modellati, ma spero che il risultato sia comunque di vostro gradimento.
Aspetto
di sapere che cosa ne pensate! ;)
Alla prossima! Vostra,
_Pulse_